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Gli autobus si fermano dopo dieci minuti. Ci ritroviamo in un villaggio deserto di cui non conosciamo nemmeno il nome, nei sobborghi della città. Le guardie ci fanno scendere:

-Forza! Fuori! Mettetevi nelle case che volete!

Vaghiamo, i bambini appresso a noi. Scendendo dall’autobus, insieme alle mie sorelle abbiamo proposto ad altre due donne di unirsi al nostro gruppetto. Siamo più protette se siamo più numerose. Sono anche loro donne di Kocho, delle lontane cugine.

Le guardie ci promettono di portare da mangiare una volta che ci sistemiamo. Dobbiamo trovare un tetto. Davanti a noi, vediamo una casa malandata. Di fianco, si innalza una dimora nuova, ma già occupata. In casi estremi, mi dico che la vecchia casa può andare. E in ogni caso non credo che ci resteremo a lungo. Dobbiamo trovare un modo per fuggire.

Spingo la porta d’ingresso. Non si chiude, ne resta solo una parte. Fortunatamente però l’interno non è stato saccheggiato. Ci sono materassi, tappeti, una cucina con delle pentole e un forno. Ci sono tre stanze in tutto, ma non c’è l’elettricità. In una delle camere è appesa la foto di un anziano signore al muro. Dal suo vestiario, e dal nome sotto il ritratto, deve trattarsi di uno sciita. Deve essere partito in fretta e furia con la sua famiglia all’arrivo delle truppe del Califfato.

La sera stessa ci fa visita un combattente dell’ISIS , l’arma a tracolla. Ci annuncia: -Vi farò dei badge per il cibo, vi permetteranno di avere delle razioni quotidiane. È un uomo giovane e nervoso. Mi guarda con la coda dell’occhio e mi domanda: -Sei sposata?

-Sì, ho un figlio.

Gli mostro Awar che gioca per terra con una bottiglia di plastica. -Qual è il nome del padre di tuo figlio?

Sussulto.

-Daoud! Mio marito si chiama Daoud. La guardia mi allunga il badge e se ne va.

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* * *

Nella casa siamo tredici donne e diciassette bambini. Durante i primi giorni cerchiamo di creare una routine. Ogni famiglia ha la propria camera, ma mangiamo tutti insieme. Gli uomini dell’ISIS passano tutte le mattine in macchina. Suonano il clacson ed io esco a cercare le provviste. Il menù è sempre infetto: del riso ammuffito, del burro rancido, la farina piena dei punteruoli del grano, delle uova andate a male, a volte del latte. Ci danno anche delle damigiane d’acqua che servono a malapena a dissetare tutti. A volte i bambini si mostrano restii di fronte al piatto. Vogliono la carne, i dolciumi. Ma dura poco: sanno che lamentarsi non serve a niente.

Le altre donne ed io passiamo le giornate a piangere e a domandarci cosa sia successo al resto della nostra famiglia. Sono molto preoccupata soprattutto per mia sorella minore Yasmine e mia cugina Seve, dopo aver visto quello che fanno alle ragazzine quei mostri dell’ISIS.

Rimaniamo rinchiuse dentro casa, non arrischiandoci a fare visita agli altri prigionieri. Ci sono uomini armati che ci sorvegliano, sono giovani dalla barba scrupolosamente tagliata. Uno di loro zoppica leggermente. Siamo riuscite a scorgere i loro volti ormai. Portano una tenuta militare, o comunque una specie di tunica corta che arriva alle ginocchia, come delle gonne. Noi li troviamo ridicoli perché nessuno veste così in Iraq.

Al mattimo, lasciamo i bambini uscire nel cortile adiacente. Hanno bisogno di giocare, ma quando sentono il rumore di una macchina, rientrano correndo a nascondersi tra le nostre braccia.

* * *

A mezzogiorno, durante la pennichella, ci svegliamo di soprassalto. Qualcuno colpisce forte alla porta. È un uomo dell’ISIS. L’entrata della nostra camera è sbarrata con un catenaccio. Lo sta per rompere. Urla in arabo:

-Aprite!

I bambini si mettono a piangere. Ho talmente paura da pietrificarmi e non osare alzarmi per obbedire. L’uomo spara sulla porta con la sua arma e poi la butta giù con un calcio. Sembrava di essere in un incubo. È un giovane dagli occhi folli, accompagnato da sei combattenti. Alcuni tra di loro hanno il mitra in mano, altri la pistola nella custodia, armi troppo moderne.

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Seduti per terra, i bambini si rannicchiano tra le nostre braccia, e velocemente noi mettiamo i nostri foulard sui capelli. Non aspettavamo visite. Gli uomini ci ispezionano una per una, strappano via i nostri veli. Il loro capo mi domanda:

-Qual è il tuo nome? -Sara...

-Quanti anni hai? -Ho 40 anni!

-Mostrami le tue mani!

Eseguo gli ordini. Ma lui è sorpreso: -Ma non hai rughe sulle mani! Rispondo:

-Vengo da una famiglia agiata, è per questo che non ho le mani rovinate. Non lavoro nei campi. L’uomo storce il naso:

-Comunque siete ripugnanti! Puzzate! Non vi cambiate mai i vestiti?

Insieme ai suoi accoliti, mette a soqquadro tutto quello che trova. Sentendoli discutere, comprendo che stanno cercando i cellulari nascosti. Poi finalmente il capo gira i tacchi e si dirige verso la porta. Faccio un grosso respiro e gli domando:

-Sapete dove sono gli uomini del nostro villaggio? Sprezzante, risponde:

-Non li abbiamo noi, ma un altro gruppo. Non sappiamo dove sono rinchiusi... Lasciano la camera dando un ultimo calcio alla porta.

Qualche minuto più tardi, bussano alla porta della casa di fianco. Poco dopo, sentiamo riecheggiare delle urla. Di nascosto, osservo quello che succede dalla finestra. Trascinano una giovane donna per i capelli. Lei piange, si dibatte, accompagnata dal figlio. Un’altra donna, più anziana, esce dalla casa e supplica gli uomini:

-Avete già preso mia figlia, lasciatemi mia nuora! Per l’amor del cielo!

Un uomo ritorna indietro, una sbarra di ferro alla mano. Colpisce la donna anziana più volte e più volte ancora sulla testa. Riusciamo a percepire l’atroce rumore dei colpi sul cranio. La donna si rannicchia per terra, sanguinante.

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La storia di Myriam