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La storia di Myriam

La scelta dell’Amir

Myriam guarda a terra. Come se questo potesse renderla invisibile. Sente la stoffa della tunica di Abou Ahmed sfiorarla. Lui si fa spazio tra le file. Scruta una a una le giovani ragazze sedute a gambe incrociate. È il capo di Mosul. Non appena è entrato nella stanza, Myriam l’ha trovato veramente un obbrobrio. Magro, molto alto, con una brutta pelle forata dalla sifilide. Deve avere circa quarant’anni. Ha la barba logora.

Uno dei suoi uomini lo segue, un ragazzo, con l’arma a tracolla, borbotta con cattiveria: -Sporche yazidi... Luride puttane del diavolo...

Accanto a Myriam, le sue cugine Seve e Yasmine fissano il pavimento. Cercano soprattutto di evitare il contatto visivo con l’uomo. Tanto più trattenere il respiro. Non attirare la sua attenzione. Scomparire sottoterra. Abou Ahmed sfila davanti a Myriam continuando l’ispezione.

Le giovani donne vengono portate in autobus fino alla città di Mosul. Arrivano alle 3 del mattino. Le guardie le rinchiudono in una grande casa, abbandonata dai suoi proprietari. Una famiglia di cristiani, secondo i simboli religiosi che decorano le pareti.

Myriam ha contato in tutto venti prigionieri, adolescenti e donne sposate che non hanno ancora bambini. La più piccola è una bambina che avrà avuto appena nove anni. Non c’era neanche abbastanza spazio per via del continuo flusso di ragazze riversate nella casa. Le guardie poi hanno voluto i documenti di identità. Dopo essere state registrate, le ragazze si sono addormentate. Ma Myriam aveva i nervi a fior di pelle, incapace di trovare sonno. Ha notato la presenza di due guardie al primo piano e quattro di sotto. Fuggire era impossibile.

A mezzogiorno, arriva l’Amir.

Ora fa su e giù per la stanza e minaccia una ragazza bionda dalla pelle diafana con l’arma: -Tu, in piedi, e vai laggiù verso l’entrata!

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-Guardami negli occhi! Alzati!

Myriam si raddrizza, ha le gambe molli. Lui la guarda attentamente e le dice di raggiungere il gruppo all’entrata. Sceglie anche le sue cugine e altre sei ragazze. Ne ha selezionate in tutto una trentina. Vengono portate in un’altra casa della città.

Questa volta si tratta della dimora di una famiglia sciita. Sulle pareti sono incorniciate delle preghiere in lettere dorate alla gloria dell’imam Hussein, e una foto della famiglia in pellegrinaggio a Kerbala, luogo santo per gli sciiti. Sul posto ci sono già altre cinque ragazze yazidi. Queste gettano uno sguardo stanco e triste alle nuove arrivate. Ci sono due ragazze che Myriam conosce, Samia e Meram, due sorelle di Kocho. Le prigioniere si sdraiano l’una vicina all’altra per terra dopo aver mangiato una cialda di pane. Quando tutti dormono, Myriam fa finta di andare al bagno e getta di sfuggita uno sguardo alla porta di ingresso. Due soldati armati fanno la guardia.

* * *

Il giorno dopo, Abou Ahmed è di ritorno. Di nuovo, fa allineare le ragazzine. Sono immobili, sedute a gambe incrociate, in silenzio. Lui fa avanti e indietro. Domanda a una di loro di alzarsi in piedi. La osserva. La fa sedere di nuovo. Infine, sceglie Samia. È un’incantevole giovane donna di diciannove anni dai lunghi capelli biondi e dagli occhi marroni. Lei si alza lentamente in piedi. Myriam vede il mento della ragazza tremare, stringe forte la mano di sua sorella Meram:

-Per favore, voglio restare con mia sorella! Per favore, non separateci! -Vuoi tua sorella? Molto bene, viene anche lei con noi!

Abou Ahmed ostenta un sorriso maligno. Prende entrambe le sorelle per il braccio. Queste si mettono a piangere e si rifiutano di avanzare. Gli scagnozzi di Abou Ahmed le trascinano per i capelli fino in cima alle scale. Le porte di sopra sbattono, risuonano grasse risate e pianti.

Myriam riprende a respirare. Il sudore le cola lungo la nuca. Questa volta l’ha scampata. Prova una profonda stanchezza. La testa le gira tutto il tempo, ha la nausea. Si domanda se abbiano messo della droga nel cibo o nell’acqua. O in entrambi.

Quella sera stessa, Abou Ahmed e i suoi uomini riportano le due sorelle nella stanza al pian terreno. Le ragazze hanno gli occhi rossi, i capelli spettinati. Piangono di rabbia in silenzio. Myriam non può parlare con loro, ma ha capito tutto.

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I giorni seguenti, Abou Ahmed ed i suoi uomini cercavano spesso Samia e la portavano di sopra. Lei sembra essere completamente altrove, con quegli occhi nel vuoto. Si appisola, rannicchiata per terra. Mormora che gli uomini l’hanno forzata a prendere degli anestetizzanti ad alta dose affinché lei non potesse più sentire il suo corpo. A volte scelgono altre prede.

Ogni due giorni, un gruppo di miliziani bussa alla porta di casa per venire a cercare delle ragazze. Solo i capi potevano servirsi, e sono degli uomini già anziani. I più giovani non hanno il diritto di toccare le prigioniere.

Myriam ha paura di un omiciattolo robusto, dagli occhi crudeli. Abou Samir. Quando lui entra nella stanza tutte le ragazze si rannicchiano negli angoli. Abou Samir le guarda con aria disgustata.

-Sono ripugnanti! Non potete lavarvi, sporche puttane yazidi? Sottospecie di vacche!

Le ragazze hanno trovato il modo per opporre resistenza. Fanno lo sciopero della doccia. Non si lavano, si ingarbugliano i capelli per apparire sporche e si strofinano il viso con della cenere che recuperano dal forno della cucina.

Un giorno, alcuni uomini riportano un’adolescente. Ha i pantaloni bagnati. La picchiano con dei cavi e la gettano per terra prima di ripartire, seccati. Malgrado il dolore pulsante, la giovane donna sorride a Myriam e con fierezza le sussurra:

-Quando mi hanno portata nella loro macchina, mi sono fatta la pipì addosso per disgustarli!

Ormai è trascorsa una settimana. Myriam è disperata. Non uscirà più da quell’inferno. Le sue cugine Seve e Yasmine sono state scelte il giorno prima. Tutte le ragazze sono state prese. Resta solo lei, sua cugina più grande Rangeen e una terza ragazza, la quale è sordomuta. La poveretta non capisce cosa stia succedendo, è completamente persa.

Rangeen, invece, è molto malata. Vomita tutto il tempo. Dice alle guardie di avere il cancro. Allora la portano da un medico. Quest’ultimo ha confermato per iscritto la sua grave condizione di salute. Ma questo non impedisce alle guardie di picchiarla, vederla vomitare in continuazione li indispettisce.

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