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Tre giorni più tardi, un altro gruppo sbarca nel villaggio. Sei macchine parcheggiano, alcune Jeep, un camion e una macchina militare. A scendere per primo è un uomo che ha l’aspetto di un amir. Indossa un’uniforme militare, un turbante e un paio di occhiali neri; è raccapricciante. L’accompagnano una quindicina di soldati.

Attraverso la finestra vedo che manda i suoi uomini di casa in casa. Uno di loro entra da noi. Ci ordina:

-Andate immediatamente nella scuola del villaggio, dobbiamo perquisire la casa! Sbrigatevi!

Nel caos più totale, faccio scivolare il mio cellulare dietro il frigorifero. Le altre donne, nel panico, cercano anche loro dei nascondigli. Poi si avvicina una pattuglia, vediamo le loro figure dalla finestra. Urlo:

-Forza! Arrivano!

Usciamo in fretta. Le guardie entrano in casa, verificano che nessuno sia rimasto dentro. Insieme alle mie sorelle e ai loro bambini seguiamo il gruppo di prigionieri davanti a noi. Arriviamo davanti ad una scuola primaria.

Alcuni uomini armati ci spingono verso un cortile, dove un centinaio di donne e bambini è già allineato in file. Capisco subito che ci hanno teso una trappola... Gli uomini non sono venuti solamente per ispezionare le case. Vengono di nuovo a fare la loro scelta.

L’amir avanza nel cortile e osserva il volto di ciascuna donna, uno per uno. Punta l’arma verso una giovane madre che porta il suo bambino tra le braccia.

-Tu! Vai nel pick-up.

L’amir prosegue la sua ispezione. Si avvicina a noi. Sono pietrificata. Lo sguardo fisso sui miei piedi, stringo forte tra le braccia Awar. L’amir si arresta di fronte a mia sorella Nadia, ferma immobile alla mia destra. Tiene la mano a Gule, una delle nostre nipotine di 10 anni. A Kocho, sua madre è ammalata e non poteva più occuparsi di lei e la piccola è rimasta con noi. Dall’inizio della detenzione Nadia l’ha fatta passare per sua figlia.

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-Anche tu! Sali sul pick-up con tua figlia!

Nadia ci osserva pietrificata, non osa nemmeno protestare. Gule si volta verso di me con il viso in lacrime. Spero che il destino possa essere clemente con lei. A Mosul, le ragazze della sua età vengono violentate. Prego affinché lei venga risparmiata.

Dopo mezz’ora, l’amir termina la sua scelta. Riparte con la sua Jeep, seguito da un camioncino con all’interno le quindici donne scelte insieme ai loro bambini. Dopo la sua partenza, ritorniamo nelle nostre case, demoralizzate. Quello che è successo a Nadia e Gule si perde nell’aria della stanza, quasi come se non fosse mai successo niente.

* * *

Devo avvisare Azad. Facendo scivolare la mia mano dietro il frigorifero, ritrovo il mio cellulare nel suo solito nascondiglio. Che sollievo! Ma quando compongo il numero di mio fratello, mi accorgo che non c’è linea. Fuori campo.

Finalmente riesco a raggiungerlo al calare della notte. Gli racconto la nostra giornata da incubo. Azad è atterrito. Promette che troverà un modo per farci uscire da qui.

Dopo qualche settimana, Azad mi dona il numero di Sarbast. Un membro della milizia yazidi del Sinjar. È un gruppo che combatte contro l’ISIS nelle montagne e aiuta i prigionieri a scappare. Sono in contatto con una rete di passatori. Chiamo Serbast disperata. Mi incoraggia a fuggire il prima possibile, e dice che mi darà delle indicazioni lungo il cammino per raggiungere le montagne.

Quella sera stessa, prendo la mia decisione. Non appena i bambini si addormentano, annuncio alle mie sorelle:

-Partiremo. Non possiamo restare qui. Shirin sgrana gli occhioni:

-Sei folle Sara!

-Dobbiamo provarci. La prossima volta prenderanno noi, lo sapete! Volete essere la preda di questi mostri?

Sospirano. Shirin mi lancia uno sguardo inquieto: -D’accordo Sara, ma ci serve un piano.

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Il giorno dopo, faccio un sopralluogo dei posti che ci circondano. Salgo sul tetto della terrazza, stendo la biancheria per non destare sospetti e ne approfitto per scrutare i dintorni. Attorno alla via principale si innalzano delle case color ocra dai tetti piatti. Tutte prigioni dove altre donne sono rinchiuse. Gli orti abbandonati sono invasi dall’erbaccia. Non c’è nessuno tra il pulviscolo del mattino. Ci sono solo i cani che vagano e che se ne vanno in giro in cerca di cibo. Chiamo Serbast, accovacciata dietro una tenda.

-Puoi mandare qualcuno a prenderci?

-Non appena riuscite ad uscire dal villaggio, vi verrò a prendere in un luogo di incontro. Vedi del fumo da lontano?

Guardo all’orizzonte e in effetti scorgo un filo di fumo che si innalza nel cielo verso nord. -Sì, lo vedo, cos’è?

-È un cementificio. Quando uscirai dal villaggio, ci saranno altri due villaggi da oltrepassare, e poi camminerai verso la cementeria. È lì che verrò a cercarvi.

* * *

Quella notte stessa faccio uno strano sogno. Ogni sera, di solito, l’angoscia mi stringeva talmente tanto il cuore al calar del sole da non riuscire a chiudere gli occhi. Ma questa volta, dormo profondamente. E a occhi chiusi, nel mio sogno, mi ritrovo in un ascensore. L’ascensore non smetteva di cadere, era aspirato dal vuoto, in un pozzo oscuro senza fondo. Poi, tutto d’un tratto, l’ascensore comincia a salire. Sale verso l’alto, verso la luce. Va verso un’uscita.

Una volta sveglia sento ancora questa sensazione di vertigine allo stomaco. Mi dico che è un segno del cielo. Sarà oggi, fuggiremo. Non possiamo rimanere qui un solo giorno in più.

Conosco troppo bene il destino che mi attende. Ho visto quegli uomini rapire le giovani donne in lacrime di cui erano ormai sazi, i poveri corpi martoriati che avevano torturato, violentato. Per loro, non siamo essere umani, siamo oggetti.

Dormono ancora tutti in casa. Guardo il pacifico respiro dei bambini sollevare i loro piccoli corpi avvolti nelle coperte. Guardo Awar, mio nipote, le sue guance piene, da bambino. La piccola Aryan di tre anni, dai tratti così sottili e gli occhi da cerbiatta. Questi bambini cresceranno qui, nel Califfato dell’ISIS? Cosa diventeranno...? Improvvisamente provo un senso di nausea.

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Questa sera stessa partiremo, è deciso. Perché in ogni caso, siamo già morte. Tanto vale tentare di fuggire, anche se alla fine dei conti dovessero ucciderci lungo il cammino.

La cosa più difficile sarà uscire dal villaggio. Bisogna andare nella giusta direzione ed evitare di farsi trovare. Quando eravamo a scuola, avevo notato una barricata di filo spinato alla fine della strada. Scivolo in sala da pranzo senza far troppo rumore. Deve esserci un qualche attrezzo da qualche parte. Mi imbatto in una cesoia arrugginita lasciata in un cassetto. Questa andrà bene.

In cucina, sento Shirin che prepara il tè. Quando tutti si sono alzati e seduti a tavola, annuncio: -Ho trovato il posto. Partiremo stasera.

Le mie cognate annuiscono, non c’è altra scelta. Ma una donna incinta, che siede nella stanza attigua accanto ai suoi due bambini, si mostra reticente:

-E se ci catturano?

-È un rischio che dobbiamo correre.

-In ogni caso, io non posso camminare velocemente con e non posso portare con me i miei due bambini.

Una delle sue cugine decide di restare con lei, spera comunque di avere la fortuna di rivedere i suoi figli più grandi:

-A Kocho, i miei due ragazzi sono partiti con il loro papà, ed io spero ancora di poterli ritrovare. Se invece parto con voi per il Kurdistan, non ci ricongiungeremo mai più.

-Come vuoi. Noi partiremo stasera.

Scende la notte e sento crescere in me l’agitazione e l’angoscia. Cerco di convincermi di aver preso la decisione giusta.

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Il fumo

Sono le 19:30, cala la notte. Io e le mie cognate ci infiliamo dei lunghi mantelli neri, tipicamente islamici, e dei veli che abbiamo trovato in un armadio della casa. Prepariamo degli zaini con del pane, dell’acqua e del latte in polvere. A partire siamo in otto donne e otto bambini in tutto.

Osserviamo attraverso i vetri della finestra la guardia armata posta sul tetto della casa vicino. Non entriamo nel suo raggio visivo, sta sorvegliando l’entrata del villaggio. Prima di fuggire avvertiamo per bene i bambini:

-Non dobbiamo fare rumore, è una questione di vita o di morte. Stiamo per fuggire da questi uomini cattivi. Ma se piangete, ci sentono e ci riprenderanno!

Anche i più piccoli sembrano capire, nessuno fa i capricci.

È arrivato il momento. Usciamo con discrezione dalla porta sul retro e camminiamo in silenzio fino al filo spinato. Comincio a tagliarlo con la tenaglia, divarico i fili di ferro per aprire un passaggio. Ci scivoliamo dentro senza cercare di impigliare i nostri ampi vestiti. All’improvviso, risuonano nella notte dei latrati. Dei cani ci attaccano.

Per un momento sono nel panico, mi dico che le cose si mettono male. Poi insieme alle altre donne raccogliamo delle pietre e le lanciamo nella loro direzione. I cani ringhiano, ma abbandonano il loro inseguimento. Noi acceleriamo il passo, anche se è difficile camminare veloce portando i bambini in braccio.

Mi volto. Ora il villaggio è alle nostre spalle. Costeggiamo la strada e arriviamo in una pianura deserta. Non si scorge nessuna abitazione in lontananza. Ma dopo qualche chilometro, ci troviamo davanti a un lago. Aggirarlo sembra impossibile, quindi parto in esplorazione. Dico alle mie sorelle. -Aspettate sulla riva, cerco di testare la profondità!

Immergo un piede nell’acqua, poi una gamba, avanzo lentamente, ma l’acqua mi arriva presto alla vita, alle spalle, infine al collo. Riesco a raggiungere comunque l’altra parte della riva. Ritorno indietro sui miei passi e trasporto i bambini sulle mie spalle, uno per uno, fino alla parte opposta del lago. Poi aiuto le altre donne ad attraversarlo. Siamo tutte fradicie, ma dobbiamo proseguire.

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Camminiamo a lungo con addosso i vestiti umidi. Fortunatamente la notte è tiepida, e piano piano si asciugano. Poi tutto a un tratto ci ritroviamo al bordo di una strada. Il bagliore di un faro si avvicina. Ci stendiamo velocemente per terra. La macchina ronza nella notte e prosegue per la sua strada. Non ci ha visti. Chiamo Sarbast al telefono.

-Abbiamo attraversato un lago, ora siamo davanti a una strada. -Volta le spalle alla luna e segui la direzione della tua ombra.

All’orizzonte, riesco a vedere finalmente la luce del cementificio che lampeggia, ma mi sembra molto lontana. Sarbast continua a guidarci per telefono. Si arrabbia:

-Sbrigatevi! Sono già le 4 del mattino, il sole sta per sorgere e sarete nei guai!

Spengo il mio cellulare nel panico, per conservare la batteria, e camminiamo come delle dannate, facendo a turno per portare i bambini. Sembrano pesare sempre di più. Camminiamo per interminabili ore, con i piedi pieni di bolle. Siamo stremate, le gambe sono doloranti e i piedi sono ricoperti di vesciche . Dopo una pausa, accendo il telefono e mi accorgo che Serbast ci ha mentito riguardo all’ora. Non erano le 4 del mattino quando ci siamo sentiti l’ultima volta, era mezzanotte. Voleva solo che camminassimo più veloci.

* * *

Arriviamo finalmente al cementificio alle prime luci del mattino. Sarbast mi ha messo in guardia: molti combattenti si aggirano nei paraggi. Attraversiamo un’ultima valle, completamente esauste. Chiamo Serbast in lacrime:

-Non arriveremo mai! Avanziamo troppo lentamente.

-Non ti preoccupare, la strada per il Sinjar è molto vicina. Nascondetevi per tutta la giornata e riprendete le forze. Ripartirete questa sera.

Ci stendiamo su un prato, demoralizzate. Ricopro le altre ragazze con delle balle di fieno per nasconderle, poi mi copro a mia volta. Sono così stanca che potrei addormentarmi immediatamente. Ma l’istinto di sopravvivenza mi mantiene sveglia. Devo restare in agguato. Un cane abbaia in lontananza. Due moto passano sulla strada. Fortunatamente, nessuno ci vede sotto il nostro riparo. Poi inizia a piovere.

Restiamo distese fino a sera e i bambini, stanchi per la notte trascorsa a viaggiare, se ne stanno tranquilli. Condividiamo dei pezzi di pane e un sorso d’acqua. E quando la luna si rialza, ci rimettiamo in marcia. Riaccendo il mio cellulare, non ha quasi più batteria. Quando chiamo Serbast, è un altro uomo a rispondermi.

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-Buongiorno Sara. Serbast è andato a riposare. Ho preso io il suo posto. Dove siete?

Gli riferisco la nostra posizione nel modo più preciso che posso, e lui mi dà delle istruzioni. Ma dopo due ore, ci rendiamo conto che sono sbagliate. Secondo alcuni cartelli sulla strada, siamo di nuovo nei pressi di Tel Afar. Il mio cellulare è sul punto di spegnersi. Disperata contatto Raman: -Siamo ritornate verso Tel Afar, non abbiamo più acqua, abbiamo bisogno di qualcuno che ci guidi...

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