Una sera, mia sorella Yasmine riuscì a contattare Azad. Una voce flebile e timorosa che sembrava provenire dall’altra parte del mondo:
-Azad? Sei tu, Azad?
-Yasmine! Tesoro! Dove sei?
-Sono a Mossoul. Sono rinchiusa in una stanza da quindici giorni. -Di chi è la casa?
-Di Kader, sai il genero d’Amin, l’amico di papà. Mi ha promesso di tenermi con lui e trattarmi come una sorella. Ma non appena mi ha accompagnata qui, l’amir l’ha avvertito che sarebbe tornato a riprendermi più tardi.
-Yasmine, devi fuggire da quella casa.
-Mi hanno detto che se fuggivo, avrebbero ucciso l’intera la famiglia che mi sta accogliendo, anche i loro bambini...
-Sono solo delle minacce Yasmine, devi fare in modo di salvarti. Yasmine trattiene i singhiozzi.
-Dov’è nostro padre Azad? Azad non osa dirle la verità. -Papà è stato fatto prigioniero.
Yasmine ci richiama una settimana dopo. Ci racconta di essere stata portata in un’altra casa di Mosul, che ha minacciato di suicidarsi se fosse rimasta sola. A quel punto i suoi carcerieri hanno accettato che sua cugina Seve, di 12 anni, la raggiungesse. Ad Azad dice:
-Seve ed io fuggiremo. Ci sono tre guardie che ci sorvegliano, ma una di loro ha promesso di aiutarci cercando di distrarre le altre.
-Fai attenzione Yasmine, non mi fiderei di lui se fossi in te, è un uomo dell’ISIS. -Sì, Azad, te lo giuro, ci coprirà.
-Chiamo zio Raman, lui troverà qualcuno che vi verrà a prendere una volta uscite.
Grazie ai suoi contatti a Mosul, lo zio Raman trova un passatore che accetta di venire a prendere le ragazze per 700 dollari. Yasmine indica la collocazione della casa, aveva fatto caso a dei cartelli
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arrivando. Alle 10 del mattino una macchina si ferma di fronte all’abitazione. I carcerieri sono usciti per fare una commissione e le ragazze quindi riescono a uscire furtivamente. Salgono in macchina. Il veicolo parte e il passatore riesce a portare le ragazze con sé. Yasmin chiama Azad: adesso è al sicuro.
Alle 14, il passatore contatta Azad. Era tutta una trappola. La guardia, a quanto pare un complice, dopo averle seguite piomba da lui all’improvviso. Dopo averlo minacciato con una pistola alla tempia, reclama la somma di 15 000 dollari per lasciarlo partire con le ragazze. Azad deve fargli pervenire tale somma al più presto.
Sconvolto, Azad parte per Dohuk per farsi prestare 8 000 dollari da un amico. Contatta il passatore e chiede di parlare con la guardia. Gli spiega che ha il denaro, ma che non gli darà nulla prima che le ragazze non siano al sicuro a Kirkouk. La guardia accetta e gli riferisce che Yasmine lo chiamerà una volta arrivati sul posto.
Mio fratello attende la chiamata. Siamo ottimisti e pensiamo che finalmente rivedremo le ragazze. Ma non arriva nessuna notizia.
Giunge invece una chiamata del padre del passatore. L’anziano è molto arrabbiato:
-Mio figlio è stato fatto prigioniero! Minacciano di ucciderlo se non verso 15 000 dollari per liberarlo. Io non ho soldi! Devi pagare tu per lui, perché è tutta colpa tua! Paga il riscatto e anche tua sorella sarà rilasciata.
Azad accetta, chiede di nuovo un prestito ad un amico e fa trasferire 15 000 dollari a un intermediario. Poco tempo dopo, veniamo a sapere che il passatore è stato liberato, ma non ci sono notizie di Yasmine. Azad è furioso. Richiama il padre, il quale seccamente replica:
-Ne ho abbastanza di te e di tua sorella, mi avete creato solo problemi, e non ho soldi per rimborsarti! Arrangiati!
Due giorni dopo, finalmente riceviamo una chiamata da Yasmine, in lacrime:
-Era tutto una menzogna, le guardie ci hanno riportate nella casa dove eravamo prima. Gli uomini dell’ISIS volevano solo tenderci una trappola.
-Sai che ho dovuto pagare 15 000 dollari di riscatto? Avevano promesso di liberarti. Yasmine è disgustata:
-Lo so! Ma perché hai pagato? Kader sogghignava quando mi hanno portata da lui. Diceva: “Quell’imbecille di tuo fratello, come ha potuto credere che ti avrei venduta?”
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Dopo quest’ultima chiamata perdiamo ogni contatto con Yasmine. Si fa viva solo dieci giorni dopo. Singhiozza al telefono, ci dice di essere ancora prigioniera di Kader, l’arabo di Mosul, il quale ha fatto mettere delle sbarre alle porte e alle finestre per impedirle di fuggire. Mia sorella l’ha supplicato di ucciderla, che la facesse finita con lei.
Come se non fosse abbastanza, Kader ha degli ospiti, dei jihadisti stranieri: un tedesco, una coppia di americani e un australiano. Questi hanno minacciato Yasmine che l’avrebbero tenuta d’occhio, che poteva togliersi dalla testa anche solo l’idea di scappare. Il tedesco, un uomo di origine curda che lavora nel traffico della droga, ha dichiarato di voler uccidere il suo stesso padre, il quale secondo lui è “un cattivo musulmano”.
Una settimana dopo, Yasmine riesce a chiamare di nuovo. È stata portata in Siria con un egiziano e la sua donna. Non sa dove sia esattamente ed è stata separata da Seve.
Un giorno, mentre i suoi carcerieri pranzavano nel salone, Yasmine era riuscita a darsi alla fuga uscendo dalla finestra della cucina. Una volta in strada, era riuscita a prendere un taxi, ma alla fine l’hanno ripresa e riempita di botte. Kader l’ha fatta riportare a Mosul, in una nuova casa, dove Yasmine ha ritrovato Seve. Yasmin dice di non conoscere l’indirizzo, ma cercherà di trovare comunque un modo per localizzare la casa.
Quando Azad mi racconta tutto questo, non riesco a trattenere le lacrime:
-Se mai dovesse richiamarti, dille di fuggire, qualsiasi cosa dovesse succedere. Anche se rischia di essere uccisa. Deve fuggire.
Da allora, non abbiamo più notizie. Tutti i giorni cerchiamo di raggiungere Yasmine, Seve... Tutti i giorni. Sono così afflitta. Le ragazze che sono riuscite a fuggire ritornano a casa con delle storie orribili. Gli uomini dell’ISIS sono sadici. Non hanno freni e riversano sulle adolescenti e sulle ragazzine che tengono prigioniere tutte le loro perversioni. Questa situazione ci fa perdere la testa. Siamo pronti a dare qualsiasi cosa per mettere in sicurezza mia sorella.
* * *
Sono riuscita a sentire Nadia, la mia dolce sorella. Mi sembra ancora di vederla uscire dal cortile della scuola nel villaggio dove siamo state prigioniere, i suoi lunghi capelli mossi color mogano, gli occhi terrorizzati. Proprio come se fosse davanti a me in questo momento, la vedo salire sulla
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macchina dell’amir come se andasse al macello. Abbiamo saputo da una vicina del quartiere che Nadia si trova a Tel Afar. Questa vicina ha il numero di una delle guardie, allora io, colma di speranza, decido di chiamare e domando di parlare con Nadia. L’uomo esita per un momento, ma poi accetta. Attendo qualche minuto.
-Pronto? -Sara?
-Nadia! Tesoro mio! Sono così contenta di sentirti. Sai che siamo fuggiti? Sono con Azad nei pressi di Dohuk.
-Che Dio sia lodato! Io sono prigioniera in una casa con altre donne.
-Nadia, trova il modo di fuggire. Contatteremo qualcuno per farti venire a prendere. -Ci proverò. Richiamami quando puoi.
Da cosa nasce cosa e alla fine riusciamo ad avere il contatto di Abou Akar, un uomo di Tel Afar, il quale non conosce gli uomini dell’ISIS direttamente, ma può esserci ugualmente di aiuto. È stato raccomandato da un amico di mio zio Raman. Abou Bakar deve posizionarsi davanti all’edificio dove mia sorella è prigioniera. Io richiamo la guardia e avverto Nadia:
-Esci dalla casa appena puoi. Una volta fuori, troverai un uomo che ti aspetta, accenderà l’accendino come segno di riconoscimento. Si chiama Abou Bakar.
-Va bene. Aspetto che la guardia faccia il giro al piano di sopra ed esco. -Buona fortuna!
Una mezz’oretta più tardi, contattiamo Abou Bakar. Ci assicura di aver aspettato invano di fronte alla prigione. È arrivato cinque minuti prima della nostra chiamata e non ha visto nessuna donna uscire. Non poteva bighellonare troppo sul posto, altrimenti l’avrebbero scoperto, quindi dopo un quarto d’ora è andato via. Noi intanto siamo oltremodo preoccupati, che fine ha fatto Nadia?
Silenzio stampa per almeno dieci giorni: la guardia dell’edificio si rifiuta di parlarci e Abou Bakar è scomparso dalla circolazione. Infine, una sera, Nadia chiama sull’orlo dell’isteria:
-Come avete potuto farmi questo? -Nadia! Dove sei? Di che parli?
-Sara, io sono uscita, non c’era nessuno che mi aspettava...
-Ascolta, sei stata troppo impaziente, dovevi attendere di più! Vi siete persi per qualche minuto! Dove sei ora?
-Non ho visto nessuno fuori e sono andata nel panico, non volevo tornare in quella casa. Sono fuggita per strada. Per dieci giorni mi sono nascosta in un container, in un immobile abbandonato.
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Non avevo niente da mangiare. Poi sono andata a bussare alla porta di una casa domandando se potessero nascondermi e il proprietario ha accettato. Ve lo passo perché vorrebbe parlarvi.
Una voce seria risuona al telefono.
-Salam alikoum... Non vi preoccupate per vostra sorella. La considero come una figlia, non la consegnerò mai all’ISIS. Non appena ne avrò occasione, la riporto da voi. Abbiate pazienza.
Nadia viene ospitata da quest’uomo per quattordici giorni. Ma lui le ha mentito: fa parte dell’ISIS e l’ha portata in un centro di detenzione in un villaggio vicino Tel Afar. Nadia si ritrova di nuovo imprigionata in una casa insieme ad altre donne, uomini e bambini. Non riuscirà a contattarci che un’altra volta soltanto e durante la chiamata riattaccherà velocemente. Da allora, non avremo più sue notizie.
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Epilogo
Nel dicembre del 2014, quando i peshmerga liberarono una parte del Sinjar, la nostra speranza era che riuscissero a riprendersi anche la città di Tel Afar. Ma non arrivarono fin lì. Un giovane prigioniero evaso ci ha rivelato che tutti i prigionieri yazidi di Tel Afar sono stati trasferiti a Mossul. Si trovano tutti all’interno di una sala per matrimoni, sotto il controllo dell’odioso Babour. Da allora, non abbiamo più ricevuto chiamate. C’è stato un blackout. A quanto pare, l’ISIS ha tagliato le reti a Mosul.
Una donna del villaggio in cui siamo rifugiati ci ha fatto visita, Amina. Lavora per un’associazione che aiuta le vittime yazidi. È un’ex-parlamentare yazidi, ha diversi contatti e gestisce un’organizzazione in Siria. Ci ha riferito di aver aiutato tante donne yazidi a fuggire. Ci ha offerto dei soldi, dei vestiti, e ha chiamato dei medici per farci visitare. Amina ha poi registrato i nomi dei nostri cari dispersi, promettendoci che avrebbe fatto il possibile.
Nell’attesa, mia zia Berivan si lascia deperire. Resta distesa sulla sua coperta e pensa alla sua piccola Seve, se la immagina che gioca ancora con la bambola, accanto a lei. Anche suo figlio maggiore le manca. Sono trascorsi così tanti mesi da quando li ha visti per l’ultima volta.
Oggi è trascorso quasi un anno, e noi speriamo ancora che arrivino notizie, tutti i giorni. Riceviamo la chiamata di un uomo: i suoi contatti a Mossoul gli hanno riferito che alcuni abitanti del villaggio sono ancora vivi Ma non si sa nulla di mio padre, né di mia madre. Non abbiamo notizie del figlio più grande di Berivan, né di Hassan e della sua sposa. Neanche dei miei quattro fratelli.
Quante altre vittime, ancora?
Maggio 2015
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