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Questa mattina sono subentrate altre guardie. Sono dei maiali. Quando tornano dal bagno si lavano le mani nel nostro secchio d’acqua potabile. E noi non abbiamo altra scelta se non quella di berla, almeno così il secchio si svuoterà presto.

Quando non c’è più acqua, le guardie si divertono a sorseggiare lentamente del succo di frutta davanti ai bambini assetati. Gettano i brick per terra per farli innervosire. Insieme alle altre donne, li abbiamo anche supplicati vivamente di darcene un po’, ma loro non hanno mostrato neanche un briciolo di compassione.

I più piccoli piangono tutto il tempo, li vedo diventare sempre più deboli. Noi abbiamo gli occhi arrossati a forza di piangere e l’umore a terra. Siamo a corto di forze. Pensiamo alle nostre sorelle, ai nostri cugini, agli uomini della nostra famiglia. Mio padre, i miei fratelli. Che ne è stato di loro?

Sono ormai due giorni che non mangiamo. Questa sera, le guardie ci danno un uovo e una patata bollita. Condividiamo tutto con i bambini. Verso mezzanotte, le guardie vanno via, ci dicono che chiudono la scuola a chiave fino alle 6 del mattino.

Mentre tutti dormono, scavalco come posso i corpi addormentati e mi nascondo nei bagni. Ho tenuto con me il caricabatterie del cellulare, conficcato nella scarpa. Dopo aver trovato una presa elettrica in bagno, metto il mio cellulare in carica. Lotto contro il sonno. Ho troppa paura che le guardie possano fare ritorno e mi scoprino. Non appena il cellulare si accende, chiamo Azad di nascosto. È l’unico tra i miei fratelli a non essere stato nel Sinjar quando è arrivato l’ISIS. Quindi sono sicura che sia sano e salvo. Azad risponde immediatamente, è pazzo di gioia di potermi sentire.

-Sara! Stavo morendo dalla preoccupazione! Dove sei? Dov’è Shirin? Come sta mio figlio? Sono tre settimane che cerco di capire dove siete! Ho chiamato tutti!

Trattengo le lacrime.

-Non preoccuparti Azad, siamo insieme a Tel Afar, prigionieri in una scuola. Hai delle novità di papà e dei nostri fratelli?

Esita un istante.

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-I bambini sono malati, non abbiamo niente da bere, né da mangiare. Abbiamo bisogno del tuo aiuto per uscire da qui. Ti richiamo domani notte, quando le guardie saranno andate via.

* * *

Il giorno seguente, dopo la distribuzione dell’acqua, entriamo in uno stato di torpore. Dormono tutti. Shirin mormora:

-Devono aver messo dei sonniferi nell’acqua, sono così stordita. Anche i bambini non piangono più, è strano.

-Hai ragione. Ma non abbiamo scelta, dobbiamo bere per forza.

Durante la mattina, la giovane guardia, che mi aveva già aiutato in precedenza, a voce bassa mi avverte:

-L’amir sta per tornare.

Le mie sorelle ed io siamo sempre state considerate belle, quindi cerchiamo di abbruttirci il più possibile. Mettiamo dei vecchi abiti usati che abbiamo nelle nostre borse, vecchi abiti che pensavamo di usare nelle montagne. Non ci laviamo da giorni, i nostri capelli sono luridi, ci scompigliamo le ciocche a vicenda per somigliare a dei topi. E poi, con gli odori fetidi che ci sono nella stanza, l’amir non dovrebbe essere troppo eccitato.

Alla mattina, di buon’ora, una donna è riuscita ad uscire di nascosto per qualche minuto fuori dalla scuola in cerca di un recipiente dove poter mettere l’acqua. Le abbiamo domandato di portare anche della cenere se ne avesse trovata. Torna trionfante con un pugno di carbone trovato nel forno a legna di una casa vicina. Ci strofiniamo la cenere addosso per avere l’aria ancora più ripugnante. Mi graffio il volto con la punta di uno spillo per avere la pelle danneggiata. Gocce di sangue colano sulle mie guance e la mia pelle si gonfia.

L’amir arriva con le sue guardie del corpo per scegliere le sue nuove prede. Passa di stanza in stanza, ci domanda di alzare il velo, e se non lo alziamo in fretta, lo strappa. Ci scruta una per una. Per fortuna poi riceve una chiamata urgente. Lascia velocemente la nostra stanza e, per questa volta, non sceglie nessuno.

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Quella sera stessa, di nuovo nascosta in bagno, riesco a parlare con mio zio Raman, rifugiato a Dohuk con mia sorella Dalya e i loro bambini. Sono fuggiti di notte insieme a tutti gli abitanti di Hatamia. Mi dico che sono debitori nei nostri confronti. Spiego a Raman che stiamo morendo di fame e che deve assolutamente trovare un modo per farci uscire da lì. Raman ci riflette su:

-Potete provare a fuggire?

-Sì, possiamo sicuramente riuscire ad uscire dalla scuola. Ma il quartiere è pieno di soldati dell’ISIS. -Vedo quello che posso fare. Ti prometto di fare il possibile Sara. C’è qualcuno a Tel Afar che potrebbe aiutarvi.

Il giorno dopo, una guardia mi cerca: -Sei tu Sara? Un uomo è venuto a trovarti.

Mi accompagna all’entrata, sono molto preoccupata. E se fosse di nuovo l’amir? Ma vicino la porta, vedo invece un anziano signore elegante, con la barba bianca e ben curata, le braccia colme di borse. Il suo viso mi è familiare, sono sicura di averlo già visto. Educatamente mi saluta e mormora: -Sono il parroco musulmano di Raman, vivo a Mosul. Raman mi ha avvertito della vostra situazione e ho portato delle provviste per voi, pacchi di biscotti e succhi di frutta.

Poi aggiunge usando un tono più basso:

-Vi posso portare dell’acqua e dei vestiti se ne avete bisogno, ma non posso farvi uscire di qui, mi dispiace. Negoziare con gli uomini dell’ISIS al momento è impossibile.

-Vi ringrazio già per tutto questo, ci salvate la vita! I bambini sono molto malati.

Quando il parroco riparte, rientro nella stanza tutta contenta di condividere le provviste con i bambini delle altre famiglie. Ma la guardia torna a cercarmi, con tono violento si rivolge a me e mi chiede:

-Come faceva a sapere quell’uomo che avevate fame? Chi l’ha avvisato? Hai un cellulare? -No, assolutamente!

-Alzati!

Chiama i suoi colleghi. Nascondo velocemente il telefono nel pannolino di Aran e prendo il piccolo tra le mie braccia. Le guardie frugano tra le nostre cose, svuotano le borse per terra. Uno di loro grida: -Cercate nei pannolini dei bambini!

Nel panico, tolgo furtivamente il cellulare dal pannolino e lo nascondo in una pagnotta di pane arrotolata. Le guardie non trovano nulla. Non sapendo più cosa altro fare, uno di loro mi urla addosso: -Dov’è allora questo telefono?

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-Guarda! Non nascondo niente! La guardia indietreggia:

-Non farlo, non mostrarmi i tuoi capelli! È proibito dalla religione!

Le guardie a quel punto escono dalla stanza balbettando. C’è mancato poco. Le mie sorelle mi lanciano uno sguardo ansioso. Indico la borsa delle provviste.

*

* *

Poco dopo, quando accompagno Awar in bagno, sento un rumore provenire dalla scuola: l’amir è tornato. Guardo Awar negli occhi e gli dico:

-Ricordi che se qualcuno ti domanda chi sono, tu devi chiamarmi mamma, va bene? Glielo ripeto più volte.

Sentendo la voce autoritaria dell’amir che parla con le sue guardie, decido di rimanere chiusa in bagno con il bambino. Non verrà di sicuro a curiosare qui dentro. Aspetto che il rumore delle voci si allontani.

Quando torno nella stanza, Shirin trema tutta. Le mie sorelle cercano di rincuorarla. -Cosa è successo?

Lei mormora:

-L’amir mi aveva presa. Voleva portarmi con sé. Mi sono messa a piangere e anche mio figlio ha iniziato a piangere. Questo ha fatto innervosire l’amir, e allora lui ha preso un’altra donna.

Sono terrorizzata. Shirin l’ha scampata per poco. Ma cosa succederà la prossima volta? Se l’amir dovesse ritornare e volesse prenderla con sé, lei o un’altra della famiglia, noi saremmo impotenti. Malgrado la stanchezza, la fatica, l’angoscia, in fondo ho ancora voglia di lottare. Propongo:

-Forse potremmo attaccare le guardie questa notte prima che partano, dopotutto siamo quaranta in questa stanza, molto più numerose di loro.

-Ma una volta fuori, ci riprenderebbero... mormora Zayele.

Guardiamo fuori dalla finestra. Ha ragione: gruppi di uomini armati sorvegliano le strade, sono dappertutto. Ormai sono quattordici giorni che siamo rinchiuse dentro questa scuola, e non sappiamo ancora quanto andrà avanti.

Al nostro arrivo, le guardie ci avvisarono che un medico donna ci avrebbe fatto dei test di verginità per smascherare chi fingeva di essere sposata, mentre invece era celibe. Io ero pietrificata.

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Fortunatamente, non era ancora venuta. Tuttavia, questo non aveva più importanza ormai, perché prendevano anche le donne sposate per soddisfare il proprio piacere.

Mormoro:

-Arriverà il turno per ciascuna di noi. Dobbiamo trovare un modo per fuggire.

Trascorro tutta la notte a riflettere. Cerco di chiamare mio fratello, ma non risponde. Il giorno dopo, le guardie ci informano che lasceremo questo posto. Passano di stanza in stanza:

-Preparatevi! Gli autobus arrivano!

Insieme alle altre prigioniere, replichiamo: -No, non ci muoviamo! Non vogliamo partire...

Non sappiamo cosa succederà. Abbiamo sentito che alcune ragazze sono state mandate in Siria. Mia sorella Zayele domanda:

-Raggiungiamo i nostri uomini?

Le guardie non rispondono, cominciano a colpirci con dei tubi di plastica: -Forza, muovetevi!

Ricevo una bastonata sulla schiena. Preparo velocemente una borsa con del latte e i vestiti sporchi dei bambini. Fuori, le guardie ci fanno entrare in un grande autobus molto moderno, con l’aria condizionata. Dopo l’afa terribile della scuola, stiamo talmente bene seduti sui sedili, al fresco, che non abbiamo neanche più voglia di uscire. Si tratta di una boccata d’aria fresca che dura ben poco.

La storia di Myriam