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In lontananza, sulla montagna, si accesero delle luci. Sono sicuramente gli uomini di Sarbast che ci indicano la strada. Ripartiamo quindi verso la giusta direzione e ci avviciniamo di nuovo al cementificio. Ci nascondiamo in una valle per evitare i pattugliamenti. Deve essere all’incirca mezzanotte. Questa volta la notte è fredda.

Di nuovo, la pioggia comincia a cadere, una pioggia ghiacciata e torrenziale. Rabbrividiamo sotto il diluvio. Shirin ha l’idea di mettere i bambini sotto le nostre gonne per cercare di proteggerli. Sulle guance mi colano delle lacrime di disperazione, vorrei urlare ma non ho neanche più le forze per una crisi di nervi. La morte sta per afferrarci. I miei denti battono dal freddo, tutti i miei arti tremano. Le ore scorrono, interminabili.

* * *

Il calore dei raggi di sole di primo mattino è una pura sensazione di benessere. Strizziamo i vestiti e li facciamo asciugare al sole. Non abbiamo più cibo. Deve essere mezzogiorno circa quando vediamo arrivare un giovane ragazzo insieme al suo branco di pecore.

Gli facciamo segno, si avvicina, curioso. È un ragazzo di una dozzina di anni, dai capelli ispidi e vestito con abiti usati. Decido di dirgli la verità:

-Siamo fuggiti con i nostri bambini, ci siamo perse. Non ci denunciare, ti prego! Avresti del pane per i bambini?

Osserva le nostre arie tristi e i bambini esausti tra le nostre braccia. Fruga nella bisaccia e ci dona delle patate bollite, due pomodori e dei pezzi di pane. Accetta poi anche di prestarmi il cellulare, ma la mia carta Sim non entra. Ci avvisa:

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-Sembra che la milizia yazidi abbia ucciso un pastore che collaborava con l’ISIS. Dovete rimanere nascosti, la gente dell’ISIS è furiosa adesso, sorvegliano ogni angolo, e sono attrezzati con degli ottimi binocoli.

-Dobbiamo assolutamente raggiungere la montagna. Ti prego, abbiamo bisogno di aiuto. Puoi trovare qualcuno che ci accompagni? La nostra famiglia lo pagherà.

-Vado ad avvisare mio padre e mio zio. Vi prometto in nome di Dio che non vi denuncerò.

Gli do 25000 denari, ovvero circa 20 dollari, che tenevo nascosti in una tasca, e due anelli in oro che Shirin aveva nei calzini. Ma il giovane pastore si rifiuta di prenderli. Io insisto:

-Prendili come ricordo!

Li nasconde allora nella sua tunica e riparte con le pecore. Shirin, scettica, mormora: -Non tornerà più...

Mezz’ora più tardi, due uomini in macchina accostano sul bordo della strada. Sono il padre e lo zio del ragazzo. Ci avvisano:

-Non potete salire in macchina adesso, ci sono dei posti di blocco dell’ISIS per strada. Camminate verso la valle per una mezz’ora e mantenete la testa bassa. Dall’altra parte, oltrepassato il cementificio. Vi verremo a prendere laggiù. Metteremo della paglia del retro del pick-up per farvi nascondere.

Nonostante i nostri piedi siano in frantumi e le nostre gambe anchilosate, avanziamo ancora, fino al lato opposto della valle, non molto speranzose. E se fosse una trappola? Ma il pick-up è lì, parcheggiato lontano. Ci sta aspettando. Insieme ai bambini ci stendiamo sul retro del veicolo, gli uomini ci coprono con del fieno. Dieci minuti più tardi, ci lasciano in un bosco ai piedi della montagna.

-Dovete aspettare qui fino a che non giunga la notte. Ancora una volta, mi dico che non torneranno più.

Invece arrivano, questa volta a piedi. Ci portano dell’acqua, biscotti e pane. Il padre ordina: -Non lasciate nulla dietro di voi. Nessuna traccia!

Non appena i bambini sono sazi, divoriamo anche noi ciò che resta delle provviste. Poi i nostri passatori contattano gli uomini della montagna:

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Inizia un nuovo cammino. Questa volta dobbiamo arrampicarci sulle montagne. Le nostre guide sembrano molto nervose. Rischiano la loro vita. E ben presto ci rendiamo conto che neanche loro conoscono il percorso. Chiamano allora la milizia yazidi:

-Potete guidarci? Ci siamo persi.

Dopo diverse ore, interminabili, non abbiamo quasi neanche più acqua. I bambini piangono, noi cerchiamo di distribuire un sorso ciascuno. Il terreno è accidentato. Saliamo e scendiamo. Comincio a perdere la speranza. Poi le guide ricevono una chiamata:

-Dovete continuare a salire!

Sono sfinita, il mal di testa mi attanaglia il cervello e comincio a vomitare. Non riesco più a camminare. Mi accascio al suolo e togliendo le scarpe per dare sollievo ai piedi, mi accorgo che le mie unghie sono sanguinanti, si sono staccate.

Anche le altre donne si siedono, sfinite. Le nostre guide si innervosiscono:

-Non possiamo restare con voi quando diventerà giorno! O camminate o vi abbandoniamo. Se i nostri vicini ci vedono, avviseranno l’ISIS e ci uccideranno!

Sussurro:

-No, vi supplico, continuiamo!

Mi rimetto ai piedi le scarpe piene di sangue, torturata dal dolore. I passatori ci aiutano a portare i bambini. Alle 4 del mattino, appare una luce da lontano, sicuramente un villaggio. Berivan e altri tre membri della nostra famiglia sono avanti. Mentre Shirin, Sinem ed io ci trasciniamo, non abbiamo più forze. Crolliamo a terra come sacchi vuoti.

* * *

Non riusciamo a muoverci. Ci alziamo solo quando anche il sole si alza. Mi rendo conto che siamo soli e che non abbiamo più acqua. Sento che le mie labbra sono diventate secche come cartone. Dobbiamo ritrovare gli altri. A stento ci rialziamo e ricominciamo a camminare. I piedi mi fanno ancora male.

Ma in che direzione andare? Continuiamo camminando a caso. Dopo un’ora, scorgiamo del fumo in lontananza. Siamo di nuovo nei pressi del cementificio. Shirin si mette a piangere. Farhad mi osserva, pronta a scoppiare in lacrime. Sono completamente annientata. Mormoro:

-Non abbiamo scelta, dobbiamo arrenderci all’ISIS.

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Ci diamo un’occhiata intorno. In una valle vicina, scorgiamo un trattore e una macchina. Farhad esclama:

-Magari potrebbe esserci una bottiglia d’acqua dentro?

Frughiamo nella macchina. È vuota. Ma abbiamo così tanta sete che finiamo per bere delle gocce d’acqua putride del radiatore. Un po’ più in basso si vedono i tetti di alcune case. Raggiungiamo quello che sembra essere un villaggio yazidi abbandonato. Gli abitanti saranno fuggiti sulle montagne durante i primi giorni di agosto. Oppure sono morti. Nell’aria l’odore di putrefazione diventa persistente.

Apro il portone in ferro di una casa. Nella cucina, vedo una damigiana con dell’acqua. È verdastra e ha un sapore vomitevole, ma la beviamo comunque.

All’improvviso, risuonano dei colpi di fuoco. Mi accovaccio sul pavimento. Sono senza dubbio gli uomini dell’ISIS. Anche se ci hanno visti, non me ne importa più niente. Ormai ho perso tutte le speranze. Non c’è più alcuna possibilità di uscire da quest’incubo. Poi, dopo qualche minuto, ritorna il silenzio. Nessuno.

Shirin fruga nelle altre case con Farhad in cerca di batterie per i cellulari. Le provo tutte, una per una, ma nessuna funziona. Shirin riesce a trovare anche una borsa di plastica:

-Ho trovato questo in un armadio!

Sono delle lenticchie. Con quello che rimane dell’acqua putrida, le facciamo bollire per nutrire i bambini. Il cibo ci ridà un po’ di vigore, malgrado il suo gusto infetto. Decido di continuare a cercare nelle case vicine. All’interno di un comodino, trovo un’altra batteria per il telefono. Questa volta è compatibile con il mio telefono! Forse possiamo ancora cavarcela. Chiamo Azad. Risponde immediatamente.

-Sara! Dove siete? Pensavo foste morte di sete! Berivan e gli altri sono sani e salvi sulle montagne. -Noi siamo in un villaggio yazidi non molto lontano dal cementificio.

-Invio qualcuno a cercarvi!

All’improvviso sento Shirin emettere delle urla. Mormoro: -No, Azad, è troppo tardi, gli uomini dell’ISIS ci hanno catturati.

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