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Quando vivevamo a Kocho, eravamo in buoni rapporti con i nostri vicini arabi provenienti dai villaggi dei dintorni. A volte, chi non aveva la possibilità, chiedeva dei soldi in prestito a mio padre per poter andare dal dottore. Noi dispensavamo gli ortaggi del nostro orto, e loro compravano dei prodotti dalle nostre botteghe. I nostri muratori costruivano le loro case.

Si dice che in città, nella capitale Erbil, gli yazidi siano discriminati. I curdi musulmani pensano che gli yazidi siano sporchi e li disprezzano per questo. Gli yazidi laggiù hanno avuto difficoltà a trovare un posto di lavoro e una casa. I ristoranti non vogliono camerieri yazidi perché rischiano di perdere i loro clienti. A volte sono costretti a mentire e a nascondere la loro religione. Ci sono molti pregiudizi su di noi.

Ma a Kocho vivevamo tutti insieme pacificamente. I giovani ragazzi musulmani giocavano a calcio con i miei fratelli, i campionati difatti erano tra squadre miste. Invitavamo i nostri amici arabi alle cerimonie dei matrimoni e loro assistevano persino alle nostre cerimonie religiose come il Mercoledì rosso in primavera. Ai loro bambini veniva offerto il melograno e i succhi di arancia. Le famiglie yezidi erano ospiti a casa loro per festeggiare la gran festa dell’Aid alla fine del ramadan. Quelle famiglie musulmane vivevano con noi da secoli.

Dopo la caduta di Mosul, i villaggi arabi passarono sotto il controllo dell’ISIS, e da lì perdemmo ogni contatto con loro. All’inizio di agosto, alcuni capi arabi vennero a farci visita per assicurarci che non sarebbe successo nulla agli abitanti di Kocho.

Ma la prosperità del nostro villaggio ha senza dubbio creato gelosia e risentimento; e la scalata al successo dei partiti curdi, i quali rivendicavano il Sinjar per integrarlo al Kurdistan, ha provocato inquietudine nei confronti degli arabi sunniti locali.

Per questo motivo, quando giunse l’ISIS, molti arabi della regione si unirono a loro, impossessandosi delle donne e delle ricchezze yazidi. In realtà, molti arabi erano già da prima degli informatori dell’ISIS: nascondevano dei combattenti nelle proprie case fornendo loro armi per combattere contro Bachar al-Assad nella vicina Siria.

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Quando realizzammo che i nostri vicini arabi ci avevano traditi, stentavamo a crederci. Molti yazidi in fuga avevano bussato alle loro porte, ma gli arabi si rifiutarono di nasconderli, perché avevano paura. O peggio, perché sostenevano quello che ci stava per succedere. Tuttavia, malgrado il pericolo, ci furono altre famiglie che invece rischiarono la vita per salvare tante altre famiglie e aiutare i prigionieri in fuga. Sempre saremo loro riconoscenti.

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L’assenza

Stretti sotto le coperte, abbiamo lo sguardo fisso sulla piccola televisione che gracchia. Le informazioni scorrono, lo schermo è praticamente sempre illuminato. Le immagini mostrano il Primo Ministro del Kurdistan, Barzani, che si reca sul monte Sinjar in elicottero, accolto dai miliziani e dagli abitanti in festa. Qassim Shesho viene intervistato.

Lo scorso dicembre, i bombardamenti della coalizione e l’offensiva dei peshmerga hanno finalmente permesso di poter riprendere una parte del distretto del Sinjar. Le forze curde hanno ricevuto armi dai paesi europei e dagli Stati Uniti, così da poter tener testa all’ISIS sul fronte. Ma il nostro villaggio è tuttora in mano Califfato. Ogni giorno la mia rabbia cresce sempre di più.

Ogni giorno che passa è un giorno in più senza i miei fratelli e le mie sorelle, senza mia madre e mio padre... Azad sgrana nervosamente le perle del suo rosario. Mormora:

-Non ritorneranno da noi, anche se Kocho è libera. Ci sono troppi fantasmi laggiù, ci sono stati troppi morti.

I bambini giocano in giro per la casa. I più grandi, in lutto, non sono tornati a scuola, sono ancora troppo tormentati. La nostra vita ormai è scandita dalla distribuzione del cibo per i rifugiati. Alcune ONG portano delle borse di provviste e delle coperte, nonostante in questo villaggio siamo in migliaia a sopravvivere nei rifugi di fortuna.

Come se non bastasse, dobbiamo anche affrontare i problemi finanziari. Azad non riesce a trovare lavoro qui e a Kocho i nostri campi non sono stati raccolti. Di conseguenza, non abbiamo alcun reddito.

Le giornate scorrono nell’attesa di chiamate che potrebbero darci solo notizie incerte. A volte, mi ritrovo a pensare ai bei momenti della nostra vita, quando eravamo ancora tutti insieme. Mi piace guardare le foto. Malgrado le nostre peripezie, sono riuscita a conservarne qualcuna imballata in un sacchetto di plastica.

Contemplo il volto delle mie sorelle, dei miei fratelli, dei miei genitori. Sono le foto dei giorni felici. Un pic-nic in montagna il giorno di Norouz, la festa curda del nuovo anno, la foto in cui siamo a piedi nudi, in tailleur, o davanti ai piatti che preparavo con mamma.

Mio fratello Kovan, elegantissimo nella sua camicia bianca e con i suoi occhiali neri da star. La mia piccola Yasmine indossa un vestito rosa pallido, ha le sue guance piene e lo sguardo serio, i capelli

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annodati in una coda di cavallo. Mio padre, con i suoi baffi fieri, posa in tenuta tradizionale, un paio di ampi pantaloni retti da una spessa striscia di tessuto. Nadia, bella come non mai nel suo vestito turchese durante una festa di matrimonio... queste foto mi trascinano in un vortice di terribile nostalgia. È tutto svanito ora. Mi restano solo queste immagini come ricordo.

* * *

Urla di gioia risuonano dall’entrata della casa. Si tratta di una vicina che porta delle notizie: una giovane ragazza di Kocho è riuscita a scappare e ben presto dovrebbe arrivare a Dohuk. Sono sempre più le donne che riescono a fuggire, vengono poi recuperate dai passatori che aiutano gli yazidi a lasciare il territorio dell’ISIS.

Dopo il nostro arrivo a Dohuk, restammo qualche giorno nella casa di un notabile del posto. Azad cercava di trovarci un tetto sopra la testa, ma c’erano talmente tanti rifugiati nella città che i prezzi esplosero. A causa degli eventi, l’affitto di una casa nel villaggio era aumentato di 200 dollari, quindi ormai si arrivava a 700 dollari, perfino 1000 per un piccolo appartamento in città. Ecco che all’entrata della città cominciarono ad estendersi dei giganteschi campi profughi.

Azad non voleva che ci sistemassimo in un campo, anche se l’acqua, l’elettricità e il cibo erano gratis. Diceva che c’erano stati degli incidenti: alcune tende avevano preso fuoco per via dei riscaldamenti in cherosene e donne e bambini erano morti bruciati vivi all’interno. Mio fratello voleva soltanto trovare un luogo sicuro e confortevole dove potessimo sistemarci tutti insieme, avevamo sofferto abbastanza, diceva.

Poi finalmente, nei pressi di un villaggio della frontiera siriana, Azad trovò una casa in costruzione. Il suo proprietario era in Germania ma Azad riuscì a raggiungerlo. Era un uomo generoso che accettò di prestarci la sua casa per trascorrervi almeno l’inverno.

Utilizzando dei cavi, Azad riesce ad installare l’elettricità all’interno della casa. Nella prima stanza è così freddo e umido che il nostro respiro produce vapore.

La seconda stanza invece è in nudo calcestruzzo grigio e un telone bianco si staglia per coprire la cornice di una finestra spalancata. Anche se è una casa in via di costruzione, siamo al sicuro qui. Tuttavia, non posso fare a meno di pensare che siamo sempre in una prigione. Non abbiamo più i nostri genitori, solo i nostri occhi per piangerli. Ci sentiamo abbandonati.

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