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Le lacrime mi solcano le guance. Un terrore nauseante colpisce ogni cellula del mio corpo. Voglio essere forte per le mie cugine e per mia sorella, ma sono spaventata come loro. Sento lo sguardo del conducente che ci osserva di tanto in tanto nel retrovisore. Yasmine sussurra:

-Qualcuno si è tenuto il cellulare? Annuisco con un movimento di ciglia.

Dopo venti minuti di tragitto, arriviamo a Solagh, un villaggio sulla strada di Tal Afar. Il corteo di macchine si ferma davanti a un edificio nuovo di zecca alto due piani dalle pareti arancioni. Sul frontone c’è scritto: “Istituto Tecnico”. È un’università.

Il pick-up riversa una dozzina di passeggeri, sagome spaventate cariche di borse e con bambini in braccio. Il nostro conducente si volta verso di noi minaccioso:

-Ho capito che una di voi ha tenuto con sé il cellulare! Sarà meglio che lo consegnate! Tremando, replico:

-No, glielo giuriamo, abbiamo lasciato tutto a Kocho! -In tal caso, vi fucileranno! Andate, entrate nell’edificio!

Scendiamo dalla macchina e ci copriamo il volto fino agli occhi con i nostri foulard. Una volta in entrata, dei miliziani ci strappano di dosso i veli e li gettano per terra. Io cerco di raccogliere il mio foulard, ma un uomo me lo strappa di nuovo di mano. Mostra un sorriso beffardo.

Nell’atrio, ritratti del Primo ministro del Kurdistan ornano le pareti. Degli uomini si attivano per staccarli. L’Amir saudita si è appostato all’entrata, vigile, distribuisce ai bambini delle buste di noci e cioccolata, viveri previsti per l’inaugurazione dell’istituto.

Quell’uomo è veramente ripugnante. Ora parla a voce alta al telefono e lancia degli sguardi lussuriosi alle donne spaventate che avanzano:

-Abbiamo sequestrato le donne di Kocho, sono saporite come il miele e il latte di cocco!

Il grande salone d’ingresso porta ad alcune classi. Cerchiamo un posto dove poterci sistemare. Perdute nella folla con mia sorella e le mie cugine, intravediamo all’improvviso mia madre e le mie

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cognate rannicchiate vicino alle scale che portano al primo piano. Ci stringiamo, così sollevate dal fatto di rivederci. Neanche loro sanno cosa ci facciamo qui.

Ci sediamo per terra, accasciate contro le nostre borse. Mia nuora Shirin stringe tra le braccia Reben, il suo piccolo bambino di 3 anni, e Zayele, la figlia più grande, culla Ester, sua figlia di due anni. Mia madre mormora delle preghiere sgranando il suo rosario di perle di legno. Sono sicura che ci terranno prigioniere fino alla nostra morte.

Il saudita comincia a urlare:

-Le donne che hanno dei bambini devono salire al primo piano, gli porteremo da mangiare!

Lancio un’occhiata ansiosa a mia nuora Sinem, l’unica ad avere due bambini piccolissimi. Suo figlio Awar ha quattro anni e il piccolo Aran un anno e mezzo. Sinem capisce subito e annuisce. Prendo dolcemente Awar in braccio. Sento le orecchie del piccolo contro il mio collo, gli sussurro piano: -Awar, se uno di quegli uomini cattivi ti domanda chi sono, tu devi dire che sono la “mamma”. È veramente molto importante. Va bene, tesoro?

Mi guarda inquieto, e mi risponde a bassa voce: -Va bene...

Raggiungo Shirin e Reben che stanno già salendo le scale. Ma il saudita si è appostato in piedi accanto alle scale. Mi lancia uno sguardo malvagio e mi afferra la spalla.

-Sei sposata? -Sì!

Gli mostro Awar. -È mio figlio.

Mi lancia un suo sguardo torvo e domanda al piccolo: -È tua madre?

Cerco di controllare il mio corpo, sto tremando. Awar fa segno di sì con la testa.

Salgo le scale.

È il turno di Sinem. Lei porta Aran in braccio. Il saudita le urla: -Questo bambino non è tuo figlio!

Cerca di prendere il piccolo. Aran comincia a piangere e si aggrappa a sua madre urlando: -Mamma!

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Mia madre è rimasta di sotto con mia sorella minore Yasmine, di sedici anni, Berivan, la moglie di Hassan, e le sue figlie Rangeen, ventidue anni, Seve, dodici anni, suo figlio Farhad di undici anni, e mia zia Hawan con sua figlia Myriam di tredici anni. Le giovani donne si nascondono dietro le madri, sotto la rampa di scale, rannicchiate per terra.

Una volta salite di sopra, insieme a Shirin, Shamal, Sinem e Zayele, ci sistemiamo in una classe già piena di gente. Le guardie ci danno dei biscotti e del succo di frutta per i bambini. Ma non c’è acqua. Dalla finestra scorgo un giardino dietro la scuola.

* * *

Nel bel mezzo della notte, all’improvviso sentiamo riecheggiare delle urla nell’atrio. Mi alzo per andare a vedere. Una donna piange:

-Prendono le ragazze!

Di sotto si scatena il panico. Dall’alto delle scale, vedo delle guardie che strappano le figlie dalle braccia delle mamme, le quali urlano e tentano di resistere. Ma loro le minacciano con le armi. Prendono mia sorella Yasmine, la piccola Seve... Trascinano le ragazzine fuori afferrandole per i capelli. Intravedo Myriam con le sue trecce e il suo vestito blu scuro. Mi ha intravista, in cima alle scale, mi fa un cenno di addio. Ha solo tredici anni. E ne dimostra anche meno, con quel suo volto paffuto e il corpo da ragazzina. Le guardie perquisiscono l’aula con le torce. Trovano Rangeen che si era nascosta dietro la schiena di sua madre.

E così fanno salire le ragazzine spaventate su due grandi bus che si allontanano lungo la strada.

Poco dopo, le guardie salgono al primo piano. Annunciano all’intera aula: -Vogliamo i ragazzi che abbiano più di sei anni!

Le madri si dibattono, supplicano, urlano. Le guardie schiaffeggiano mia sorella Shirin che si aggrappa alle sue due figlie. Di sotto, mia zia Berivan dà di matto quando gli afferrano Farhad. -No! Mio figlio, no! Non toccate mio figlio! Avete già preso le mie figlie!

Lei cerca di respingerli. Ma loro le danno i calci in testa per prendersi suo figlio. Il piccolo di undici anni, atterrito, in lacrime, viene portato fuori. Nessuno sa dove portino i bambini.

Le urla delle madri risuonano per tutta la notte. Non ho mai sentito nulla di così straziante. Anche i bambini piangono, spaventati. Siamo annientati di fronte a una tale crudeltà. Questi uomini non hanno nessuna pietà, nessuna umanità. Come possono trattare così delle donne e dei bambini indifesi?

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Stringo Awar tra le mie braccia per calmarlo. Ma non riesco a chiudere occhio tutta la notte. Siamo state abbandonate a delle bestie selvagge, a dei mostri. Sono sicura che il peggio deve ancora arrivare.