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Dai monumenti agli “iconic building” (via Walter Benjamin)

gio e al turismo (un museo a San Pietroburgo, l’aeroporto di Heathrow), e con un’immagine di una macchina fotografica sul cavalletto ripresa dall’al- to, il cui mirino a pozzetto mostra un magnifico ritratto delle piramidi, la- sciando il lettore con il dubbio che si tratti effettivamente di un ritratto dei monumenti “dal vero”, piuttosto che di una fotografia di una riproduzione appesa al muro.

La nozione di monumento è chiaramente spiegata nel saggio I monumenti e

le icone13, in cui Pierluigi Nicolin traccia un’ipotesi interpretativa che colle-

ga la presenza dei monumenti nella città storica e tradizionale alla comparsa degli edifici iconici nella metropoli contemporanea. Questo saggio è par- ticolarmente rilevante perché raccoglie e mette coerentemente in succes- sione, mostrandone l’evoluzione nella storia moderna, una molteplicità di modi di concepire il monumento in rapporto allo spazio urbano, espressi in altrettanti testi di riferimento. Intendo qui riproporne lo schema generale, approfondendo i testi citati in relazione alla figura della città, confrontando- lo con ulteriori contributi e letture, e invertendo i termini del rapporto tra architettura e rappresentazione, cioè tenendo a mente l’idea che la fotogra- fia contribuisca oggi attivamente alla diffusione degli edifici iconici.

Il testo evoca come premessa una condizione di monumentalità comples- siva della città sette-ottocentesca, rammentando quel programma di este- tizzazione delle città intrapreso negli stati nazionali europei a partire dal Seicento. Questo tipo di azione fu portato avanti da un potere assoluto, come quello vigente nei secoli dell’ancien régime, che si dispiegava per la prima volta nello spazio della città nel suo insieme, mettendo in opera una trasformazione dello spazio pubblico in un luogo dotato di forma. Fu allo- ra, attraverso un disegno della città regolato da precise norme riguardo alla larghezza e all’abbellimento delle strade, l’altezza e l’allineamento degli edi- fici, ma anche attraverso sistematiche distruzioni e sventramenti del tessuto preesistente, a cui era imposta una forma regolare di spazi pubblici, che avvenne il passaggio dalle forme della città mercantile di origine comunale, alla forma della Città di Stato, come fu per la Roma barocca, per la Parigi della monarchia e di Napoleone III e per molte altre capitali e città europee in cui lo spazio pubblico è monumentalizzato nel suo insieme.

La scuola di Vienna e la figura di Alois Riegl rappresentano un primo

momento di radicale discontinuità rispetto a questa concezione, in cui il monumento fu per la prima volta considerato come qualcosa di estraneo all’immagine dello spazio pubblico come rappresentazione di un ordine su- periore, in cui esso aveva un ruolo decisivo. In Der moderne Denkmalkultus.

Seine Wesen und seine Entstehung (1903) Riegl spiega il concetto di valore

artistico di tutte le opere antiche (i monumenti) attraverso due definizioni: una antica, e insuperata, che attribuisce un valore assoluto al monumento in quanto elemento del passato, e una moderna, corrispondente all’idea di

Kunswollen da lui stesso formulata, in cui il monumento è valutato in rela-

zione alla dimensione sociale e culturale del presente, e assume così un va- lore storico relativo. Il valore storico, dunque, rientra nel valore dell’antico, nel quale Riegl identifica tre classi di monumenti, ognuna delle quali è con- tenuta nelle successive: i monumenti intenzionali, cioè quelli che per volon- tà del loro creatore devono far ricordare un preciso momento del passato, tipici dell’antichità; quelli involontari, frutto della cultura Rinascimentale, la cui scelta dipende dalla nostra valutazione estetica; quelli della modernità, cioè che hanno valore in quanto memoria, o valore dell’antico, “qualunque opera della mano dell’uomo, prescindendo dal suo significato e dalla sua destinazione, purché dimostri in modo sufficientemente percepibile di esse- re esistita e “vissuta” già molto prima del tempo presente”14.

L’opera di Riegl rappresenta una rottura con l’ordine esistente, e fu fonda- tiva per la teoria della conservazione così come, per molti versi, la conce- piamo ancora oggi. Tuttavia, almeno per quanto riguarda i monumenti e lo spazio urbano, lo storicismo di Riegl secondo il quale ogni elemento antico è un documento da preservare, si è ampiamente scontrata con il pensie- ro modernista, e in particolare con le teorie rivoluzionarie dell’architettura moderna, la quale rifiutava la concezione accademica dell’architettura e del- la città così come quella del monumento e del monumentalismo, poiché in esse vedeva l’espressione retorica di un mondo conservatore e antimoderno. Una delle prove più tranchant di come si configurò questo conflitto tra mo- dernità e conservazione, è data da Lewis Mumford, un sostenitore esem- plare del Moderno, che nel testo The Death of the Monument15 del 1937

descrive i monumenti ottocenteschi e gli edifici monumentali come “orien- tati alla morte e alla fissità”, “echi vuoti di un respiro evanescente, che cre- pitano ironicamente nella congestione delle nostre strade: mucchi di pietre che confondono il lavoro dei viventi, come la Public Library di New York,

14. Alois Riegl, Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi inizi (Milano:

Abscondita, 2011), 19. Edizione originale Der moderne Denkmalkultus. Seine Wesen und seine Entstehung (Vienna e Lipsia, 1903).

15. L. Mumford, “The Death of the Monument”, in Circle. An International Survey of Constructive Art. (London: Praeger, 1971), 263-270 (edizione originale: London: Faber & Faber, 1937).

grandiosa ma sovraffollata e confusa, o che per loro sono completamente irrilevanti16”. Mumford, che riconosceva il valore pittorico e “monumen-

tale” della silhouette di Manhattan proprio in virtù della sua accidentalità antiretorica17, fu attivo fautore di una nuova civiltà basata sull’astrazione,

sugli avanzamenti tecnologici, sul funzionalismo, sull’idea di adattabilità e leggerezza dell’architettura, decretando la morte del monumento al pun- to di affermare che “la nozione stessa di un monumento moderno è una contraddizione in termini: se è un monumento non può essere moderno, e se è moderno, non può essere un monumento”18. In opposizione alle te-

orie di Riegl, Mumford rifiuta la monumentalità in quanto fatto scultoreo lontano dalla vita, e attribuisce al museo l’unica possibilità di “fuga” per il monumento, specificando che quanto non può essere mantenuto material- mente in vita nel museo potrà essere misurato, fotografato e filmato così da ottenere non una mera immagine, ma una conoscenza attiva della fisiologia dell’edificio o dell’opera d’arte.

Ma gli anni ‘30 furono anche un momento di ripensamento del Movimento Moderno e di ricollocazione di molte sue istanze in una prospettiva sto- rica di più ampio respiro, inclusa la pretesa rifondativa della città e delle sue regole costitutive. Il saggio di Emil Kaufmann Von Ledoux bis Le Cor-

busier: Ursprung und Entwicklung der Autonomen Architektur19 (1933) è

fondamentale per almeno due ragioni: la prima è che Kaufmann attribuisce a Ledoux, e in particolare alla seconda versione del progetto per le Saline reali del 1744, la concezione di un sistema di composizione a “padiglioni” che in seguito diverrà predominante, in cui l’architettura è concepita come libera associazione di unità autonome, un passaggio che segna la fine del- la città barocca e della sua concezione unitaria dello spazio urbano basata sull’immagine d’insieme, sulla facciata, sovradeterminata in senso pittore- sco, eteronoma. La seconda ragione è che Kaufmann rilegge l’architettura dell’Illuminismo avendo in mente il principio di autonomia proprio dell’ar- chitettura moderna - in aperta polemica con il classicismo retorico dei regi-

16. L. Mumford, “The Death of the Monument” cit., 264. “Instead of being oriented toward death and fixity, we are oriented towards life and change: every stone has become ironic to us for we know that it, too, is in process of change, like the ‘everlasting’, mountains”. [...] “How many buildings that pretend to the august and the monumental have a touch of the modern spirit in them: they are all the hollow echoes of an expiring breath, rattling ironically in the busy streets of our cities: heaps of stones that either confound the work of the living, like the grand but over-crowded and confused Public Library in New York, or which are completely irrelevant to the living.”

17. Vedi l’esergo del cap 1.

18. L. Mumford, “The Death of the Monument” cit., 264. “The very notion of a modern monument is a contradiction in terms: if it is a monument, it cannot be modern, and if it is modern, it cannot be a monument.”

19. E. Kaufmann, Von Ledoux bis Le Corbusier : Ursprung und Entwicklung der Autonomen Architektur (Wien: Verlag Dr. Rolf Passer, 1933).

mi totalitari di allora - ponendo in continuità Ledoux e Le Corbusier. Scrive Hubert Damisch a questo proposito:

Il paradosso in cui ci porta la lettura di Kaufmann viene dal fatto che lui stesso ha cercato di dare a questo fenomeno [quello di una cesura radicale con il passato] una spiegazione storica, e che ha restituito al Movimento Mo- derno, oltre a un passato, la sua dimensione di storia: volere che la cesura, seguendo la sua idea, preceda l’architettura moderna fino alla fine del XVIII secolo implica che questa architettura non cominci con Le Corbusier, ma che abbia dietro di sé tutta una storia, arrivando - come si vedrà - fino alla sua pretesa di tabula rasa20.

Nello spostare all’indietro di quasi un secolo e mezzo le istanze del Movi- mento Moderno relative al rapporto tra architettura e città, e tra architettu- ra e immagine, Kaufmann pone le basi per una sua diversa contestualizza- zione, qualcosa che rappresenterà un terreno fertile per quel ripensamento critico e radicale della disciplina che avverrà dopo qualche decennio, e che si baserà in buona parte su una rinnovata consapevolezza, da parte degli architetti, di operare all’interno della storia.

Fu circa una trentina d’anni dopo che nel discorso architettonico si comin- ciò a reintrodurre l’idea di monumento in relazione agli aspetti strutturali della città, non solo storici, ma anche geografici e del territorio inteso in sen- so antropologico. Negli anni sessanta la riflessione sul ruolo del monumento ricompare sia in termini di significato, sia in termini di figura nella città. Il saggio di Nicolin rilegge un gruppo di testi fondamentali di quegli anni, a cominciare da L’immagine della città di Kevin Lynch (1960), che pone al centro del proprio ambito di ricerca l’idea di “immagine ambientale”, cioè il risultato di percezione e organizzazione cognitiva dello spazio urbano da parte degli abitanti di una città, e di come questa influisca sulla loro vita, e possa essere compresa, modificata e progettata. Tra le diverse caratteristi- che che Lynch introduce per definire il concetto di “immagine ambienta- le”, quello che assume qui un rilievo più evidente è quello di figurabilità, cioè “la qualità che conferisce a un oggetto fisico un’elevata probabilità di evocare in ogni osservatore un’immagine vigorosa”, cui Lynch attribuisce un valore positivo. “Una città altamente «figurabile» (appariscente, leggi- bile, visibile) in questo senso particolare si presenterebbe ben conformata, distinta, notevole; essa inviterebbe l’occhio e l’orecchio a una maggiore

20. H. Damisch, “Ledoux avec Kant.” Prefazione all’edizione francese di E. Kaufmann, De Ledoux à Le Corbusier. Origine et développement de l’architecture autonome (Paris: L’Equerre, 1981), 13.

attenzione e partecipazione”21. In questo senso Lynch concepisce lo spa-

zio urbano come paesaggio, urban landscape, composto da cinque elemen- ti urbani ben riconoscibili fisicamente e nominabili, Percorsi, Margini,

Quartieri, Nodi e Riferimenti. Questi ultimi, in particolare, sono elementi

puntuali, la cui caratteristica chiave è la singolarità: “qualche aspetto che, rispetto al contesto, è unico e memorabile. I riferimenti divengono più fa- cilmente identificabili, più facilmente prescelti come significativi, se pos- seggono una forma intellegibile, se contrastano col loro sfondo; e se hanno qualche preminenza nell’ubicazione spaziale. Il contrasto figura-sfondo sembra essere il fattore principale”22.

Nel 1966 furono pubblicati tre testi che determinarono una nuova fase di evoluzione del pensiero architettonico in relazione allo spazio urbano e al monumento: L’architettura della città di Aldo Rossi, la cui idea di città com- posta per parti e articolata nel rapporto tra “elementi primari” e “aree di residenza” è debitrice della concezione autonomista di Kaufmann; Com-

plexity and Contradiction in Architecture di Robert Venturi23, che può es-

sere interamente considerato, in un certo senso, come una rilettura e riabi- litazione dell’architettura monumentale del periodo manierista e barocco in rapporto con lo spazio urbano, in reazione all’”afasia del Movimento Moderno”24, e che troverà in seguito la propria sublimazione nello schizzo

“I AM A MONUMENT”, divenuto celebre nel fortunato Learning from

Las Vegas25; Il territorio dell’architettura26, in cui Vittorio Gregotti affronta

la “forma del territorio” in senso antropologico e geografico, come campo allargato di indagine e di competenza per l’architettura, in cui essa “possa riacquistare l’antica posizione di privilegio sul piano dei significati”27 che

caratterizzava i monumenti di un tempo. Tra le molte domande sollevate nel testo, Gregotti pone il problema dell’immagine della forma urbana in riferimento agli sviluppi della teoria della Gestalt e alla sua applicazione in ambito americano, riallacciandosi alle esperienze di Kevin Lynch e soprat- tutto di Gyorgy Kepes, le cui ricerche affrontarono per prime la possibilità di porre la questione della morfologia urbana in termini di sistemi di signi-

21. K. Lynch, L’immagine della città. (Venezia: Marsilio, 1985), 31-32. Edizione originale The Image of the City, (Cambridge: MIT press, 1960).

22. K. Lynch, L’immagine della città cit., 93.

23. R. Venturi, Complexity and Contradiction in Architecture (New York: The Museum of Modern art, 1966).

24. P. Nicolin, “I monumenti e le icone”, cit., 185.

25. R. Venturi, D. Scott Brown, S. Izenour, Learning from Las Vegas: The Forgotten Symbolism of Architectural Form (Cambridge: MIT Press, 1972).

26. V. Gregotti, Il territorio dell’architettura (Milano: Feltrinelli 2008), l’edizione originale è del 1966). Alcune dei problemi contenuti nel libro sono nuovamente affrontati in V. Gregotti, Architettura e postmetropoli (Torino: Einaudi, 2011).

ficato, descrivendo la città come un tessuto in continua mutazione, in cui

frequenza, ritmo, luce, sostituzione sono gli effetti del mutamento ma anche

i materiali tecnologicamente manovrabili sul piano formale28.

All’anno successivo risale la pubblicazione dei saggi di Ludovico Quaroni raccolti nel volume La torre di Babele, in cui è introdotto il concetto di tessuto (il continuo dell’edilizia residenziale) in rapporto ai monumen- ti, alle emergenze, ai focus, “quei punti nodali fortemente riconoscibili, che sono insieme la sede delle istituzioni e quindi la rappresentatività per le stesse, cioè per le ‘strutture’ nel senso politico della parola: la chiesa, i palazzi di città, i castelli, le moschee, i ‘beffroi’, la torre, la residenza; ma anche l’agorà, il foro, la piazza, le terme, il teatro”29, una concezione

urbana, quella di Quaroni, che si affianca e si sovrappone alla dialettica “per parti” formulata da Rossi. È in questo decennio che si innesca un rinnovamento nella concezione del rapporto tra architettura e città, e in cui gli architetti riscoprono l’interesse per l’individualità dell’edificio, in parziale sostituzione del monumento nello spazio urbano, ma anche come antidoto al disorientamento visivo e spaziale, laddove il Movimento Mo- derno aveva perseguito un progressivo abbandono della concezione uni- taria della città a favore di una composizione sempre più paratattica, che sfocerà nella disarticolazione della metropoli. Dunque, se da un lato que- sti autori approfondirono e cercarono nuove possibilità di significazione dei monumenti in relazione ai fatti urbani, allo stesso tempo diedero “un contributo a quell’indebolimento ontologico della nozione di monumento che preclude al declino attuale dell’idea”30.

È infatti nel nuovo contesto della metropoli e della crisi della sua rappresen- tazione che avviene il passaggio successivo, cioè quello del ritorno del mo- numento nella forma dell’”iconic building”, un ritorno avvenuto in modo prepotente e inatteso, se non altro per la forma in cui si è manifestato e per la rapidità della sua diffusione su scala globale. Sono passati di nuovo circa trent’anni, la città è cambiata e sono altre le città che si affacciano sulla scena globale, presentandosi come spazi frammentari in cui si è rotto l’equilibrio classico che da sempre, attraverso la visione prospettica, ha legato l’architet- tura e la scena urbana, ormai impossibile da rappresentare nella sua interezza. L’edificio iconico si presenta come un landmark, quel tipo di emergenza de-

28. V. Gregotti, Il territorio dell’architettura cit., 70. Le ricerche di Kepes appaiono oggi chiaramente anticipatrici non solo nei termini degli attuali sistemi metropolitani, ma anche e più semplicemente delle possibilità espressive dell’architettura, della sua pelle, delle diverse configurazioni notte/giorno, ecc., tutti elementi che si ritrovano con straordinaria evidenza nelle città interessate da rapidi e massicci fenomeni di espansione e trasformazione, in particolare in Cina e nel Golfo Persico.

29. L. Quaroni, La Torre di Babele (Venezia: Marsilio, 1967), 64. 30. P. Nicolin, “I monumenti e le icone”, cit., 184.

scritta dagli autori degli anni sessanta, ma il cui significato non è da ricercare nel rapporto con la città tradizionale, nella significazione del territorio e nel valore rituale, ma nella sua visibilità mediatica e nel suo valore “espositivo” e diffusivo, una diffusione che avviene largamente grazie alla fotografia.

Nicolin lega la disarticolazione dell’immagine della metropoli alla defini- zione del postmoderno data da Lyotard come “perdita dei referenti, dei fondamenti, in una parola dell’Essere, e la decadenza dei metalinguaggi le- gittimanti”, e giunge ad affermare che “la crisi della rappresentazione tra- dizionale e prospettica può, un po’ paradossalmente, corrispondere ad un alleggerimento della nozione di reale e ad una conseguente, quasi comple- ta, identificazione tra metropoli e mass media, conferendo un nuovo ine- dito rilievo ai segni simbolici”31. Ma un paragone ancora più calzante sulla

condizione attuale delle metropoli e della loro rappresentabilità, è quello tracciato da Giorgio Agamben in Il capitalismo come religione32, in cui, per

spiegare il parallelismo tra linguaggio e denaro, introduce un terzo elemen- to, cioè l’immagine. Agamben fa riferimento al notissimo La società dello

spettacolo di Guy Debord33 , la cui tesi centrale è che:

il capitalismo, nella sua fase estrema, si presenta come un’immensa ac- cumulazione di immagini, in cui tutto ciò era direttamente usato e vissuto si allontana in una rappresentazione. Nel punto in cui la mercificazione raggiunge il suo culmine, non soltanto ogni valore d’uso scompare, ma la natura stessa del denaro si trasforma. Esso non è più semplicemente «l’equivalente generale astratto di tutte le merci», in sé ancora dotate di un qualche valore d’uso: lo spettacolo è il denaro che si può soltanto guardare, poiché in esso la totalità dell’uso si è scambiata contro la totalità della rappresentazione astratta. [...] Al denaro come pura merce, corrisponde un linguaggio in cui il nesso col mondo si è spezzato. Linguaggio e cultura, separati nei media e nella pubblicità, diven- tano «la merce vedetta della società spettacolare». [...] È la stessa natura lin- guistica e comunicativa dell’uomo che si trova così espropriata nello spettacolo: ciò che impedisce la comunicazione è il suo assolutizzarsi in una sfera separata, in cui non vi è nulla da comunicare se non la comunicazione stessa34.

Quale che sia il significato che possiamo attribuire all’“iconic building” nella città contemporanea, e volendo assumere una posizione meno apo- calittica nei confronti delle sue trasformazioni - anche perché la presunta

31. P. Nicolin, “I monumenti e le icone”, cit., 187.

32. G Agamben. “Il capitalismo come religione”. In Archeologia dell’opera (Mendrisio: Mendrisio Academy Press, 2013), 91-92.

33. G. Debord, La società dello spettacolo. Baldini & Castoldi Dalai, Milano, 1997. (ed. originale La Société du spectacle. Paris: Éditions Buchet-Chastel, 1967).

egemonia del visibile non è un’invenzione moderna occidentale, né tanto- meno dipende solo dall’evoluzione dei media e delle strutture sociali, ma è una componente fondamentale di ogni cultura umana35 - la sua comparsa va

concepita nel contesto di una trasformazione strutturale di un’ampia parte dell’architettura, in rapporto a quanto teorizzato da Walter Benjamin nel celebre L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica. Il saggio è stato commentato infinite volte in ambito artistico, ma molto più raramente si è