fotografia si trovano intrecciate in una domanda che potremmo oggi rifor- mulare più semplicemente e più radicalmente: in che modo l’arte, e quindi anche i monumenti e le architetture, si trovano a essere costitutivamente modificati dalla fotografia?
La storia fotografica delle piramidi di Gizeh ben rappresenta ciò di cui vo- gliamo parlare. Sfogliando le pagine del volume di Alain D’Ooghe, inte- ramente dedicato alle fotografie di questi monumenti, è possibile seguire l’evoluzione della fotografia, dalle sue premesse documentarie alla piena espressione delle proprie potenzialità, e osservare come il cambiamento del modo di fotografare questo monumento corrisponda a un’evoluzione della fotografia e della concezione dei monumenti stessi, del loro apprezzamento, e della loro fruizione per mezzo del turismo. Il volume rappresenta una sorta di micro storia della fotografia dei monumenti, su cui vale la pena di soffermarsi più a lungo e con ampie citazioni8, come premessa alle successi-
ve riflessioni sul rapporto tra fotografia, monumenti e edifici iconici.
Le primissime fotografie delle piramidi, almeno fino agli anni ‘50 del XIX secolo, hanno un valore strettamente documentario. Il fotografo si accon- tentava di riprodurre ciò che aveva visto, senza preoccuparsi di creare un’o- pera autonoma, ma in seguito, fotografi viaggiatori come Felix Teynard, un ingegnere di Grenoble che percorse tutta la valle del Nilo, l’irlandese John Shaw Smith, l’americano John Beasly Green, cominciarono a ricercare un equilibrio tra il “rigore dell’informazione” e l’espressione di ciò che avevano percepito davanti al soggetto. Fu Francis Frith a sistematizzare il lavoro del fotografo di viaggi e di monumenti, ottenendo una grande visibilità in In- ghilterra con le fotografie del proprio viaggio in Medio Oriente e in Egitto, in cui sono incluse alcune celebri vedute delle piramidi. Il successo fu tale che Frith compì altri due viaggi, tutti pubblicati in libri con tirature ecce- zionali per l’epoca, e in seguito aprì uno studio di stampa e di vendita delle fotografie proprie e di altri, continuando a aumentare il repertorio delle im- magini grazie all’aiuto di collaboratori. Lo studio, in seguito, si specializzò nell’edizione di cartoline, proseguendo l’attività fino al 19719.
8. L’excursus storico contenuto in questo paragrafo riprende sottotraccia il testo di: A. D’Hooghe, “Les Pyramides de Gizeh et la photographie: petite histoire d’une grand complicitè” cit., 18-28.
Dopo Frith si costituì una figura diversa, quella di quei fotografi europei, come Antonio Beato, o i fratelli Zangaki, che elessero il proprio domicilio in Egitto e in altre regioni del Mediterraneo Orientale, come la Turchia o il Libano. Questi fotografi vendevano le proprie fotografie ai turisti che en- travano nelle loro botteghe, ma si appoggiavano anche a una rete di rappre- sentanti che le diffondevano in Europa ad uso dei romanzieri e dei pittori orientalisti. La diffusione di questo tipo di figura, tra gli anni ‘60 dell’ ‘800 fino a inizio ‘900, rese cosa normale, per un turista, acquistare una fotogra- fia delle piramidi durante un viaggio a Beirut o a Istanbul, così come oggi si possono acquistare delle riproduzioni in miniatura dei principali monu- menti europei in una qualsiasi città europea, e anche in altri luoghi turistici del mondo. Le fotografie, contenute in album di diversi formati, erano ra- ramente l’opera di un solo autore e raccoglievano vedute di svariati paesi. In questo modo la fotografia contribuiva attivamente alla creazione di un luogo immaginario, in cui i monumenti e i siti più famosi si ritrovavano ac- costati in un album, non diversamente da quanto accade oggi in un account del social media Flickr, o in un profilo di Instagram.
Le immagini delle piramidi raccontano l’avvicendarsi di movimenti fotogra- fici e di innovazioni tecniche, come la comparsa nel 1907 dell’autochrome: nel volume, uno scatto incredibilmente vivido di Friedrich Adolf Paneth ritrae la moglie in sella a una cavalcatura ai piedi di un’immensa piramide di Cheope, scattata nel 1913 durante il viaggio di nozze, un gesto che diver- rà abituale per le generazioni seguenti, raccontato da Pierre Bourdieu nel 1966, e divenuto oggi una pratica ancora più diffusa con il selfie.
Negli ultimi decenni del XIX secolo il turismo in quelle regioni cominciò a divenire abituale, anche grazie al taglio del Canale di Suez nel 1869 che rese più accessibile la rotta d’Oriente. Nello stesso anno Thomas Cook “in- ventò” la crociera sul Nilo, che contemplava tutte le tappe del Grand Tour, avviando una forma di turismo moderno anche in quella regione. Inoltre, nel 1888 George Eastman pose fine all’epoca dei fotografi-residenti quando introdusse la prima Kodak sul mercato internazionale. Grazie alla semplici- tà tecnica del nuovo mezzo ogni turista poteva scattare le proprie fotogra- fie dei viaggi e dei monumenti visitati, così che si diffusero sempre più le fotografie amatoriali e progressivamente si ridusse il numero dei fotografi professionisti.
Dopo i primi decenni del XX secolo molti fotografi abbandonarono il ge- nere documentario e distolsero lo sguardo dall’esplorazione dei luoghi lon- tani, per rivolgere la propria indagine sul mezzo fotografico in sé e sulle sue specificità. In un certo senso è soltanto dagli anni ‘60, con la nascita del
turismo di massa, che il tema del monumento riacquista interesse, anche se le immagini sono concepite in modo radicalmente diverso. Da questo momento, infatti, il monumento è presente solo in piccola parte nell’opera di un fotografo, ed è il modo in cui viene restituito in fotografia a rendere il fotografo interessante, più che la visione del monumento stesso, la cui immagine non è più motivo di scoperta e di interesse, ma un “pretesto”, un elemento en abyme nella cultura visiva collettiva.
Le fotografie di Lee Miller (1938) e René Burri (1962), che scattarono le proprie vedute dalla cima della Grand Pyramide mostrandone soltanto l’ombra, rappresentano in modo estremo quanto l’immagine di questo mo- numento sia ormai divenuta un’icona di sé stessa, riconoscibile in una ridu- zione alla pura forma geometrica del triangolo. Dallo sguardo surreale di Richard Misrach10, formatosi nell’orizzonte del deserto americano, ai tagli
orizzontali di Joseph Koudelka11, in cui le grandi vestigia del passato ap-
paiono come oggetti miniaturizzati o ingranditi, le piramidi sono state uno dei “luoghi” più celebri su cui i fotografi hanno svolto i più svariati esercizi, provocando una moltiplicazione dello sguardo e la trasformazione dei mo- numenti in oggetti, e degli oggetti in icone. La sequenza I Build a Pyramid, di Duane Michals12, del 1978, è emblematica: una serie di sei fotografie,
caratteristica del linguaggio di questo autore, mostra le grandi piramidi sullo sfondo, inquadrate in modo quasi simmetrico quasi si trattasse di un fondale dipinto, mentre in primo piano l’artista è affaccendato a costruire una piramide in miniatura, fatta di pietre sbozzate, che infine resta sola nel paesaggio, ingrandita al centro dell’inquadratura. La riduzione del monu- mento a immagine fotografica, così come l’esigenza di creare un simulacro, un monumento-oggetto in scala ridotta attraverso cui fare proprio qualcosa di inafferrabile, si collega in quest’opera alle le pratiche turistiche del sou-
venir per cui i monumenti sono riprodotti in forma di gadget e di cartolina,
e replicati in forma di simulacro in miniatura; allo stesso tempo l’opera di Michals allude alle sperimentazioni con cui la Land art pochi anni prima aveva cominciato a segnare il territorio con un intento di significazione, in analogia con le opere megalitiche del Dolmen e del Menhir, una pratica non estranea alle riflessioni che caratterizzavano una parte dell’architettura degli anni sessanta.
Les Trois Grandes Egyptiennes si chiude con alcune fotografie che ritraggo-
no altre fotografie delle piramidi, le quali si trovano in luoghi legati al viag-
10. F. Zanot, Il momento anticipato: Joel Meyerowitz, Richard Misrach (Milano, Edizioni della Meridiana, 2005).
11. J. Koudelka, Sledi/Vestiges 1991-2012 (Lubiana: Galerija Jakopic Gallery, 2014).
12. D. Michals, Duane Michals 50. A cura di M. Fiorese e E. Viganò (Verona e Milano, Admira Edizioni e Edizioni SiZ, 2008).