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Per fare un esempio concreto vicino al nostro tema, la definizione è ripresa da Louis Marin in La mappa della città e il suo ritratto47, in cui l’autore ana-

lizza in termini semiotici un gruppo di ritratti cinquecenteschi di Strasbur- go, associando all’idea di ritratto urbano un’essenzialità fenomenologica, per cui il profilo di una città è il suo profilo eidetico, la sua verità. Nelle vedute urbane di Strasburgo, Marin descrive la cattedrale - che in architet- tura chiameremmo comunemente con il termine icona - come un elemento che gioca il ruolo di “operatore eidetico” di un luogo, chiamando in causa un’identità tra visione e attività conoscitiva:

Si noterà peraltro, in tutti i profili-ritratti di Strasburgo, la ricorrenza ridondante di una veduta identica, una sorta di stereotipo. È forse questa ripe- tizione a fare del ritratto della città un’essenza “vera”, una eidetica: è possibile in effetti individuare un elemento rappresentato che, in tutti i profili dagli inizi del XVI fino al XX secolo, gioca in qualche modo il ruolo di operatore del profilo “eidetico”, un elemento iconico che diventa simbolo, per usare il linguaggio di Peirce, un segno quasi arbitrario la cui presenza “significa” Strasburgo. Si tratta della cattedrale, regolarmente rappresentata al centro della rappresentazione, e che molto spesso addita il nome “Strasburgo” con la sua guglia, raffigurata nella maggior parte dei casi a destra (mentre è a sinistra nelle piante)48.

Marin prosegue la sua analisi mettendo in relazione il luogo, la sua immagi- ne e il proprio nome:

La cattedrale con la sua guglia è un indice anaforico iconico (intra- testuale) del nome toponimico: “Questa è Strasburgo”. Ma la sua funzione è complessa, poiché la guglia della cattedrale, questo dito puntato verso il simbo- lo, è anche un nome “iconico”: “Strasburgo”. La guglia può ugualmente essere considerata come una sorta di segno tra iconico e simbolico o meglio come l’operatore di trasformazione dell’iconico in simbolico: “Questa icona è vera-

mente, necessariamente, certamente ‘Strasburgo’49.

Dizionario ragionato della teoria del linguaggio. A cura di P. Fabbri (Milano: Bruno

Mondadori, 2007),149-150. Gli autori, tuttavia, contestano la rilevanza di questa definizione di icona, distinguendo nel percorso generativo dei testi il concetto di figurazione, che rende conto della conversione dei temi in figure, e iconizzazione, che facendosi carico delle figure già costituite le dota di investimenti particolarizzanti, in grado di produrre l’illusione

referenziale. Sull’idea che l’architettura della città sia leggibile come un testo cfr. Jurij Lotman, “L’architettura nel contesto della cultura”. In eSamizdat, II-3 (2004), 109-119.

47. L. Marin, “La mappa della città e il suo ritratto”, in Della rappresentazione. A cura di Lucia Corrain (Roma: Meltemi 2001), 86.

48. Louis Marin, op. cit., 87. 49. Louis Marin, op. cit., 87.

La fenomenologia descritta da Marin non è forse ciò che caratterizza la co- noscenza dei luoghi, e propriamente di molte città, attraverso i monumenti e - in tempi recenti - attraverso gli edifici iconici? Non è forse vero che negli ultimi due decenni i nuovi edifici iconici (o dovremmo piuttosto chiamarli edifici iconici-simbolici?) hanno in molti casi sostituito il precedente imma- ginario monumentale, imponendosi come nuovi simboli delle città? Chiun- que conosca l’immaginario urbano contemporaneo, sa che questo è vero sia per città Europee come Londra o Barcellona, che per altri luoghi cui stori- camente non si associavano monumenti o edifici iconici, come Singapore, Kuala Lumpur, Hong Kong e altre città asiatiche e mediorientali.

In questo l’esperienza personale è forse la testimonianza più efficace: recen- temente mi è capitato di viaggiare in diverse città del Golfo Persico - Abu Dhabi, Dubai, Doha, Kuwait City, Manama, Riyadh - per una ricerca foto- grafica sull’architettura contemporanea. Visitando quei luoghi si costata ine- vitabilmente che la rappresentazione delle città - talvolta dell’intera nazione - coincide con le immagini dei principali edifici iconici di recente costruzio- ne. Questi luoghi di recente prosperità e urbanizzazione repentina hanno la necessità, ognuno secondo un certo carattere, di esprimere al mondo intero una propria identità capace di proiettarle nel novero delle cosiddette “world class cities”. In questo senso l’immagine della città e quella dell’architettura coincidono, per cui i nuovi edifici indicano simbolicamente l’intero luogo. Nel caso dei paesi del Golfo si tratta, in realtà, non di una coppia di elemen- ti, ma di una triade, il cui terzo, quello che radica i primi due nella cultura locale, è rappresentato dal ritratto degli Emiri o del Re, un’iconografia che porta questo discorso sull’icona dal ritratto di architettura al ritratto del vol- to umano. Il luogo, l’autorità, e l’edificio sono tre elementi che coincidono: lo sceicco/re è il luogo, così come lo è l’edificio, oltre a essere una rappre- sentazione del potere dello sceicco stesso.

Tra le città che ho citato, il caso di Dubai è il più clamoroso, ed è emblema- tico: i ritratti degli Emiri sono onnipresenti - dalle piccole botteghe alle hall degli hotel di lusso - e lo stesso accade per le fotografie delle architetture: il Burj Al Arab - letteralmente “la torre degli arabi”- il celebre edificio a forma di vela progettato dallo studio internazionale Atkins, e il Burj Khalifa - “la torre del califfo” - dal 2008 l’edificio più alto del mondo, progettato dagli americani SOM50. Dal suo completamento il Burj Khalifa è il simbolo

di Dubai, ma anche di una nazione, di un momento storico e di una certa

50. È interessante notare che la torre avrebbe dovuto chiamarsi Burj Dubai, con un riferimento toponimico più diretto al luogo, ma il nome è stato cambiato in Burj Khalifa, in onore di Khalifa bin Zayed Al Nahyan - il sovrano dell’emirato di Abu Dhabi, il maggiore dei sette emirati che compongono la nazione, e la principale autorità nazionale - che nel 2009 ha salvato il progetto dalla bancarotta.

cultura globale in cui all’immagine iconica di un’architettura è assegnato il ruolo di fissare nell’immaginario mondiale il nome di Dubai, allo scopo di attrarre investimenti, viaggiatori e turisti. Le rappresentazioni dell’edificio si trovano ovunque, ed è uno dei soggetti più ricorrenti nelle fotografie di viaggio caricate sui social network, al punto di superare icone più consolida- te a livello globale come l’Empire State Building di New York51.

A Dubai esiste un’architettura destinata a divenire la terza icona della città, un progetto significativamente chiamato Dubai Frame52.Si tratta del proget-

to vincitore del ThyssenKrupp Elevator Architecture Award del 2009, un concorso di architettura ideato dalla nota azienda produttrice di ascensori, il cui tema era la creazione di una struttura alta ed emblematica per la città. L’architetto vincitore del concorso, il messicano Fernando Donis, ha conce- pito un’opera che non fosse l’ennesima icona di un luogo già sovraccarico di simboli, ma una sottile cornice attraverso cui osservarlo: si tratta infatti di una struttura che definisce un vuoto, alta 150 metri posizionata a cavallo tra la città storica, da un lato, e gli sviluppi contemporanei dall’altro, costi- tuita da due torri laterali che sostengono un corpo orizzontale che contiene un osservatorio. Pur essendo al centro di ritardi, polemiche e controversie giudiziarie - non da ultimo perché è stato modificato dai committenti al fine di assomigliare figurativamente a una cornice - il progetto è in cor- so di realizzazione, ed ha sostanzialmente mantenuto il concept originale, confermando ancora una volta quanto nelle città contemporanee il luogo, l’architettura e il loro ritratto siano strettamente legati, arrivando talvolta a coincidere.

Diverso è il discorso relativo all’icona nella tradizione della pittura devo- zionale, grazie alla quale possiamo fare almeno tre considerazioni. In Le

porte regali. Saggio sull’icona53, Pavel Florenskij attribuisce all’icona - una

tavola su cui è dipinto il volto di Cristo, della Madonna o dei santi - un nesso ontologico con l’archetipo, a cui il devoto può ascendere tramite l’immagine. La sostanza dell’icona, dunque, non è la rappresentazione, ma la manifestazione dell’ontologia che si realizza attraverso lo sguardo, e

51. Sul social media Instagram (31 marzo 2017) la tag #burjkhalifa conta 1.541.848 post, superando i 1.530.529 post dell’Empire State Building di New York. Che si tratti dei ritratti delle personalità o delle architetture, stiamo parlando di un repertorio iconografico molto ristretto e canonizzato, basato sulla ripetizione di poche e selezionate immagini fotografiche ufficiali, che spesso sono riprodotte in forma di dipinto per rispondere al bisogno di “storicizzazione” del soggetto ritratto. Questo tipo di rappresentazione, infatti, è mutuato dalla cultura occidentale, in cui ha profonde radici.

52. Sul Dubai Frame e le controversie legate al progetto cfr. http://donis.org/projects/dubai- frame/; https://www.nytimes.com/2017/03/08/business/dubai-frame-building-stolen-design. html?_r=0.

che corrisponde a una precisa architettura teologica e a canoni figurativi ripetuti che permettono di penetrare in profondità il mondo spirituale. Questa è dunque la ragione dell’icona nella sua ripetitività e fissità. In un certo senso il saggio di Florenskij permette di ipotizzare una diversa concezione dell’edifico iconico, in cui ciò che conferisce iconicità all’edi- ficio non è tanto il suo valore figurale, a cui si limita l’approccio fenome- nologico proposto da Marin, ma soprattutto l’idea che si tratti di un’ar- chitettura che si realizza pienamente nell’immagine e nella sua ripetizione secondo canoni specifici, che sono in verità quelli della rappresentazione fotografica dell’architettura.

Il parallelismo, per quanto azzardato, con la pittura di icone (Florenskij si riferisce in particolare alla pittura d’icone russa dei secoli XIV e XV) ci permette anche di interpretare la condanna del Movimento Moderno per l’edificio monumentale, esemplificata dal saggio già citato di Mumford, come una forma di autentica iconoclastia: gli iconoclasti, infatti, non nega- vano affatto la possibilità e l’efficacia della pittura religiosa, ma rifiutavano il suo nesso ontologico con gli archetipi, e per questa ragione vedevano nel culto delle rappresentazioni una forma di idolatria. Allo stesso modo gli architetti del Moderno rifiutavano l’idea di identità tra architettura e immagine laddove l’architettura non rispondeva a regole autonome, ma - citando ancora Damisch:

... obbediva a una determinazione esterna, quella della convenienza che voleva che le parti di cui si compone un edificio si combinino, si sovrap- pongano, si fondino nell’unità di uno stesso insieme, seguendo le regole di un ordine tutto di facciata, e che era lui stesso all’immagine della gerarchia sociale. Seguendo la dimostrazione che ha dato Kaufmann, il nuovo principio di autonomia si troverà al contrario a manifestarsi nel sistema ugualitario dei «padiglioni», che suppone che gli elementi, e per esempio i differenti «bloc- chi» o «unità» (d’abitazione o altro) conservino la loro indipendenza, la loro libertà, la loro autonomia, e che la ragione che presiede alla loro disposizione, alla loro distribuzione, non appaia in tutta chiarezza che nel registro della pianta. Il rifiuto della «facciata», in cui il XX secolo vedrà uno dei tratti del- la modernità in architettura, sembra, all’inizio del XIX secolo, un corollario dell’affermazione di una legalità universale e astratta: quella che si affermerà nell’insegnamento di Durand sotto forma di una griglia ortogonale regolare iscritta nel quadrato, sulla quale si doveva regolare la meccanica della compo- sizione e che era tenuta a informare integralmente, come ancora sarà in Mies van der Rohe, la volontà e la rappresentazione dell’architettura54.

In questo enunciato ritroviamo alcuni dei principi di ortodossia del Movi- mento Moderno, che rifiutò il simbolismo nell’architettura identificandolo con un formalismo celebrativo e retorico, senza tuttavia rifiutare la figura in quanto tale. Al contrario, si trattò del conseguimento della forma come risultante dell’applicazione di principi interni all’architettura - cioè di una propria ontologia, o perlomeno di un metodo - che fece si che anche il Mo- derno si configurasse nel corso dei decenni come una successione di icone architettoniche, le quali, ancora una volta, si sono costituite come icone grazie alla fotografia. E non è forse inopportuno ribadire qui la distinzione semiotica tra figurale e figurativo, in cui il secondo termine è una categoria del primo, ma entrambi sono modi della figurazione, dove il figurale è una costante ineludibile, poiché è impossibile pensare l’architettura - e in gene- rale è impossibile pensare - senza figura55.

Per verificare questa ipotesi, ho recentemente messo a confronto l’icono- grafia di una quindicina di testi di storia dell’architettura moderna e con- temporanea, sia italiani (Zevi, Benevolo, Tafuri, Dal Co, Biraghi, Munto- ni, De Fusco, Fanelli e Gargiani)56 che internazionali (Pevsner, Frampton,

Hitchcock, Curtis, Giedion, Steele, Montaner)57, allo scopo di verificare se

ci fossero immagini regolarmente reiterate e quali esse fossero, e cioè se si possa parlare, in un certo senso, di un canone iconografico dell’architettura moderna58. Molti edifici, infatti, sono riprodotti in fotografia con immagini

55. Cfr. A. J Greimas, J. Courtés, cit. Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, cit. 122-124.

56. L. Benevolo, Storia dell’architettura moderna (Roma e Bari: Laterza, 1960); L.

Benevolo, Storia dell’architettura moderna (Roma e Bari: Laterza, 1992); M. Biraghi, Storia dell’architettura contemporanea (Torino: Einaudi, 2008); R. De Fusco, Storia dell’architettura contemporanea (Roma e Bari: Laterza, 1988); G. Fanelli e R. Gargiani, Storia dell’architettura contemporanea: spazio, struttura, involucro (Roma e Bari: Laterza, 1998); A. Muntoni, Lineamenti di storia dell’architettura contemporanea. Roma e Bari: Laterza, 1997; M. Tafuri e F. Dal Co, Architettura contemporanea (Milano: Electa, 1976); B. Zevi, Storia e controstoria dell’architettura in Italia (Roma: Newton, 1997); B. Zevi, Storia dell’architettura moderna (Torino: Einaudi, 1950); B. Zevi, Storia dell’architettura moderna (Torino: Einaudi, 1994. 57. Modern architecture: international exhibition: New York, Museum of Modern Art, feb. 10 to march 23, 1932 (New York: Museum of Modern Art, 1932); W. J. R. Curtis, Modern architecture since 1900 (Oxford: Phaidon, 1982); K. Frampton, Modern architecture: a critical history (London: Thames and Hudson, 1980); Sigfried Giedion, Space, time and architecture: the growth of a new tradition cit.; H.-R. Hitchcock, Architecture: nineteenth and twentieth centuries (Harmondsworth: Penguin, 1958); H.-R. Hitchcock and P. Johnson, The International Style (New York: Norton, 1966); Josep Maria Montaner, Dopo il movimento moderno: l’architettura della seconda metà del Novecento (Roma e Bari: Laterza, 1996); Nikolaus Pevsner, Storia dell’architettura europea (Milano: Il Saggiatore, 1966); James Steele, Architecture today (London: Phaidon, 1997).

58. La ricerca, qui soltanto abbozzata, sul canone dell’immagine fotografica del moderno è uno spunto che meriterebbe di essere sistematizzato, estendendo il campo di indagine alle riviste e alle monografie. Un termine di confronto è rappresentato da J. Cutting, Impressionism and Its Canon (Lanham: University Press of America, 2006), un volume che delinea in

Claude-Nicolas Ledoux, Vue perspective d’une forge a canons

che si ripetono simili sia nel soggetto che nel punto di vista, con piccole variazioni. Si è trattato di una ricognizione volutamente rapida, basata sul colpo d’occhio, che corrisponde alla percezione delle immagini stampate che un lettore può avere nello sfogliare velocemente e ripetutamente i libri, e che tuttavia ha portato a risultati non banali. Una prima osservazione è che molte delle immagini più ricorrenti sono ritratti di architetture dal profilo figurale molto limitato. Per esempio, i progetti più citati nell’iconografia dei volumi presi in esame sono due: la fabbrica modello all’esposizione del Werkbund di Colonia, di Walter Gropius (1914), di cui ricorrono una ve- duta d’insieme e un dettaglio del corpo scale vetrato, e il complesso residen- ziale Eigen Haard di Michel de Klerk ad Amsterdam (1917) con la celebre torre59. È sorprendente pensare a molte di queste opere come a delle “ico-

ne”: la Casa Steiner di Adolf Loos (Vienna, 1910), di cui ricorre sempre e soltanto la stessa immagine dell’austera facciata posteriore; la Villa Schröder di Gerrit Rietveld (Utrecht, 1924), sempre mostrata di scorcio in modo da eludere la preesistenza della casa a schiera adiacente; le abitazioni popolari a Hoek van Holland di J.J.P. Oud (1924-27), viste dalla strada con i balconi curvilinei; la fabbrica Van Nelle di Brinkman & van der Vlugt (Rotterdam, 1927) rappresentata sempre con la stessa veduta di tre quarti con il corpo curvilineo in primo piano e le passerelle sospese in lontananza; la Lovell House di Richard Neutra (Newport Beach, 1927-29).

Ci sono poi progetti cui più facilmente oggi si associa una nozione di ico- nicità, o perché sono più “espressivi”, come la Torre Einstein (Potsdam, 1920-24) e i magazzini Schocken (Stoccarda, 1926) di Eric Mendelsohn, oppure perché la loro immagine, in seguito, si è consolidata a tal punto da essere a tutti gli effetti un “mito” dell’architettura moderna. Mi riferisco qui ad alcune opere di Frank Lloyd Wright come la Fallingwater (Mill Run, 1935), la cui immagine è sempre presa da un punto di vista ribassato, o il Guggenheim (New York, 1943-59); di Le Corbusier, come la Ville Savoye (Poissy, 1928-31), di cui sono sempre riprodotte le facciate, ma anche una veduta da sotto il portico, e i progetti di Ronchamp (1950-55) e Chandigarh (1951-56); Il Seagram Building di Mies van der Rohe (New York, 1954-58), sempre rappresentato di tre quarti, dall’alto di un edificio prospicente come nella celebre immagine di Ezra Stoller, e iconograficamente vicino alla Le-

effettivamente stato e la percezione che il pubblico ne ha avuto nel tempo, fino ad oggi. 59. A questi due progetti possiamo in un certo senso ricondurre due tipi di icone del moderno, il primo decisamente anti-iconico (o dovremmo piuttosto dire anti-figurativo), il secondo caratterizzato da una componente figurale più spiccata, che è più facile immaginare come ciò che ha precorso l’edificio iconico e spettacolare. Si tratta tuttavia di categorie interpretative variabili, per cui è possibile talvolta che un progetto appartenga alternativamente ad una o all’altra, a seconda dell’immagine considerata o che si prenda in esame il progetto in sé oppure l’immagine del progetto.

Le Corbusier, I monumenti di Roma Antica

ver House di Skidmore, Owings and Merrill (New York, 1950-52)60. Non

bisogna dimenticare che già nella celebre mostra “Modern Architecture - International Exhibition” tenutasi al Moma di New York nel 1932, curata da Henry-Russell Hitchcock e Philip Johnson, così come nel volume The

International Style correlato alla mostra, i progetti costruiti erano rappre-

sentati con “uno scatto decisivo, un’immagine pubblicitaria che è divenuta canonica tanto quanto l’edificio (se non più ancora più importante)”61. Inol-

tre, all’origine del Movimento Moderno vi è un repertorio di edifici indu- striali divenuti icone, che erano conosciuti agli architetti soltanto attraverso la rappresentazione fotografica. L’analisi di un certo numero di volumi, e delle successive edizioni di ogni volume, fa inoltre costatare la cattiva quali- tà di molte riproduzioni fotografiche, al punto che talvolta è difficile distin- guere se si tratti di disegni prospettici, di fotografie di modelli o di edifici realizzati. Questo fa riflettere su come la storia dell’architettura, almeno fino alla piena diffusione dei libri con fotografie a colori, avvenuta pochi anni fa, non sia stata una storia degli edifici - nel senso in cui potremmo intenderlo oggi, in cui ogni edificio è fotografato e ben rappresentato, così che è pos- sibile osservarlo approfonditamente - ma al contrario una storia delle idee che sono alla base del Movimento Moderno, e di una critica basata sulla circolazione di poche immagini esemplificative62.

In ogni caso, la differenza tra quasi tutte queste opere e gli edifici iconici contemporanei, è che nessuno di essi è stato concepito come landmark, come icona-simbolo della città, proprio per la concezione non figurativa del progetto moderno. Dove l’edificio moderno esiste come icona solo in un secondo tempo, come conseguenza di ragioni storico-filologiche, indirette, l’edificio iconico contemporaneo si realizza pienamente nell’immagine - in un’immagine pubblica, diffusa, proliferante, capace di fissare per metoni- mia il dilagare della metropoli.

È nel rapporto tra edificio iconico e città, infatti, che possiamo trovare un terzo termine di paragone con la teoria dell’icona. In alcuni testi Flo- renskij si sofferma sugli aspetti anti-prospettici che sono presenti in molte delle più celebri icone russe, sostenendo che esse non siano da intendere

60. Cfr: E. Ford, “The Inconvenient Friend” cit., 12-22.

61. B. Colomina, Privacy and Publicity cit., 211; nello stesso volume vedi anche il suo commento a Reyner Banham, 14. Sugli effetti delle riproduzioni fotografiche della mostra del MOMA vedi J. Rosa, “Architectural Photography and the Construction of Modern Architecture”, History of Photography, 22- 2 (1998), 99-104.

62. Proseguendo il confronto con l’immaginario dell’iconografia sacra, cfr. S. Gruzinski, La