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Dall’annessione alla rivoluzione comunista

Nel documento Indice Introduzione 6 (pagine 134-146)

Verso la metà del ’46 (giugno-luglio), quando i ministri degli esteri ufficialmente scelsero la linea francese Bidault - che affidava quasi tutta la Venezia Giulia, Pola compresa, alla Jugoslavia, la situazione politica nella regione mutò. Il periodo che intercorse fino al successivo incontro dei ministri degli esteri previsto per la fine dell’anno (novembre-dicembre), vide il governo jugoslavo adottare una serie di provvedimenti interni, a proprio vantaggio, prima che il trattato di pace chiudesse il contenzioso in modo definitivo. A Pola il fronte filoitaliano, specie dopo la strage di Vergarolla dell’agosto, si trasformò in un movimento che, alla scelta di vivere nella Jugoslavia di Tito, preferì l’abbandono in massa della città.

In particolar modo, nei mesi dall’ottobre ‘46 alla fine dell’anno, e in linea con i cambiamenti a livello jugoslavo, l’attività del Comitato fu rivolta all’adozione di una serie di misure che a breve, ma soprattutto a lungo termine, avrebbero portato a trasformazioni economiche, sociali, nazionali e culturali nella società istriana, tali da modificare radicalmente il carattere del territorio. Fino alla fine del ‘46, quando per il partito il processo di annessione poteva dirsi concluso, questi aveva posto in prima linea le questioni politiche e nazionali, e tutte le altre – quella economica, sociale, religiosa e culturale – erano passate in secondo piano. Così nei discorsi e nelle manifestazioni pubbliche, i comunisti spesso avevano dichiarato apertamente che il fine delle loro azioni era l’unione dei territori alla Croazia e alla Slovenia, rispettivamente alla Jugoslavia. Le autorità avevano parlato genericamente di cambiamenti e d’interventi nel campo economico, ma senza far precisa menzione dei mutamenti dell’ordinamento sociale ed economico e, men che meno, della “dittatura del proletariato” e della statalizzazione della proprietà privata. Ancora più accorti furono nel campo della religione.

Già durante la visita interalleata si era percepito come lo scontro frontale fra le forze contrapposte nel campo politico non lasciava margini di compromesso o mediazione. Ora che ci si avviava alla firma del trattato, si manifestò una svolta radicale nella linea fino allora seguita dalle autorità comuniste, che trovò immediata traduzione politica sul piano della lotta nazionale. Chiunque avesse osato manifestare il proprio appoggio alla “reazione” (italiana), costui diventava “fascista” e “nemico”.

I provvedimenti “rivoluzionari”, come ebbe a esprimersi un dirigente regionale, dovevano essere attuati a tutti i costi prima del trattato, per non dare l’ ”impressione che fosse la Jugoslavia ad introdurli”439. Del resto, la strategia rivoluzionaria e la tattica dei comunisti croati, ovvero jugoslavi, erano state in gran parte concepite e

      

439 L’affermazione è del segretario organizzativo Domaći, cfr. HDAZ, f. Obl. Kom. KPH za Istru, b. 9, 2° Quaderno dei Verbali del Comitato regionale del PCC per l’Istria (luglio ‘46-maggio ‘47), verbale del 30 ottobre ‘46.

delineate molto tempo prima, tanto che durante la guerra il PCC/PCJ non fissò formalmente come proprio fine il cambiamento del sistema sociale, ovvero non parlò di fini rivoluzionari, anche se sin dall’inizio fu sottolineato “che non ci sarebbe stato un ritorno al passato, al regime antipopolare che aveva portato alla catastrofe della Jugoslavia”440. Gli obiettivi “specifici” dei comunisti jugoslavi si svilupparono a tappe durante la guerra di liberazione, all’interno della quale molti simboli e segnali esteriori “rivoluzionari” furono celati. La gradualità seguita dai comunisti jugoslavi era condizionata dal fatto che gran parte della popolazione non era per niente propensa ad accettare slogan legati alla “rivoluzione socialista”. Inoltre, qualora il partito comunista avesse agito apertamente, scoprendo i suoi obiettivi rivoluzionari, le potenze alleate sarebbero state poco propense ad aiutare siffatto movimento di liberazione. Per tale motivo, durante tutto il periodo della guerra, ma come già ricordato anche nel dopoguerra, il PCJ/PCC non operò apertamente nella vita politica del paese, ma rimase un’organizzazione clandestina e illegale441.

Inizialmente, alla fine di ottobre 1946, fu adottata una chiara posizione nella politica nazionale sul territorio. Le motivazioni utilizzate dai dirigenti furono ricondotte a reazioni interne del partito, a quelle che furono intese come espressioni di “opportunismo”, che si sarebbero manifestate nei comitati di partito di quei centri che nell’ottica jugoslava erano abitati da popolazione mista442. I dirigenti di Dignano, Arsia, Pisino e Fiume furono imputati di condurre una politica nazionale troppo elastica, confermata dalle rispettive relazioni politiche informative, le quali riferivano

      

440 D. BILANDŽIĆ, Društveni razvoj socijalističke Jugoslavije, Zagreb, 1976, p. 31.

441 L’idea del progetto rivoluzionario in Croazia poggiava, chiaramente, sulle idee della Rivoluzione d’Ottobre del 1917. Gli autori del periodo jugoslavi concordano nell’affermare che la strategia rivoluzionaria e la tattica dei comunisti jugoslavi fossero in gran parte concepite e delineate prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Con l’attacco alla Jugoslavia, ma soprattutto con l’invasione dell’Unione Sovietica da parte della Germania nazista nel giugno 1941, per i comunisti jugoslavi erano invece maturate le condizioni per l’organizzazione di un movimento di resistenza armato all’occupazione militare delle potenze dell’Asse e quindi per la realizzazione di una “rivoluzione socialista”. Per tali autori, la specificità del progetto rivoluzionario in Croazia poggiò sul fatto che essa aveva avuto una vasta base sociale e un largo consenso e non si era manifestata attraverso la classica lotta di classe tra proletariato e borghesia, ma attraverso la lotta di liberazione in cui la borghesia era stata distrutta in quanto collaborazionista con l’occupatore. Inoltre, la rivoluzione jugoslava avrebbe risolto la questione nazionale e di classe, perché strettamente collegate. La strategia rivoluzionaria poggiava sulla concezione rivoluzionaria leninista, che si realizzava nell’alleanza tra una classe operaia più o meno sviluppata e altri strati sociali che con lo sviluppo del capitalismo erano stati intaccati e che attraverso il movimento operaio e la rivoluzione socialista avrebbero goduto di uno sviluppo sociale. Siccome la Croazia e la Jugoslavia in generale erano dei paesi basati prevalentemente sull’agricoltura, e i contadini rappresentavano la maggioranza della popolazione, era chiaro che per lo sviluppo di un movimento di liberazione, i comunisti avrebbero cercato il consenso dei contadini, tanto che furono proprio loro quelli che diedero il maggior apporto. Secondo, già durante la lotta di liberazione presero forma quelle condizioni politiche e ideologiche che avrebbero portato ad uno sviluppo rivoluzionario alla fine della guerra. Terzo, la creazione di “autorità rivoluzionarie” durante la guerra di liberazione, ovviamente senza alcun compromesso con le altre forze politiche civili. Su questi aspetti cfr. I. JELIĆ, Komunistička partija Hrvatske 1937-’45, Zagreb, 1981, p. 36; D. BILANDŽIĆ, Društveni razvoj, cit., p. 31; M. ZEČEVIĆ – B. PETRANOVIĆ, Jugoslavija 1918-1988, Beograd, 1988.

che “la situazione è migliorata da quando ci sono i film in italiano”, oppure che la città “si ribella perché le scritte sono soltanto in croato”.

La tendenza secondo cui alcuni comitati di partito “proteggevano o favorivano le scritte italiane e in genere il carattere italiano” della penisola, così come “nelle manifestazioni pubbliche la lingua italiana ha la precedenza”, non poteva più essere tollerata dal partito. Il primo passo fu quello di adottare una precisa presa di posizione nei confronti dell’uso della lingua italiana nell’amministrazione e nelle manifestazioni pubbliche, nelle scritte e nella segnaletica stradale. Così, fu deciso che nei distretti di Rovigno, Pinguente, Dignano, Buie, Parenzo, Fiume e Pola (anche se si trovava ancora sotto amministrazione alleata), la corrispondenza amministrativa e le scritte visive potevano essere bilingui, ma al primo posto doveva esserci la lingua croata. In “tutti i distretti e centri croati”, che non furono specificati, andava usata soltanto la lingua croata. Nelle città di Rovigno e Dignano, che presentavano un apparato amministrativo e di partito completamente italiano, veniva tollerato l’uso della lingua italiana nelle comunicazioni scritte con il CPL regionale, come pure si concedeva che la segnaletica stradale delle vie potesse essere scritta in italiano443.

La relativa misura, che fu votata il 25 novembre ‘46 dal massimo organismo rappresentativo jugoslavo, l’Assemblea popolare regionale, prevedeva “l’annullamento dei decreti fascisti sul cambiamento forzato dei nomi delle località e persone”; essa entrò in vigore il 15 dicembre ’46.

Una seconda misura, definita di portata storica, e votata in tale data fu quella “sulla regolazione dei rapporti agrari e sull’annullamento delle vendite forzate nel territorio del CPL regionale per l’Istria”444.

Accanto a questi provvedimenti, nell’autunno ’46 i vertici regionali decisero di avviare una serie di misure contro i “resti del fascismo”, gli “speculatori” e i “profittatori di guerra”, dopo che già all’inizio del ‘46 era stata adottata, sul territorio sottoposto al CPL dell’Istria, l’ordinanza sulla “repressione del commercio illecito e della speculazione illecita”. Essa rispondeva, come abbiamo già visto, non soltanto alla logica politica e sociale che guidò il regime jugoslavo nelle scelte durante il 1946-1947, ma inevitabilmente anche sul piano nazionale; in altre parole, azzerando da un punto di vista finanziario e quindi economico gli avversari politici e di classe, come lo erano i commercianti e gli artigiani, il regime jugoslavo di riflesso andava a colpire l’elemento italiano.

Dal punto di vista dell’azione del partito, ciò che mutò fu la tattica adottata nella lotta politica che, se fino a quel momento aveva avuto come fine l’annessione del territorio, ora si volgeva a quello che veniva definito il “fine economico”. In particolare, il segretario spiegò che l’“opportunismo” dei dirigenti distrettuali istriani si dimostrava anche nei confronti degli “speculatori” e dei “fascisti”, che erano identificati nei commercianti e nei negozianti.

      

443 Ibidem.

Alla seduta del comitato regionale del 30 ottobre ’46, D. Diminić dichiarò che la nuova strategia del partito doveva essere quella di “distruggere il nemico dal punto di vista economico”. Il vero problema per i dirigenti regionali nasceva però dal fatto di dover spiegare e inculcare ai capi distrettuali e alla base del partito che il “nemico” non era più soltanto quella persona che fosse stata contraria all’annessione alla Jugoslavia, ma anche quella benestante e abbiente “perché si è arricchita a danno del popolo”. Pure il segretario organizzativo osservò che i “fascisti e gli speculatori hanno alzato la cresta, certi che le autorità popolari non avrebbero agito nei loro confronti”, ma “era giunto il momento di passare ai fatti!”, affidando l’incarico gli organi amministrativi, che in sintonia con la Pubblica Accusa, avrebbero prevenuto qualsiasi loro azione. Preoccupazioni però nascevano dal fatto che i dirigenti annotavano evidenti segnali che anche il “popolo”, cioè i contadini e gli operai, erano favorevoli al fronte filoitaliano, ovvero a quelli che venivano definiti “nemici” e “opportunisti”, mentre in precedenza erano stati “rivoluzionari”. Per reagire a tale situazione di ostilità nei confronti del potere popolare jugoslavo, e colpire tutti coloro i quali non erano favorevoli, i dirigenti comunisti regionali, compreso il rappresentante italiano, prospettarono quale soluzione il rafforzamento dell’ ”odio di classe tra la reazione (fronte filoitaliano n.d.a.) e la classe operaia” (Tomazo Dobrić), e nel campo giudiziario, lo sviluppo dei tribunali rivoluzionari (Giusto Massarotto).445

La serie di misure contro i “resti del fascismo”, gli “speculatori” e i “profittatori di guerra”, annunciate dal comitato regionale di partito, avevano sì l’obiettivo di colpire “i maggiori speculatori”, vale a dire i commercianti più rappresentativi, ma anche attraverso un procedimento penale, colpire con “l’arresto là dove ce ne fosse stato bisogno, stando attenti a non oltrepassare i limiti”446. I metodi estremi con cui la direttiva fu applicata in quei giorni di novembre ‘46, portarono però a risultati, definiti “disastrosi” dai medesimi dirigenti regionali. I controlli e le ispezioni di negozi e di esercenti privati, che furono applicati contemporaneamente in tutti i distretti, assunsero il carattere di vere e proprie razzie da parte delle autorità jugoslave. Arresti indiscriminati di commercianti e sequestri fuori di ogni controllo di quintali di nafta, cuoio, sapone, zucchero, farina, sigarette, centinaia di scarpe, materiali e giornali italiani considerati “reazionari e fascisti”, come quelli legati all’organizzazione “Uomo qualunque” sequestrati a Gallesano, furono eseguiti a Parenzo, Montona, Pinguente, Rovigno e Pisino.447 Nel Buiese la “caccia agli speculatori” portò a 15 casi di confisca e all’arresto di 2 commercianti. Nel distretto di Dignano ci furono 50 casi di controlli contro i “speculatori” eseguiti da membri del partito448, con l’arresto dei commercianti fratelli Sansa, Luigi Birattari, Matteo Belci ed altri. Ma

L’Arena di Pola

, il giornale del CLN di Pola, segnalò anche che, oltre al sequestro degli esercizi, a

      

445 HDAZ, f. Obl. Kom. KPH za Istru, b. 9, verbali del 30 ottobre e 24 novembre ‘46.

446 HDAZ, f. Obl. Kom. KPH za Istru, b. 9, verbale del 24 novembre '46, cit.

447 Vedi I lavori della sessione straordinaria dell’Assemblea popolare regionale per l’Istria, in “La Voce del Popolo”, 28 novembre ‘46, p.3.

448 HDAZ, f. Obl. Kom. KPH za Istru, b.3, verbale della IV conferenza dei segretari dei comitati distrettuali del PCC per l'Istria, Arsia, 4 febbraio ‘47.

Gallesano, Rovigno, Dignano, Albona, le famiglie fossero state derubate da tutto l’oro (collane, braccialetti) e denaro trovato in casa o nel negozio, come pure furono ritirate le carte d’identità a tutti i componenti delle famiglie interessate. Inoltre, a Rovigno, dopo che gli agenti dell’Ozna avevano messo a soqquadro le case, furono stati arrestati 10 commercianti e 7 negozi chiusi con previo sequestro dei beni. Ad Albona, almeno sette famiglie erano state private di tutti i valori trovati. A Fasana, a 13 persone erano stati sequestrati denaro, catene e braccialetti d’oro, biancheria, vestiario449.

Furono gli stessi dirigenti regionali in una riunione straordinaria a sostenere che i sistemi con cui tali misure erano stati eseguite avevano gettato nel panico più totale la popolazione, diffondendo il malanimo nei confronti delle autorità popolari che avevano gestito i controlli e le perquisizioni. A Lussino, dove il dirigente regionale aveva ordinato di ispezionare tutte le botteghe commerciali e gli altri esercizi anche di notte, con sequestri di merci e arresti di commercianti, la popolazione, a detta del dirigente regionale, ne era uscita terrorizzata. A posteriori, nell’analizzare le cause dei disastrosi risultati, il segretario regionale politico del partito addossò le maggiori responsabilità al comitato medesimo, che non era stato capace di ponderare le conseguenze che un simile atto avrebbe causato; che non aveva precisato e puntualizzato le misure “concrete”, che invece avevano lasciato largo spazio di manovra all’interpretazione soggettiva dei dirigenti regionali e distrettuali, e che non aveva prontamente corretto tali “errori” sul territorio450.

Al rappresentante degli Affari interni del CPL regionale, Ratko Lazarić, che aveva avuto il compito di dirigere tutta l’operazione, fu imputato di aver interpretato le misure come “qualcosa di eccezionale” e di conseguenza di aver dato a tutta l’operazione una piega diversa, “percorrendo una strada sbagliata, senza un piano e un controllo effettivo” da parte del comitato regionale del partito. Conosciuto come un “radicale di sinistra”, il comitato aveva lasciato che questi svolgesse da solo la riunione con i dirigenti distrettuali, consentendo che impostasse e impartisse le direttive con modalità estreme.

Il segretario, infine, imputò all’intero apparato di partito di essere stato alquanto rigido, chiuso e intransigente nell’applicazione delle misure e alle autorità popolari regionali e distrettuali di aver interpretato la misura come un momento di rottura e di svolta, con il risultato di aver peggiorato la delicata situazione politica.

Di diverso pensiero, invece, fu Dina Zlatić la quale, durante la riunione in cui fu discussa la problematica, sostenne che i risultati che avevano portato al sequestro di denaro e di merci negli esercizi commerciali, dimostravano che le misure attuate erano state necessarie, imputando ai commercianti privati le responsabilità della crisi finanziaria istriana e di conseguenza, di quella politica. La Zlatić difese pure il

      

449 Cfr. gli articoli Terrore nell’Istria. Arresti a Dignano, Rovigno ed Albona; Disperato appello della popolazione di Gallesano; Arresti e perquisizioni a Rovigno, Albona e Fasana, in “L’Arena di Pola”, 17, 19 e 20 novembre ‘46, p.1.

comportamento del partito, che a suo modo di vedere aveva impostato correttamente tutta l’operazione, mentre attribuiva i risultati negativi alla debolezza e all’indecisione dell’apparato popolare. D’altra parte, l’operazione aveva anche dimostrato la forte disciplina e la lealtà delle organizzazioni di partito, pronte ad eseguire tutto ciò che veniva loro ordinato, al contrario dell’apparato distrettuale, i CPL, che lavoravano d’istinto e che non conoscevano le ordinanze e le leggi, generando una situazione di arbitrio e di sovrana illegalità. In quanto al dirigente regionale incaricato di condurre l’operazione (il Lazarić), lo riteneva essere molto forte dal punto di vista di classe ma debole politicamente451.

Per correre ai ripari, il Burò del comitato decise che tutti i beni sequestrati dovessero essere restituiti ai proprietari, con l’incarico di verifica assegnato allo stesso Lazarić e alla Pubblica Accusa regionale, vale a dire a Ivan Motika; di rilasciare dal carcere le persone arrestate; di verificare se vi fossero stati casi di furti da parte delle autorità e di adottare delle misure per riaprire gli esercizi fatti chiudere. A Lussino, per dirigere tutta l’operazione fu inviato il dirigente regionale Tomazo Dobrić, mentre il funzionario della sezione amministrativa distrettuale, Viktor Balić, ritenuto l’unico diretto responsabile degli abusi verificatisi a Lussino, venne rimosso dall’incarico; il Lazarić fu invece sostituito e criticato pubblicamente all’Assemblea popolare regionale del 25 novembre ’46, dove la questione delle misure contro i fascisti e speculatori fu messa soltanto tra le “Varie” e dove toccò al rappresentante degli italiani, Giusto Massarotto, spiegare la necessità di tale misura, accennando soltanto agli “errori” verificatisi a Lussino452.

Il secondo provvedimento annunciato alla riunione del Burò del 30 ottobre fu quello che regolava la liquidazione definitiva del debito contadino e dei rapporti colonici453. L’abolizione del colonato454 e delle aste forzate e più tardi la riforma agraria, vennero presentate dal partito come dei provvedimenti di “giustizia sociale” per le condizioni sofferte dai contadini slavi durante il periodo fascista. Durante la guerra il PCJ aveva fatto proprio un programma di liberazione nazionale, ma aveva parlato anche di riforma agraria e di abolizione del colonato e delle aste forzate, e con tale prospettiva era riuscito a mobilitare la stragrande maggioranza della popolazione croata e slovena dell’Istria. Mentre nel resto dei territori croati era già stata attuata la riforma agraria, l’Istria e la Venezia Giulia furono interessate da un altro intervento legislativo volto a modificare la situazione economica dei contadini. Se la proprietà della terra rappresentava soltanto uno dei versanti basilari della questione agraria, un altro era costituito dall’indebitamento contadino che aveva stretto in una morsa il mondo rurale istriano nel ventennio interbellico. Già nell’ottobre del 1945, con una specifica legge, il nuovo governo “popolare” aveva

      

451 Ibidem.

452 Ibidem e I lavori della sessione straordinaria dell’Assemblea popolare regionale per l’Istria, cit.

453 Vedi La terra a coloro che la lavorano, in “La Voce del Popolo”, 27 novembre ‘46, cit., p.1.

454 Il colonato era un contratto agrario che risaliva all’Impero romano e che frenava la modernizzazione dell’agricoltura.

cancellato radicalmente la massa di indebitamento contadino a livello jugoslavo455. Ma siccome nel territorio istriano la diversità etnica si sovrapponeva a quella sociale - dove lungo la costa occidentale il latifondista o il contadino ricco era italiano, mentre il bracciante, o il contadino senza terra era slavo - anche la questione della ripartizione della terra inevitabilmente si tinse di una carica nazionale.

Dušan Diminić, il dirigente istriano che maggiormente si era adoperato per la soluzione della questione del colonato “storico e fascista”, infatti, rimarcò (alla riunione dell’organismo regionale) l’importanza politica che, accanto a quelle di natura prettamente sociale, stava alla base del provvedimento: la prova della capacità del potere popolare, rivoluzionario, di rispondere a un’esigenza sentita dai contadini slavi, in quanto colonna portante del consenso nei confronti del MPL durante la guerra e del PC nel primissimo dopoguerra, che aveva portato ai successi del novembre 1945. La misura, che rispondeva anche a una logica di livellamento sociale, fu presentata come “l’abolizione dello sfruttamento dei rapporti agrari feudali-capitalistici, risultato della lotta secolare contro i padroni sfruttatori”456. Soltanto dopo che il comitato regionale di partito discusse e ne approvò tutti i dettagli, il decreto fu portato all’Assemblea regionale del CPL il 25 novembre ‘46. Esso prevedeva l’abolizione di tutti i rapporti di colonia, mezzadria, d’appalto e simili

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