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Dall’Islam radicale al ğihād armato globale

3. Le tre “I” di Terrorismo: Identità, Ideologia, Informazione

3.1 Origini e sviluppi dell’ideologia jihadista

3.1.2 Dall’Islam radicale al ğihād armato globale

Sayyid Quṭb fu colui che, tra i menzionati, giunse alle posizioni più estreme in seno al

radicalismo islamico, il quale, grazie a lui, assunse una forte connotazione politica di tipo insurrezionale. Dopo diversi anni di studio negli Stati Uniti d’America, rientrato in Egitto, aderì alla Fratellanza Musulmana e avviò una profonda riflessione sull’Islam, i valori religiosi e la manipolazione politica della religione proprio alla luce della sua esperienza in occidente. La sua riflessione teorica irruppe non senza conseguenza sulla scena politica egiziana.

Nel suo scritto tardo più importante Ma’ālim fī al-ṭarīq- Pietre Miliari, 1964, analizza le società islamiche e ne denunciava la corruzione e l’ipocrisia, accusando i maggiori leader e governi islamici di apostasia131. Scriveva a proposito del ğihād :“Il jihadismo islamico è una realtà a sé e non ha alcuna relazione con la guerra moderna: né per le motivazioni né per la conduzione. Le motivazioni affondano le radici nell’essenza stessa dell’Islam, nel suo vero ruolo nel mondo e negli altissimi principi che Dio gli ha dettato.(…) Perciò tale sforzo (ğihād) non costituisce una fase temporanea ma una

organizzare un complotto per rovesciare il regime secolare egiziano, grazie ad una rete segreta che era riuscito a costruire e a mantenere dal carcere. Tuttavia, fu tradito, incarcerato e condannato a morte nel 1966.

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154 lotta eterna (…) per la liberazione dell’uomo che continuerà finché la religione non sarà purificata”132

Già nei primi anni ‘50, egli aveva proclamato il ğihād contro i britannici proprio mentre Gamāl ‘Abd al-Nāṣir stava trattando con loro per la questione del canale di Suez; nel 1954 fu incriminato e incarcerato per aver organizzato il tentato assassinio del presidente egiziano. Le critiche da lui mosse al presidente egiziano e la

pianificazione di un colpo di stato nel 1964 gli costarono la vita: nel 1966 venne perciò condannato a morte diventando uno dei più venerati martiri dell’Islam radicale. Alla pronuncia della sentenza rispose: “Ogni lode sia su Allah, ho finalmente ricevuto (in dono) questo martirio dopo quindici anni che perseguo il ğihād”133.

Non esiste un leader islamista radicale che non consideri Quṭb un eroe, un santo martire dalle cui opere e parole si debba prendere esempio.

La Guerra dei sei giorni e l’infitāh (apertura) dell’Egitto nei confronti del capitalismo e delle politiche economiche occidentali diedero un forte impulso all’insurrezione radicale. In questo periodo, crebbe il profondo risentimento nei confronti del governo egiziano e, in generale, delle società musulmane: secondo i radicali infatti

l’allontanamento di questi regimi dall’Islam ne aveva causato l’indebolimento e la catastrofe. “Sotto questi regimi, molti musulmani radicali avevano trascorso molti anni

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S. Quṭb, (a cura di A.B. al-Mehri) Milestones, Special Edition, Maktabah booksellers and publishers, Birmingham,

2006. P.75.

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155 in carcere o in clandestinità”134 perciò poterono affrancarsi dalla responsabilità delle sconfitte contro Israele e acquisire un certo sostegno da parte di molti arabi scontenti. Dopo le trattative di pace di Camp David e l’assassinio di Anwār Sadāt, una nuova ondata di repressione e di indagini portò alla luce nuovi documenti relativi a gruppi radicali attivi e nuovi sviluppi dell’ideologia islamica radicale. ‘Abd al-Salām al-Farağ

pubblicò in quegli anni un’opera “Al-Farīḍa al-ġāi’ba” (Il dovere trascurato, un diretto riferimento al ğihād), in cui il ğihād viene inteso quale “imperativo di carattere globale finalizzato alla conversione all’Islam del mondo intero”135. Secondo questo autore l’obiettivo principale della comunità musulmana consisteva nell’instaurazione di uno Stato Islamico e qualsiasi pretesto era da ritenersi inammissibile. Perciò la priorità assoluta risiedeva nella sconfitta dei governi musulmani corrotti, equiparando così Israele agli stati musulmani. A sostegno di questo pensiero, al-Farağ si rifece alla riflessione di Ibn Taymiyya riguardo ai mongoli: i governi musulmani lo sono soltanto di nome ma tuttavia sono appoggiati da una comunità che comprende sia veri

musulmani sia apostati. Ciò ripropose il problema della distinzione tra fedeli e apostati, in caso di ğihād verso questi ultimi si correrebbe il rischio di nuocere alla “vera” comunità islamica. Il dibattito sul metodo di distinzione è sempre aperto, tuttavia a partire da al-Farağ si può evidenziare laclimax nell’esclusività della comunità dei “veri” musulmani: essi sono esclusivamente coloro che combattono il

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D. Cook, Op. cit. p. 159.

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ğihād ovunque si trovino, sacrificano le proprie vite terrene per l’instaurazione del

puro e vero Islam attraverso uno Stato fondato sul diritto sciaraitico. Al-Farağ come

Ibn Taymiyya, analizzò la liceità dei metodi e le modalità di combattimento in

conformità con i precetti islamici. Egli ammise quasi ogni strategia se finalizzata alla sconfitta del nemico: l’uccisione di innocenti e di musulmani (involontariamente o se usati come scudo dal nemico) non viola alcuna norma islamica. Non ammise invece la possibilità di ritirata di fronte a situazioni disperate con scarse prospettive di

sopravvivenza, affermazione che gettò le fondamenta della legittimazione degli attacchi suicidi.

L’interpretazione oltranzista del ğihād armato come mezzo salvifico per la redenzione dell’intera comunità musulmana apre la strada alla dottrina del ğihād globale

dell’abuso indiscriminato della pratica del tafkīr proprie dell’ideologia alla base di AQ, poi portata alle estreme conseguenze dalle fatāwa e dalle azioni

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