10. La mancata attuazione della Decisione quadro 2003/568/GAI, a
11.4 Il trattamento sanzionatorio
11.5.1 La dazione o promessa di denaro o altra utilità
In questa prima frazione dell’iter criminis era individuabile il riferimento allo schema della corruzione propria antecedente: la dazione o promessa dei vantaggi doveva precedere il comportamento dell’intraneo-corrotto, ed essere a questo finalizzata. Non rilevavano, pertanto, né la dazione o promessa di utilità successive al comportamento infedele (c.d. “corruzione propria susseguente”), né la dazione o promessa di utilità, che, seppur precedente, fosse correlata ad un atto conforme ai doveri del soggetto qualificato (c.d. “corruzione impropria”). Sotto questo profilo, l’assetto interno rispecchiava le linee guida sovranazionali; sennonché la norma interna, continuava a dare rilievo alle sole ipotesi di “dazione” o “promessa” del beneficio, tacendo sulle condotte di “offerta” e “sollecitazione” del vantaggio, non seguite dal perfezionamento del patto corruttivo. Occorre sottolineare come, quest’ultima lacuna fosse stata oggetto di censura da parte del rapporto del GRECO334.
Quanto all’oggetto della dazione o della promessa, la fattispecie di nuovo conio aggiungeva al sostantivo “utilità”, già presente nel testo originario, il preliminare riferimento al “denaro”. Si trattava di una novità di poco conto: nessuno aveva mai dubitato dell’inclusione del denaro nella nozione di utilità, tenuto, anche, conto del fatto che, sicuramente, il “denaro” costituisce una specie rispetto al genere “utilità”335. L’esplicito riferimento al denaro sembrava più che altro finalizzato all’omogeneizzazione del linguaggio normativo con quello utilizzato negli artt. 318 e 319 C.p.336. A seguito dell’espressa menzione del denaro, poteva sorgere il dubbio che essa fosse idonea a qualificare verso un carattere necessariamente patrimoniale il vantaggio elargito o promesso. In realtà, nella cornice della fattispecie ciò che rilevava era la
334 V.NAPOLEONI, Il “nuovo” delitto di corruzione tra privati, in Legislazione Penale, fasc. 3, 2013, pag. 681
335 S.SEMINARA, Il reato di corruzione tra privati, in Le Società, fasc. 1, 2013, pag. 64
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“forza motivante” della prestazione rispetto all’infedeltà del soggetto qualificato. Evidentemente, tale forza poteva essere esplicata anche attraverso vantaggi privi di immediato significato economico: si pensi, ad esempio, all’attribuzione di una posizione di prestigio, al conferimento di un’onorificenza, a favori di natura sessuale337.
Un’altra modifica, per la verità poco più significativa della precedente, riguardava la puntualizzazione che l’utilità elargita o promessa potesse andare a beneficio, anche, di “altri”, ossia di soggetti diversi dal “corrotto”. Tale puntualizzazione si era resa necessaria a seguito di uno specifico rilievo da parte dei verificatori internazionali. Nel vigore della precedente fattispecie, infatti, si riteneva che beneficiario della prestazione potesse essere, anche, un terzo, ma solo ove esso risultasse collegato, in qualche modo, al soggetto qualificato: si pensi ad un rapporto di parentela o di affari. Si richiedeva, pertanto, che il “corrotto” ne ricavasse, comunque, un vantaggio. Quest’ultima condizione limitativa doveva considerarsi rimossa, come conseguenza della novella legislativa338.
La norma continuava a non qualificare come “indebito” il vantaggio: tale carattere doveva, però, considerarsi in re ipsa, dal momento che l’utilità o il denaro dovevano essere corrisposti o promessi all’intraneus per una violazione dei suoi doveri.
11.5.2 Il compimento o l’omissione di un atto in violazione degli obblighi d’ufficio o degli obblighi di fedeltà
Al pari della previgente fattispecie, anche quella di nuovo conio richiedeva che al pactum sceleris seguisse l’effettivo compimento od omissione di un atto da parte dell’intraneo-corrotto. Un elemento di novità era rappresentato dal fatto che l’azione od omissione da parte di quest’ultimo dovesse avvenire, alternativamente, in violazione degli
337 V.NAPOLEONI, Il “nuovo” delitto di corruzione tra privati, in Legislazione Penale, fasc. 3, 2013, pag. 682
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“obblighi d’ufficio”, ovvero degli “obblighi di fedeltà”. Ci siamo già occupati degli “obblighi d’ufficio”: per evitare di ripetere quanto già detto si rimanda alla precedente trattazione339. Concentriamo, viceversa, l’attenzione sul vero e proprio elemento di novità: gli “obblighi di
fedeltà”.
Non risultava facile comprendere la ratio dell’aggiunta degli “obblighi di fedeltà”: essa non era richiesta dalle norme sovranazionali, né era mai stata sollecitata in dottrina. Una possibile giustificazione all’ampliato riferimento, anche, ai più generici “doveri di fedeltà” poteva essere individuata nella parallela estensione dell’incriminazione al fatto commesso da persone “sottoposte”340. In assenza, però, di ogni statuizione limitativa in tal senso, la previsione si presentava come riferibile anche agli “apicali”341.
La nuova formula sembrava destinata a dilatare il perimetro applicativo della fattispecie. Lo scopo del legislatore era quello di attribuire rilevanza non soltanto alla violazione di specifici doveri - ricavabili dalle norme giuridiche o contrattuali che disciplinano la posizione lavorativa del soggetto attivo - ma anche alla violazione di un più generico dovere di lealtà e correttezza nell’esercizio dell’ufficio privato342.
La locuzione “obblighi di fedeltà” appariva, senza dubbio, di incerta determinazione nei suoi effettivi contenuti e si preannunciava foriera di non pochi problemi in sede applicativa343. Nella necessità di ricercare una nozione giuridica di “obblighi di fedeltà”, un utile parametro di riferimento è offerto dall’art. 2105 C.c.344, rubricato, per l’appunto,
339 Supra, capitolo IV, paragrafo, 6.3.2
340 A. MELCHIONDA, Art. 2635 C.c. («Corruzione fra privati»), in Giur.it, fasc. 12, 2012
341 V.NAPOLEONI, Il “nuovo” delitto di corruzione tra privati, in Legislazione Penale, fasc. 3, 2013, pag. 684
342 V.NAPOLEONI, Ibidem
343 G.ANDREAZZA, L.PISTORELLI, Op. cit., pag. 17
344 S.SEMINARA, Il reato di corruzione tra privati, in Le Società, fasc. 1, 2013, pag. 64
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“Obbligo di fedeltà”345. In base a quest’ultima norma, si impongono al lavoratore due puntuali doveri:
1) non trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore;
2) non divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa o farne un uso in modo tale da poter recare pregiudizio ad essa.
Secondo la dottrina giuslavoristica346, non sarebbe, ragionevolmente, enucleabile un obbligo che imponga specificamente la fedeltà del lavoratore (espressione, peraltro, ricca di significati non sempre omogenei), ulteriore rispetto agli specifici divieti prefigurati nel corpo nella norma. La “fedeltà” non avrebbe una sua autonomia concettuale: essa costituirebbe, al contrario, una sorta di variante degli obblighi strumentali di protezione (come la buona fede e la correttezza). Parimenti, essa non andrebbe confusa, come talvolta fa la giurisprudenza, con il carattere fiduciario del rapporto o con le inferenze della personalità della prestazione.
Il concetto di “obblighi di fedeltà”, risultava, dunque, viziato da un
deficit di determinatezza, in aperto contrasto con quelli che sono i
principi del diritto penale. Da qui, la possibilità di incorrere in due rischi. Il primo, si sostanziava nella possibilità che la nuova locuzione venisse trasformata sul piano interpretativo: facendo confluire gli “obblighi di
fedeltà” all’interno degli “obblighi d’ufficio”. Era questa, peraltro, la
soluzione prospettata da una parte della dottrina, per la quale sarebbe stato “auspicabile che, nella delimitazione dell’ambito operativo della fattispecie, gli obblighi di fedeltà siano fatti confluire all’interno degli
345 Art. 2105 C.c. “Obbligo di fedeltà” - “Il prestatore di lavoro non deve trattenere affari per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad esso pregiudizio.”
346 O.MAZZOTTA, Diritto del lavoro, quinta edizione, Giuffrè Editore, Milano, 2013, pag. 526
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obblighi d’ufficio”347. Il secondo rischio, viceversa, si sostanziava nella possibilità che la nuova previsione finisse per annullare la valenza selettiva del riferimento preliminare alla violazione degli “obblighi
d’ufficio”. In tale prospettiva, tenere, dolosamente e verso corrispettivo,
un comportamento idoneo a causare un nocumento alla società per la quale si è chiamati ad operare, poteva essere ritenuto, sempre e comunque, una manifestazione di “infedeltà”348.
11.5.3 Il nocumento alla società
Il terzo segmento del fatto tipico rimaneva del tutto immutato. La fattispecie di “Corruzione tra privati”, infatti, continuava a non accontentarsi della prezzolata condotta del “corrotto”: essa richiedeva, altresì, il verificarsi di un “nocumento alla società”. Intorno alla questione inerente al significato da attribuire al termine “nocumento”, già nel vigore della precedente fattispecie, si era sviluppato un forte dibattito dottrinale, del quale si è già dato conto e alla cui trattazione, pertanto, si rimanda349.
Occorre, però, sottolineare come la scelta di riproporre, anche nella nuova formulazione, il requisito del “nocumento alla società”, rappresentasse uno dei profili di più marcato scostamento della fattispecie incriminatrice interna rispetto alle linee guida sovranazionali.
11.6 L’elemento soggettivo
Nessuna modifica si registrava in relazione all’elemento soggettivo. Anche per la fattispecie di “Corruzione tra privati”, quest’ultimo era individuabile nel dolo generico350. Il dolo doveva, ovviamente, riflettersi su tutti gli elementi costitutivi della fattispecie. Era, pertanto, necessario
347 S.SEMINARA, Il reato di corruzione tra privati, in Le Società, fasc. 1, 2013, cit. pag. 64
348 V.NAPOLEONI, Il “nuovo” delitto di corruzione tra privati, in Legislazione Penale, fasc. 3, 2013, pag. 684
349 Supra, capitolo IV, paragrafo 6.3.3
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che i concorrenti nel reato avessero inteso la dazione o la promessa in relazione al successivo compimento (od omissione) di un atto, nella consapevolezza della sua contrarietà agli obblighi d’ufficio, o di fedeltà, e avessero la volontà - almeno a titolo di dolo eventuale - di cagionare un nocumento alla società.
In coerenza con l’elaborazione teorica inerente i reati di corruzione
ex. artt. 318 ss. C.p., era da ritenere che l’errore di una delle parti non
fosse idoneo ad escludere il dolo dell’altra351.
11.7 Consumazione del reato e tentativo
Trattandosi di un “reato di evento”, il delitto si consumava nel momento della verificazione di un “nocumento alla società”.
Dal momento che il legislatore del 2012 aveva deciso di riproporre una fattispecie descritta come reato bilaterale a concorso necessario - in luogo di un’incriminazione autonoma della corruzione attiva e passiva, secondo quanto previsto dallo schema internazionale - ciò aveva comportato, in ordine alla configurabilità del tentativo, la riemersione dei limiti già propri della fattispecie originaria. Era, quindi, da escludere la punibilità, a titolo di tentativo, della semplice offerta di utilità per il compimento di un atto antidoveroso non accettata dall’intraneo; così come, specularmente, la sollecitazione di tale utilità da parte del soggetto qualificato, che non venisse accolta dall’estraneo. Pertanto, continuava a non essere punibile il “tentativo unilaterale”352.
Nei “reati bilaterali”, come quello in esame, ai fini della configurabilità del tentativo è, infatti, necessario il compimento di atti idonei e univoci da parte di ambedue i soggetti del rapporto. Nell’articolata struttura della fattispecie di “Corruzione tra privati”, già la stipula di un patto corruttivo, ovviamente avente i requisiti richiesti
351 S.SEMINARA, Il reato di corruzione tra privati, in Le Società, fasc. 1, 2013, pag. 65
352 V.NAPOLEONI, Il “nuovo” delitto di corruzione tra privati, in Legislazione Penale, fasc. 3, 2013, pag. 688
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dall’art. 2635 C.c., poteva rappresentare un atto idoneo e univocamente diretto alla consumazione del delitto: in quanto tale punibile in forza del combinato disposto degli artt. 56 C.p. e 2635 C.c..
Sulla base di questa constatazione, in dottrina353 si era sottolineato come non fosse del tutto vero che, nel nostro ordinamento, non venisse incriminata la “corruzione privata” in quanto tale. Semmai, era vero che quest’ultima non fosse direttamente incriminata, in una fattispecie che la prendesse appositamente in oggetto; ciò nonostante, essa finiva per essere incriminata, in via indiretta e incidentale, attraverso la generale applicabilità dell’art. 56 C.p..