10. La mancata attuazione della Decisione quadro 2003/568/GAI, a
11.1 La nuova rubrica: “Corruzione tra privati”
Una prima modifica, apportata all’art. 2635 C.c., riguardava il
nomen iuris: la fattispecie non era più rubricata “Infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità”, bensì “Corruzione tra privati”. Il
legislatore del 2012 aveva, quindi, deciso di abbandonare l’originaria denominazione - idonea ad evocare lo stretto apparentamento della fattispecie al delitto di cui all’art. 2634 C.c. - preferendogli, senza mezzi termini, quella di “Corruzione tra privati”311.
308 V.NAPOLEONI, Il “nuovo” delitto di corruzione tra privati, in Legislazione Penale, fasc. 3, 2013, pag. 675
309 E.DOLCINI, La legge 190/2012: contesto, linee di intervento, spunti critici, in
www.penalecontemporaneo.it, editoriale 23 settembre 2013, cit. pag. 18 310 G.ANDREAZZA, L.PISTORELLI, Op. cit., pag. 16
311 Si trattava di un parziale ritorno alla origini: il testo originario del c.d. “Progetto Mirone” parlava di “Corruzione privata”
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Il mutamento della rubrica sarebbe stato da salutare con favore se, ad esso, fosse seguito un effettivo mutamento della sostanza. La qualificazione del fatto in termini di “corruzione” - anziché di “infedeltà” - farebbe, infatti, pensare ad un arretramento della linea di consumazione dell’illecito verso il semplice patto corruttivo. Allo stesso modo, la specificazione “tra privati” sembrerebbe preludere ad una generalizzazione della sfera applicativa della fattispecie nell’ambito dei rapporti interprivatistici312. Purtroppo, con la riforma del 2012, nulla di tutto ciò è stato realizzato.
Di fatto, il nuovo art. 2635 C.c. riproduceva la struttura fondamentale della fattispecie di vecchio conio: eravamo ancora ben lontani da una incriminazione diretta della “corruzione privata” in quanto tale313. I fatti incriminati dal nuovo reato di “Corruzione tra
privati” continuavano a ruotare su una doppia causalità: a seguito del
patto corruttivo, l’intraneo-corrotto doveva porre in essere, od omettere, un atto contrario ai propri doveri d’ufficio o di fedeltà; tale atto, a sua volta, doveva essere foriero di un nocumento per la società. Si continuava, così, a punire non tanto la corruzione in sé, quanto, piuttosto, il comportamento infedele tenuto nei confronti della persona giuridica. Proprio in quest’ultimo comportamento si materializzava il conflitto di interessi, di cui la corruzione era mero sintomo. In conclusione, quindi, la corruzione finiva per rappresentare una sorta di requisito “ombra” della fattispecie di nuovo conio, esattamente come lo era per la fattispecie previgente314.
La nuova denominazione sembrava, pertanto, risolversi in un mero ossequio “di bandiera” alla terminologia europea315. In tal modo si andava, però, incontro ad un rischio che il legislatore non avrebbe
312 V.NAPOLEONI, Il “nuovo” delitto di corruzione tra privati, in Legislazione Penale, fasc. 3, 2013, pag. 676
313 A.SPENA, La corruzione privata e la riforma dell’art. 2635 C.c., in Riv. it. dir. e proc. pen., fasc. 2, 2013, pag. 692
314 G.ANDREAZZA, L.PISTORELLI, Op. cit., pag. 19
315 V.NAPOLEONI, Il “nuovo” delitto di corruzione tra privati, in Legislazione Penale, fasc. 3, 2013, pag. 676
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dovuto sottovalutare: quello di incorrere in un’ipotesi di “truffa delle etichette”. Tale rischio sembrava, purtroppo, essersi realizzato a seguito della riforma del 2012: in relazione al nuovo nomen iuris, diversi autori316 hanno, infatti, parlato di vera e propria “truffa delle etichette”.
11.2 Il bene giuridico tutelato
Anche a seguito della riscrittura dell’art. 2635 C.c., la dottrina riteneva che il bene giuridico tutelato, dalla norma in questione, continuasse a dover essere individuato nel “patrimonio sociale”. L’estraneità dell’atto ai doveri sociali, oggetto di scambio, continuava a non rilevare per sé, bensì in quanto idonea a comportare un nocumento per il patrimonio della società. A ciò si doveva aggiungere la constatazione in base alla quale, la società continuava a conservare, nella maggior parte dei casi, il potere di decidere se i comportamenti corruttivi dovessero o meno essere puniti. Era pur vero che, attraverso la novella legislativa, si era provveduto ad introdurre l’eccezione della perseguibilità ex officio, qualora dal fatto derivasse una “distorsione della concorrenza”: nell’ipotesi in cui il reato diveniva procedibile d’ufficio, l’oggetto giuridico, certamente, si colorava di venature pubblicistiche. Tutto ciò non era, però, idoneo a far abbandonare alla fattispecie la sua vocazione di protezione, in primis, dell’interesse societario: di fronte a quest’ultimo, la tutela della libera concorrenza appariva sempre recessiva.
In definitiva, eravamo ancora di fronte ad una vera e propria “privatizzazione” della tutela. Quest’ultima, ancora una volta, appariva difficilmente conciliabile con gli obiettivi degli strumenti sovranazionali: la repressione tout court della “corruzione privata”, in quanto minaccia per la stabilità e la sicurezza sociali317.
316 Cfr. P.SILVESTRE, Op. cit., pag. 2316; A.SPENA, La corruzione privata e la riforma dell’art. 2635 C.c., in Riv. it. dir. e proc. pen., fasc. 2, 2013, pag. 693 317 G.ANDREAZZA, L.PISTORELLI, Op. cit., pag. 19-20
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11.3 I soggetti attivi del reatoAnche dopo la novella legislativa, la fattispecie di reato delineata dall’art. 2635 C.c. continuava a costituire un “reato a concorso necessario”: per la sua realizzazione era necessaria la cooperazione tra un “corruttore” (colui che dà o promette un’utilità) ed un “corrotto” (colui che, dopo aver accettato l’utilità, pone in essere il comportamento infedele contemplato dalla norma)318.
Un rilevante elemento di novità riguardava, però, proprio i potenziali destinatari del precetto penale: con la Legge n. 190/2012 si era, infatti, assistito ad un ampliamento della cerchia dei soggetti attivi del reato.
Sul versante dei “corrotti”, il primo comma dell’art. 2635 C.c. continuava ad individuare, quali possibili soggetti attivi: gli “amministratori”, i “direttori generali”, i “dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari”, i “sindaci” e i “liquidatori”. Si trattava delle figure “apicali” che erano già previste dalla fattispecie, nella sua pregressa formulazione.
Il novum risiedeva nel secondo comma: quest’ultimo, infatti, estendeva l’incriminazione (seppur con un trattamento sanzionatorio più lieve) ai sottoposti “alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti
indicati al primo comma”. La formula utilizzata dal legislatore, per
estendere la punibilità del fatto ai soggetti “subordinati”, risentiva, sicuramente, dell’influenza esercitata dal D.Lgs. 231/2001. L’art 5 lett. b) del D.Lgs. 231/2001 individua, infatti, come soggetti idonei a poter realizzare - nell’interesse o a vantaggio della persona giuridica - i reati- presupposto, da cui potrà discendere la responsabilità “amministrativa” dell’ente: le “persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di un dei
soggetti di cui alla lettera a)319”. Ne consegue che, il nostro legislatore,
318 V.NAPOLEONI, Il “nuovo” delitto di corruzione tra privati, in Legislazione Penale, fasc. 3, 2013, pag. 676
319 Alla lettera a) sono individuati i seguenti soggetti in posizione apicale: chi riveste funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua
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anziché ricalcare, con gli opportuni adattamenti, al lessico giuridico nostrano, le formule degli atti sovranazionali, aveva preferito mutuare una locuzione della disciplina sulla responsabilità da reato degli enti e, dunque, pensata per altri fini: individuare i criteri di imputazione della responsabilità “amministrativa” degli enti320. La locuzione utilizzata dal legislatore appariva tutt’altro che priva di margini di ambiguità, soprattutto se, come accadeva nel secondo comma dell’art. 2635 C.c., veniva riferita ad un contesto diverso da quello nel quale essa era nata. Nell’ambito del D.Lgs. 231/2001, l’individuazione della categoria dei “subordinati”, trova, infatti, il suo limite nell’esigenza che il reato, commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente, sia comunque riconducibile ad una situazione di rischio preventivamente individuabile e concretamente prevenibile. Al di fuori di tale conteso, la nozione finisce per smarrire ogni contenuto321. Diveniva, così, difficile individuare chi fosse idoneo a rientrare nella categoria dei possibili soggetti attivi del reato ex art. 2635, comma 2 C.c..
La locuzione, prevista al capoverso dell’art. 2635 C.c., era, sicuramente, idonea ad abbracciare l’intera platea dei soggetti formalmente inseriti nell’organizzazione della società in veste di lavoratori subordinati, qualunque ne fosse il grado e le mansioni322. Secondo la dottrina e la giurisprudenza giuslavoristiche, infatti, il requisito della “direzione e vigilanza” corrisponde biunivocamente al carattere della subordinazione. Esse affermano, altresì, che il requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato - ai fini della sua distinzione dal rapporto di lavoro autonomo - è il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore
unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale; le persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso.
320 V.NAPOLEONI, Il “nuovo” delitto di corruzione tra privati, in Legislazione Penale, fasc. 3, 2013, pag. 677-678
321 S.SEMINARA, Il reato di corruzione tra privati, in Le Società, fasc. 1, 2013, pag. 63
322 V.NAPOLEONI, Il “nuovo” delitto di corruzione tra privati, in Legislazione Penale, fasc. 3, 2013, pag. 678
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di lavoro: da tale vincolo discende l’emanazione di ordini specifici, nonché l’esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative323.
Il fatto stesso che la norma non si limitasse ad evocare il rapporto di lavoro subordinato, appariva indicativo della volontà del legislatore di includere tra i soggetti attivi, della fattispecie di cui all’art. 2635, comma 2 C.c., anche persone esterne all’ente, alle quali fossero affidati incarichi - relativi, anche, a singoli affari o progetti - destinati ad essere svolti, per legge o per contratto, sotto la direzione e il controllo dei vertici aziendali324.
Pareva, viceversa, da escludere la possibilità di inglobare nella compagine dei “sottoposti” i professionisti esterni alla società: si pensi, ad esempio, agli agenti, ai concessionari della vendita o ai franchisees. In relazione a tali categorie di soggetti, la dottrina non riteneva, infatti, sussistere un grado di “sottoposizione” sufficiente ad integrare la posizione subordinata richiesta dalla norma325.
In conclusione, il requisito della “direzione e vigilanza”, da un lato, era idoneo a comportare un’estrema dilatazione della norma, e, dall’altro lato, appariva incompatibile con quanto prescritto dalle normative sovranazionali e internazionali. Sotto il primo profilo, la nozione di “direzione e vigilanza” era idonea a ricomprendere tutti i dipendenti e i collaboratori della società, direttamente o indirettamente sottoposti, in via legale o contrattuale, alla direzione o vigilanza delle persone richiamate nel primo comma: si andava dai diretti collaboratori dei soggetti apicali fino al portiere dello stabile ove ha sede la società. Sotto il secondo profilo, viceversa, la valenza normativa dei concetti di “direzione” e “vigilanza” escludeva la loro riferibilità ai professionisti esterni alla società: tutto ciò segnava un profilo di rilevante distacco
323 A.ROSSI, Corruzione tra privati: qualche considerazione sulla platea degli autori, tra persone fisiche e persone giuridiche, in Riv. trim. dir. pen. econ., fasc. 1-2, 2013, pag. 308
324 V.NAPOLEONI, ibidem
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della normativa italiana dagli atti sovranazionali. Quest’ultimi prevedono, infatti, quali possibili soggetti attivi del reato: “una persona
che a qualsiasi titolo dirige o lavora per un ente privato” (artt. 7 e 8
Convenzione di Strasburgo); “una persona (…) che svolge funzioni
direttive o lavorative di qualsiasi tipo per conto di un’entità del settore privato” (art. 2 Decisione quadro 2003/568/GAI); “qualsiasi persona che diriga un’entità del settore privato o che lavori per tale entità, a qualsiasi titolo” (art. 21 Convenzione di Merida)326.
Passando al versante dei “corruttori”, la fattispecie continuava ad assumere la natura di “reato comune”: non era richiesto che il soggetto che avesse dato o promesso l’utilità all’intraneo-corrotto possedesse una determinata qualifica.
La norma penale incriminatrice non faceva alcun riferimento ai fatti commessi per il tramite di un “intermediario”: questo, nonostante la relazione del GRECO avesse individuato, in tale omissione, un ulteriore profilo di discordanza della previgente fattispecie rispetto ai parametri internazionali. Occorre, però, sottolineare come la punibilità dell’eventuale intermediario potesse, in ogni caso, essere assicurata, dall’ordinamento giuridico italiano, alla luce dell’istituto generale previsto agli artt. 110 ss. C.p.: il concorso di persone nel reato327.