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CAPITOLO 4 – IL METODO

4.2. Il diario di ricerca

4.2.2 Il diario come strumento etnografico

Il diario della ricerca non è stato solo un luogo dove osservare, documentare e riflettere sull’esperienza in atto, ma è stato anche uno strumento di osservazione sul campo. Di norma le osservazioni vengono documentate da note di campo, che contengono tutto ciò che per il ricercatore vale la pena annotare. Riportano la data e precisano alcune informazioni di base, come il luogo dell’osservazione, le caratteristiche del contesto, le interazioni che vi hanno avuto luogo e le attività compiute. Contengono anche i sentimenti di chi osserva e le sue riflessioni sul significato e l’importanza di quanto accade, dato che l’esperienza dell’osservatore è parte cruciale dei dati e, come sostiene Goody, la scrittura ci permette di comunicare non solo con gli altri, ma anche con noi stessi181. Ciò che scriviamo ci permette non solo di registrare osservazioni e

pensieri, ma anche di rileggerli, rivedere il nostro lavoro, riorganizzarlo. A questo proposito, così definisce gli appunti di campo Vanessa Maher: «gli appunti di campo, più di altri tipi di scrittura, sono indirizzati a noi stessi. Sembra che l’autore ne sia anche il destinatario. Dico “sembra” perché, a leggere bene, a parlare negli appunti del campo non è solo l’antropologa, ma molte altre persone»182.

Le note di campo sono uno strumento per il ricercatore, ma non solo: rappresentano una pluralità di voci e questo è ciò che le rende diverse da un diario e che mi ha fatto optare per distinguere, in qualche modo, le scritture in base proprio alle voci che queste contenevano, organizzando le partecipazioni osservanti in note di campo.

Le prime osservazioni avevano l’obiettivo di registrare in maniera più generica, estesa ed eclettica il fenomeno, mentre via via sono andata ad approfondire gli aspetti che mi apparivano più caratterizzanti e specifici di ogni singolo contesto, per avere una descrizione non solo dell’atelier di riuso creativo come strumento replicabile e scalabile, ma anche per cogliere l’essenza di ogni singolo luogo che, in qualche modo,

181 Cfr. GOODY J., La logica della scrittura, Bollati Boringhieri, Torino 2005.

182 MAHER V., Scrivere l’esperienza antropologica: gli appunti di campo, in TAROZZI B. (a cura di), Diari di guerra e di pace, Ombre corte, Verona 2009.

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poteva costituire una ricchezza unica, da mettere in condivisione con gli altri luoghi e in risalto nella narrazione.

Ho scelto di non fare annotazioni durante le partecipazioni osservanti, perché, benché io abbia condiviso il mio essere in un processo di ricerca, volevo che nelle interazioni questo passasse in secondo piano, perché la mia presenza non fosse direttiva e la quotidianità ne venisse influenzata il meno possibile. Già l’intervista, per quanto semi- strutturata e caratterizzata da un basso livello di direttività, avrebbe rischiato di togliere naturalezza alla relazione, con il pericolo di presentare scenari in parte artificiali. Sentivo dunque il bisogno di una fase di rilevazione dati più autentica possibile e libera da indirizzamenti.

La scrittura delle note prevedeva un momento dedicato, molto ravvicinato, nello spazio e nel tempo, alla mia osservazione: avendo scelto di non fare quelle che Clifford chiama «iscrizioni»183 (note mentali o scritte, in mezzo all’attività o discorso altrui), per

me era necessario ritagliarmi un momento per la scrittura che avesse queste caratteristiche. Considerando, poi, il rischio di farmi assorbire dalla pratica e dalla gestione d’impresa, che il mio posizionamento poteva comportare, a posteriori riconosco che questa scelta è stata fondamentale per preservare il più possibile il momento della scrittura come qualcosa che non poteva essere rimandato e che, dunque, è diventato necessario e prioritario rispetto a qualunque altra azione, permettendomi di risolvere «la lotta per creare dati»184, data dalla tensione tra

partecipare e scrivere.

Ho preferito una scrittura autografa, fatta di blocchi e penna, che solo in un secondo momento ho trasferito in formato elettronico. La scelta è stata dettata dal bisogno di utilizzare degli strumenti per me più quotidiani e autentici: quotidiani, perché un blocco e una penna restano, per me, di più facile accesso rispetto a un pc e si prestano maggiormente ad essere utilizzati in qualunque luogo (un bar tranquillo vicino al contesto osservato, il treno, una sala lettura…); autentici, perché la carta impone un esercizio di pensiero maggiore, che rischia di perdersi dietro ad uno schermo, grazie alle infinite funzioni che questo offre (backspace, canc, cntr+x, ecc.), che - temo - rischiano di togliere profondità a un pensiero che deve essere fatto di indugi e di pause.

183 Cfr. CLIFFORD J., Notes on (Field)notes in SANJEK R (ed.), Fieldnotes. The masking of Antropology,

Cornell University Press, Londra 1990, pp. 47-70. 184 Ibidem.

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Sentivo il bisogno, infine, che eventuali ripensamenti, cancellature e incertezze di nominazione rimanessero segnate perché, se non sono state oggetto di indagine in questa ricerca, restano per me materiale prezioso, per riflettere sullo sguardo rivolto a quello che, in questo momento, mi sembra non solo il mio lavoro, ma anche un campo di indagine e di ricerca destinato ad accompagnarmi per molti anni.

Quando, poi, mi sono trovata con sei diversi blocchi, con margini a lato diversi e non tutti predisposti a un sistema di analisi e codifica e sono passata al formato elettronico, la mia scelta di autenticità ha un po’ tentennato, a causa dell’impiego considerevole di tempo per la trascrizione. Tuttavia, la scelta si è poi rivelata preziosa:

«Trascrivere

Mi ritrovo con 6 blocchi di appunti e di note, ordinati, come io so fare, ma non funzionali all’analisi. Oggi, dunque, ho deciso di iniziare a copiarli in formato elettronico. Prima di iniziare la trascrizione mi sentivo sciocca. Mi sono detta che le mie manie della parola ricercata, dell’indugio, del pensiero, del trovare uno strumento agile, che poi mi accompagni, indipendentemente da questa ricerca universitaria, è un’idea romantica, che non si concilia con i tempi del lavoro e dell’accademia. Ma dopo qualche ora di scrittura, benedico questo momento, che mi ha fatto tornare agli albori del mio pensare (e agire) lo strumento dell’atelier di riuso, ritrovando motivazioni che avevo accantonato, nella fatica della quotidianità e permettendomi, quasi, di inserire tutto nella normalità della vita, fatta di pause, di vuoti, di fratture; oltre che di grandi - spero - intuizioni, incontri, frenesia» (dal diario della ricerca del 29 marzo 2015)

Barbara Duden185, analizzando il binomio partire da sé/spazio virtuale, dice che i corpi,

l’esperienza, le emozioni, rischiano di essere soppiantati da tecnologie, tecnicismi e strumenti meccanici, che allontanano la nostra esperienza dall’incontro reale, spingendoci ad adottare linguaggi «depersonificati». Lungi dall’elaborare una soluzione spiccia ad una tematica così complessa e articolata, che meriterebbe ben altra trattazione, per me scrivere il diario e l’averlo fatto guadagnando la lentezza del gesto e concedendomi l’agio della pausa186, dato dalla scrittura autografa, ma anche dalla

trascrizione e, infine, dalla lettura, è stato un modo efficace per dare corpo all’esperienza e restituire il giusto peso alle trasformazioni in atto, negli anni di ricerca- azione.

185 Cfr. DUODEN B., L’epoca della schizo-percezione, in BUTTARELLI A. e GIARDINI F. (a cura di), Il pensiero dell’esperienza, op. cit. pp. 125-140.

186 Faccio qui riferimento ad un intervento all’interno del convegno “Cambio di Civiltà” (Mag Verona,

28-29 gennaio) di Maria Concetta Sala che, a partire dal saggio Corpo a corpo con la madre di Luce Irigaray indica la necessità di un tempo in cui fermarsi e godere dell’agio della pausa, come momento necessario perché «tradurre, trasferire, trasporre i pensieri, per dire la realtà, il cambiamento, senza cadere nella de- realizzazione, cioè nell’alterazione della realtà attraverso l’immaginazione».

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