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CAPITOLO 2 L’ATELIER DI RIUSO CREATIVO COME MEDIAZIONE ALL’AUTO IMPRESA

2.1. D-Hub e Common Ground come contesti sperimentali della ricerca

2.1.1. Focus di lavoro e di ricerca

Nel corso della ricerca è stato necessario condividere con tutto il gruppo di lavoro che ha contribuito alla nascita e alla vita di D-Hub e di Common Ground l’idea di utilizzare come bussola della prassi quotidiana il cambiamento che questi laboratori potevano portare nella comunità e nelle diverse persone che ne facevano parte, concentrandosi su tre aree: quella esistenziale, quella politica e delle politiche e quella economica.

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2.1.1.1 Cambiamento esistenziale

Il focus è stato posto sui percorsi personali e professionali delle artigiane coinvolte, sui processi di acquisizione di consapevolezza delle proprie capacità e sulla possibilità di esprimersi e ri-negoziare significati rispetto alla loro storia, con attenzione ai tre diversi piani che compongono questa metamorfosi:

- narrazione delle istituzioni: qual è la storia che viene portata dalle istituzioni e dagli attori esterni al processo di auto-impresa attuato nell’atelier?

- narrazione della persona: quale storia racconta e si gioca l’artigiana? Quanto si sente riconosciuta? Quanto è stata riconosciuta?

- narrazione costruita insieme: che cosa l’artigiana conferma e sconferma nelle altre relazioni nella narrazione con il gruppo di lavoro e di ricerca? Quale storia restituisce a se stessa in un incontro di riconoscimento (se esso è tale) delle sue capacità imprenditive e personali? Quale storia l’atelier restituisce ai servizi e al mondo esterno?

Rifarsi a queste aree ci ha aiutate a non tradire l’essenza del nostro lavoro, nel momento in cui ci siamo trovate ad avviare nuovi percorsi di formazione con le donne, permettendoci di riconoscerle come persone aventi un’identità multipla, determinata dal sistema in cui sono nati e cresciuti i loro bisogni di aiuto.

Per rendere conto di cosa abbia significato porre il focus sul cambiamento esistenziale come linea guida dei laboratori, riporto gli stralci di diario che raccontano tre diversi momenti della nostra storia con C., una donna che ci è stata presentata dai servizi sociali del suo paese come multiproblematica, con cui sarebbe risultato difficile immaginare un qualunque progetto di vita.

Il primo stralcio rende conto della situazione di partenza e dell’immagine che C. aveva di sé. Trapela, appunto, una estrema difficoltà a percepirsi come capace, non solo a causa delle difficoltà incontrate nella sua vita, ma anche per il rapporto che aveva con i servizi sociali:

Quando ho chiesto a C. se voleva iniziare il percorso di sartoria con noi, mi ha risposto che era uguale, ché tanto lei non era capace di fare niente. Glielo dice sempre il suo compagno. “E lo so che lo pensa anche l’assistente sociale! Credi che non sia così? Ha detto a N. che è da 10 anni che ci segue e che non è normale che una persona stia così tanto nei servizi. Quindi lei pensa che io non sono normale”. Abbiamo la consapevolezza che tutte queste credenze andranno decostruite e che non basterà un percorso di 3 mesi con noi. Ma questo è un lavoro di fede e bisogna proseguire. (dal diario di campo del 12 novembre 2014)

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Il percorso presso il laboratorio è stato mirato a destrutturare le credenze di C., naturalmente accompagnando il nostro lavoro a quello delle comunità educative mamma/bambino che l’hanno accolta. La sua presenza ci ha chiesto di suscitare diversi cambi di sguardo, a partire da noi stesse:

Mi si accende una lampadina e penso che dovrei chiedere di più alle donne che cosa gli piace fare, quale è il loro desiderio, cose le fa stare bene e cosa le farebbe sentire veramente se stesse. Ricordo quando lo avevo chiesto a C.:

“Che cosa avresti voluto fare? Supponiamo che tu avessi una bacchetta magica che ti permettesse di tornare a quando avevi 14 anni: che cosa avresti voluto fare”?

“Avrei voluto studiare, ero anche brava”.

Mi ero immaginata una C. che, studiando di più – che poi, per me, oltre al titolo, significa prendersi il tempo e lo spazio per capire cosa si vuole fare, oltre a essere mamma e moglie – avrebbe avuto più strumenti per essere meno spiazzata davanti alla malattia dei figli e alle violenze psicologiche del compagno.

Mi ero chiesta quanti sogni infranti incontravamo, ogni giorno, incontrando queste donne: quale è il tuo sogno? In che modo questo spazio può permetterti di realizzarlo? Che cosa vorresti fare? Cosa ti piace fare? (dal diario di campo del 21 febbraio 2015)

A dispetto di quanto tutta l’equipe credeva, quando abbiamo conosciuto C., è stato possibile andare oltre i suoi problemi: costruire nel gruppo e nelle sue comunità di riferimento una nuova narrazione più rispondente a se stessa, ai suoi sogni e alle sue inclinazioni, è qualcosa che siamo riuscite a fare insieme e di cui è stato possibile intravvedere il cambio di direzione, rispetto all’inizio del percorso:

Partenze

C. vede che sono in laboratorio ed entra a salutare. Si ferma sull’uscio e sta in silenzio, finché non finisco di compilare una fattura, tanto che non mi accorgo della sua presenza:

“Quando sei entrata”?

“Da 5 minuti. Te ricordito che strilli che ti tiravo nelle orecchie? Adesso nemmeno mi senti”. Rido, ma è proprio vero. E rido anche per questo buffo tentativo di parlare in italiano e non in dialetto, perché “ti non te capissi mia quando che parlo stretto, eh”.

“Adesso sono calma. Vivere con altre donne, lavorare qui, aver avuto educatrici come te e S., che mi hanno voluto bene anche se strillavo… penso che ho capito che bisogna stare calme, che poi le cose vanno bene. E lo devo a voi”.

Non riesco a rispondere. Il rimando che questa donna mi sta dando è più grande di qualunque sogno educativo potessi avere per lei.

“Beh, non dici niente”?

“Sono proprio contenta di sentirti parlare così, ma devo correggerti, lo devi soprattutto a te”. “Ancora con sta storia? Mi dici sempre che devo riconoscere che sono brava, e tu? Non puoi farti dire che sei brava”?

Oggi devo avere qualcosa che non gira, perché C. mi lascia in continuazione senza parole. “Va beh, oggi sei muta. Ok”.

Mi abbraccia e finché mi stringe con una forza che mi ricorda la sua portata, mi dice che ha firmato per un appartamento, che non sarà facile, ma che adesso può andare, perché con noi, vedendo le altre che ce l’hanno fatta, sa che anche lei ce la può fare. Penso un po’ e le chiedo:

“Ti ricordi cosa è la prima cosa che hai detto, entrando qui dentro”?

“Sì, Meri, me lo domandi sempre, ma è vero che non è vero. Non sono non normale e ho anche capito che me lo devo ricordare sempre. In caso, vengo a catarte e me la dici ancora questa domanda, eh”? (dal diario di campo del 6 settembre 2016)

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La trasformazione è stata visibile anche per C.

Sottolineo, oltre a quanto già detto, che le rilevazioni sulla sua storia hanno riguardato un arco di tempo di quasi due anni e, così, anche altre narrazioni di cambiamenti esistenziali difficilmente si inseriscono in un tempo più breve rispetto a questo. È un dato importante, perché ci dice che l’attuale concezione dei sistemi, che ragionano su percorsi (sia lavorativi, sia di inserimento in comunità) di 6-12 mesi, rinnovabili di altri 6, si prestano, da un punto di vista strutturale, come non rassicuranti per un lavoro che necessita di tempi distesi: il cambiamento non può essere imposto, ma deve essere costruito e la costruzione non è un processo matematico. Per questo motivo il cambiamento esistenziale deve necessariamente legarsi a quello politico/di politiche ed economico.

2.1.1.2 Cambiamento politico/di politiche

L’accento posto sul cambiamento esistenziale, ben evidenzia come venga suscitato anche un cambiamento politico e di politiche con questo tipo di atelier, rappresentato dallo spostamento, di pensiero e di ruolo, di tutte le attrici coinvolte (artigiane, educatrici e ricercatrice).

Tale cambiamento viene sollecitato anche attraverso tre azioni principali:

- la scelta della forma di laboratori urbani, in dialogo con la cittadinanza, obiettivo perseguito anche grazie alla decisione di prendere in gestione un giardino pubblico, che desse visibilità alle attività degli atelier51, anche

semplicemente mostrandone la quotidianità e la caratteristica di spazi aperti, dove il primato di tutto spetta alla relazione:

Oggi recuperiamo una data di Atelier Nani.

Gli eventi iniziano a costruirsi da soli, con persone che ci chiedono di collaborare e con una rete di relazioni che inizia a funzionare senza troppi apporti energetici da parte nostra.

Ci contatta Luciano, un falegname, che passa le sue vacanze a girare l’Italia (e anche l’estero) con una bicicletta, su cui ha inserito un circo di marionette – Circo Luce – e ci porta la sua arte. A fine serata mi dice che ha fatto il miglior cappello dell’anno e che è stato molto contento: “dopo le brutte

51 Da gennaio 2016, l’associazione D-Hub gestisce un giardino pubblico, situato nello stesso quartiere

dell’atelier, da cui dista solo 200 metri. L’idea che sta alla base di questo luogo è quella di suscitare pratiche di cittadinanza attiva, per spingere le persone, attraverso l’incontro, a generare nuovi legami di vicinato. Questi legami hanno portato alla soluzione di piccoli problemi domestici (scambio chiavi, cura delle piante, ecc.), a momenti di socialità (tutti i giovedì sera si realizza una cena sociale, di condivisione) e a un’estensione oraria di apertura del parco. Le artigiane di D-Hub, infine, sono state coinvolte in prima persona nella realizzazione delle attività.

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esperienze qui al nord, qui ho trovato proprio il mio miglior cappello, non solo economicamente, ma anche come qualità delle relazioni. Non si direbbe che vi occupate di fragilità, oggi ho visto tanta forza” (dal diario di campo del 31 luglio 2016).

- il dialogo con le istituzioni, non solo attraverso il già citato dispositivo RIA e il co-working Genera-Lab52, co-costruito insieme al Comune di Verona, ma

anche grazie ad una co-progettazione costante, che mira a comunicare punti critici e punti di forza del nostro lavoro:

Oggi siamo alle Pari Opportunità, per aggiornamenti sul Genera-Lab. Sapendo che questi momenti sono anche un potenziale prezioso di portare punti di forza e di debolezza del lavoro con le donne, prima di iniziare chiedo lumi sulla questione di R., la donna che stiamo seguendo nella regolarizzazione dei documenti, perché mai nessuno, fino ad ora, ha realmente preso in carico questo aspetto.

Mi permetto di segnalare questo problema, che abbiamo rilevato nella nostra quotidianità: per rinnovare un permesso di soggiorno per prendere in carico una persona in maniera integrata, ci vogliono competenze che non sempre il Terzo Settore mette a disposizione. La nostra natura resistente ha fatto sì che siamo diventate delle discrete conoscitrici della burocrazia, ma ci troviamo a fare le acrobazie per ritagliarci il tempo della soluzione a questi problemi, perché dobbiamo sottrarlo al tempo della vita, essendo questa attività fatta pro-bono. Chiedo, poi, come si faccia a rendere le assistenti sociali consapevoli del loro potere d’azione e di negoziazione davanti alla questura o a chi per lei, nel non accettare passivamente delle risposte, ma nel provare, appunto, a opporre delle ragionevoli resistenze. Trovo ascolto ed elaboriamo alcune ipotesi, insieme. (dal diario di campo del 16 novembre 2016)

Cerchiamo anche di cambiare la normale attivazione di un servizio: non dall’alto al basso, ma dal basso all’alto, partendo dalle relazioni con cittadini e cittadine, artigiane e professionisti e professioniste, in modo che una donna che vuole accostarsi al mondo degli atelier di riuso creativo, se lo desidera, possa prima conoscerci e individuarci come luogo potenziale dove svolgere un percorso di formazione e solo poi rivolgersi ai servizi. Solitamente invece sono i servizi stessi a decidere in che luogo inviare una persona in situazione di bisogno. Questo ribaltamento sta permettendo di cambiare anche il punto di vista rispetto alle persone coinvolte, che non vengono più a essere semplicemente delle persone in stato di bisogno che fanno domanda di Reddito di Inclusione Attiva, con finalità socializzante, ma potenziali artigiane e sarte, sul cui percorso formativo si è disposti a credere.

D-Hub e Common Ground stanno, dunque, arrivando a variazioni seppur lente nel

rapporto con le istituzioni che, oltre ad affidarsi ai laboratori, si stanno mettendo in

52 Genera-Lab è un co-working per l’integrazione tra donne italiane e donne straniere, co-progettato tra D-Hub, l’Associazione Le Fate Onlus e il Comune di Verona - Ufficio Pari Opportunità, che ha raccolto

la sfida lanciata dalle due associazioni di attivare percorsi generativi rivolti a donne disoccupate e inoccupate. È attivo da luglio 2016 ed è organizzato per permettere la conciliazione dei tempi di vita e lavoro, mettendo in rete donne con competenze artigianali e di cura del corpo.

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una posizione di ascolto attivo, co-progettando e riconoscendoli all’interno di una relazione basata sulla reciprocità.

L’osservazione rispetto al cambiamento politico e di politiche riguarda principalmente: - il modo in cui gli atelier veronesi comunicano con le artigiane, la cittadinanza

e con le istituzioni;

- il modo di intendere la relazione educativa; - il modo di intendere il lavoro e il mercato; - la ricerca di un equilibrio tra questi punti.

1.1.1.3 Cambiamento economico

«Si può stare nel mercato, senza essere del mercato»53 e, cioè «stare nel mercato, per

necessità di lavorare, ma senza farsi misurare totalmente dal denaro, piuttosto con una misura che viene da libere relazioni umane e dai desideri messi in gioco»54? È questa la

sfida degli atelier di riuso creativo, ma è anche la parte più difficile e critica, perché, nel tentativo di ripensare il lavoro per persone che hanno vissuto situazioni di privazione importanti e alla luce dei loro bisogni di auto-realizzazione rischia, paradossalmente, di generare una relazione di appartenenza e non di autonomia dal mercato, soprattutto quando non si ricevono finanziamenti direttamente dal Terzo Settore.

Siamo in sofferenza.

Stare nel mercato, senza farsene risucchiare, è davvero difficile. Tra 4 giorni dovremmo consegnare un grande ordine di borse. Grande per noi, certo, non per il grande mercato e ci sta mettendo in ginocchio. Abbiamo tardato nella consegna, in parte per colpa nostra e per l’imprevedibilità di un lavoro che non conosciamo del tutto, ma in parte anche a causa di un mercato che tende al ribasso e che non riconosce il lavoro di formazione che stiamo facendo con le donne.

Perché dovrebbe farlo? Come si può sensibilizzarlo?

Credevo che tutti gli scambi avuti in fase di definizione della commessa avessero trasmesso il nostro valore, ma realizzo che la possibilità di dialogo è caratterizzata da poca reciprocità.

Che fare? Obbedire o perire?

Resistere… (dal diario di campo del 4 luglio 2016)

53 DE PERINI A., DE VECCHI R., L’oro dell’impresa sociale. Comunicazione e marketing sociale: i luoghi del lavoro femminilizzato, Edizioni Mag, Verona 2004, p. 8.

In generale, questa affermazione rimanda al sapiente lavoro di MAG Società Mutua per l’Autogestione, rete per il Terzo Settore, che promuove un’economia che sa mantenersi autonoma nel mercato.

54 PIUSSI A.M., Approfittare della libertà femminile: dare anima e corpo al lavoro e alla formazione in tempi di post- fordismo in AGOSTI A. (a cura di), La formazione. Interpretazioni pedagogiche e indicazioni operative, Franco

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Gli elementi osservati, come si può comprendere dalla nota di campo, riguardano principalmente ciò che il modello dell’atelier di riuso creativo può portare al mondo dell’economia tout court e come e se può influire sul modo di intendere gli scambi, perché non siano solo monetari, ma anche di relazioni, competenze e percorsi di crescita reciproca.

Il cambiamento, così declinato, sarà una delle categorie che guiderà l’analisi dei materiali di questo lavoro, per dire la pratica dei laboratori di riuso.