CAPITOLO 3 – FILOSOFIA E PRESUPPOSTI METODOLOGICI DELLA RICERCA
3.1. Una pedagogia e un’antropologia che spaccano il cuore
3.1.3 Pedagogia Critica
La pedagogia critica evidenzia la necessità di uno sguardo politicamente orientato e, cioè, teso alla fuoriuscita da schemi già dati, smascherando le forme di oppressione di potere del pensiero, con l’obiettivo che la riflessione apporti dei cambiamenti all’esperienza.
Al centro della pedagogia critica sta il processo di «coscientizzazione»141, che permetta
agli attori del processo educativo di sviluppare una nuova coscienza rispetto ad una situazione di oppressione e disconoscimento e, attraverso questa, prendere consapevolezza della possibilità della liberazione.
La pedagogia critica si oppone a un modello di educazione depositaria, per proporne uno problematizzante, che superi il binomio educatore/educando e quello ricercatore/lavoratore, rifacendosi al pensiero di Rosa Luxemburg, che sosteneva che «non si può esprimere offesa più grossolana, ingiuria peggiore contro i lavoratori che affermando che le discussioni teoriche sono faccenda esclusiva degli “accademici”»142.
139 Pensando a D-Hub, l’atelier di riuso creativo nato anche attraverso la presente ricerca-azione, si
segnala un movimento di pensiero, iniziato a giugno 2016, che ha coinvolto i servizi per persone senza fissa dimora del Comune di Bologna, l’Università di Bologna e alcuni laboratori di ricerca-azione internazionali. Tale movimento di pensiero mette al centro i processi di capacitazione e auto-impresa e ha portato alla realizzazione del convegno “Verso una città inclusiva. Esperienze di empowerment a confronto”, cui si accompagna la creazione di un tavolo tematico di riflessione e un percorso di formazione per operatori e operatrici sociali, mediato proprio da questa ricerca.
Si veda, ancora, a Verona, il già citato convegno Connessioni Decoloniali e il percorso di formazione “Pensiero dell’esperienza e passaggi di trasformazione: analisi multiculturale della presa in carico a rete”; ma anche il lavoro di Mag e il progetto “Cooperiamo per l’Economia del Buon vivere comune”. In Italia si segnala il lavoro di Animazione Sociale e del Gruppo Abele.
140 Cfr. BEHAR R., The vulnerable observer, op. cit. 141 Cfr. FREIRE P., Pedagogia dell’oppresso, op. cit.
142 LUXEMBURG R., Riforma o Rivoluzione?, in AMODIO L. (a cura di), Scritti scelti, Edizioni Avanti!,
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Inoltre, mette al centro una pratica di libertà, critica, che de-mitizza e mostra, piuttosto, la natura in divenire dell’uomo, favorisce il dialogo e stimola con creatività la riflessione e l’azione autentica dell’uomo, che è chiamato a essere, secondo la sua vocazione. Per questi motivi, la pedagogia critica si pone come terzo filone ispiratore per questo lavoro, soprattutto per quanto riguarda la visione che ha del lavoro educativo e dell’uomo. Se già, infatti, gli altri due filoni mettevano in discussione le classiche dicotomie del principio epistemico del separare, caratteristico del paradigma positivista, appare importante mettere in discussione anche il binomio educatore/educando attraverso il pensiero di Freire, che promuove una pedagogia della liberazione.
L’obiettivo della pedagogia dell’oppresso è quello di «dare parola al popolo» e ha le sue radici nell’analisi della “cultura del silenzio”, fatta di mutismo e non di partecipazione, che è la pesante eredità lasciata dal colonialismo143. Per fare questo, ricercatore ed
educatore si pongono come dei mediatori alla “coscientizzazione” rispetto alla situazione che le persone/oppressi vivono, perché possano così perseguire la ricerca della propria affermazione. È un processo, non semplice e a volte doloroso, che si costruisce insieme.
«La pedagogia dell’oppresso, come pedagogia umanistica e liberatrice, avrà due momenti distinti. Il primo in cui gli oppressi scoprono il mondo dell’oppressione e si impegnano nella prassi a trasformarlo; il secondo, in cui, trasformata la realtà, questa pedagogia non è più dell’oppresso e diventa pedagogia degli uomini che sono in permanente processo di liberazione»144.
Possono questi due momenti distinti essere individuati nella quotidianità degli atelier di riuso? Questa ipotesi sarà esame della parte di analisi delle interviste, ma è certo che la scelta di intervistare anche quelli che la letteratura e i servizi normalmente definirebbero utenti sia stata una scelta di coscientizzazione e di pedagogia umanizzante e della liberazione, per portare le persone coinvolte a percepirsi come interlocutori privilegiati, al pari delle creatrici degli atelier. Si vuole, dunque, aprire a una concezione di ricerca critica, liberatoria ed umanizzante, a partire dal presupposto che percorsi di auto-impresa per persone che hanno vissuto una condizione di
143 Cfr. BIMBI L., Dal nordest a Barbiana: proposta per una “cultura alternativa” in FREIRE P., La pedagogia dell’oppresso, op. cit. p. 11.
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svantaggio - spesso inficiante e da cui non hanno percezione di poter uscire - siano percorsi di liberazione dal senso di oppressione che può dare la permanenza nei Servizi Sociali per lunghi periodi145.
Dare parola è un gesto che permette di aprire e liberare le menti e, di conseguenza, liberare chi se ne appropria146. Solo così, dice Lorenzo Milani, è possibile che chiunque
possa parlare «da pari a pari perché ha in comune con loro il dominio della parola»147.
La parola e il dialogo permettono l’emersione di un dato nuovo: «non più educatore dell’educando, non più educando dell’educatore, ma educatore/educando con educando/educatore. In tal modo l’educatore non è solo colui che educa, ma colui che, mentre educa, è educato nel dialogo con l’educando, il quale a sua volta, mentre è educato, anche educa. Ambedue così diventano soggetti del processo in cui crescono insieme e in cui gli “argomenti di autorità” non hanno più valore. In cui, per essere funzionalmente autorità, bisogna essere con la libertà e non contro di essa»148.
Benché le condizioni e il contesto storico e politico in cui hanno operato i due pedagogisti siano ben diversi da quelli che caratterizzano la società e il mondo dell’educazione di oggi, le loro riflessioni sul senso dell’autorità, sull’oppressione e sul dare parola appaiono ancora incredibilmente attuali.
Riporto di seguito alcuni estratti esito del percorso “Pensiero dell’esperienza e passaggi di trasformazione”, del lavoro fatto con il FEI 2013 da Rosanna Cima e dal suo gruppo di ricerca149:
«L.: A me ha colpito molto quando l’ultima volta si parlava del rischio di essere in quanto professionisti dei servizi sociali dei colonizzatori.
R.: Chi cronicizza chi? Può essere che sia il sistema a cronicizzare l’utente? La domanda che ci facevamo noi è come facciamo? Perché non è colpa né di uno, né dell’altro, ma noi siamo parte del
145 Alcune delle persone intervistate sono state coinvolte in percorsi di inclusione canonici
(combinazione di alloggio popolare e sussidio per il raggiungimento di quello che viene definito minimo vitale) per più di 5 anni e in fase di osservazione hanno affermato di non aspettarsi più nulla dalla vita, prima di incontrare l’atelier di riuso creativo.
In particolare, dei 27 percorsi realizzati a D-Hub, contesto sperimentale della ricerca, tutti erano considerati percorsi socializzanti, non pensati dunque per un inserimento lavorativo diretti, ma solo per acquisire elementi per futuri percorsi o per sviluppare le competenze base, necessarie per procedere con altri step.
146 Cfr. MILANI L., La parola fa eguali. Il segreto della scuola di Barbiana, Libreria editrice fiorentina, Firenze
2005.
147 Ibidem. Cit. p. 19.
148 FREIRE P., La pedagogia dell’oppresso, op. cit. p. 69.
149 Cfr. CIMA R., ALGA M. L. e PITTONI E., Pensiero dell’esperienza e passaggi di trasformazione: analisi multiculturale nella presa in carico a rete, FEI 2013, Comune di Verona, 2014.
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sistema e ne siamo responsabili. Cos’è che mi può aiutare a non essere risucchiata dalla quotidianità, cos’è che può permettermi di avere uno sguardo esterno?
O.: Mi sono vista come l’operatore dell’ufficio che deve vendere quelle tre risorse che ha a disposizione in una modalità che non ha deciso. Mi sono sentita anche io parte di quel sistema cronico. Con la crisi arrivano però delle persone che hanno delle risorse, non hanno una cronicità. La cronicità è del sistema economico e sociale in cui ci troviamo. Ho provato a parlarne con i miei superiori, ma mi propongono delle letture del bisogno che non condivido magari perché appartengo ad una generazione diversa, ma è come se loro non riuscissero a sentire il “vero” disagio degli utenti».
Il quaderno di appunti e riflessioni di fine percorso ha lasciato traccia di un pensiero che è arrivato a tematizzare l’esistenza di una visione solidificata del binomio utente/operatore sociale, al punto da considerare l’intero sistema cronico e, di conseguenza, a pervadere di cronicità i suoi elementi (utente cronico, richieste croniche, frasi e atteggiamento dell’operatore cronici, strumenti e progetti cronici, relazioni croniche150…).
L’immagine che ne è emersa è quella di una relazione che fatica a uscire dalle condizioni date da questo tipo di contesto e questa situazione fa sì che la lente della pedagogia e della ricerca della liberazione dall’oppressione sia individuata come necessaria: dare la parola all’utenza, come testimone privilegiato, appare, in quest’ottica, l’elemento mancante del processo educativo, che potrebbe portare a spezzare la cronicità, avviando «un’azione trasformatrice che apra la strada alla cultura che si disaliena»151.
La ricerca diventa, dunque, uno strumento di coscientizzazione, che permette ai processi educativi di farsi indagine del pensiero, movimento necessario, perché «quanto più ricerco con il popolo il suo pensiero, tanto più ci educhiamo insieme. Quanto più ci educhiamo insieme, tanto più continuiamo a ricercare»152 e, aggiungerei,
a spezzare la cronicità.