CAPITOLO 4 – IL METODO
4.2. Il diario di ricerca
4.2.3 La pratica del diario
«È necessario continuare senza scoramenti il difficile lavoro sul simbolico, cioè mettere in parole la nostra esperienza, osservarla e analizzarla nella collocazione centrale dove abbiamo risolto di stare non per un’invenzione linguistica, ma per la necessità, appunto, di non separare vita quotidiana e politica»187.
Uso queste parole di Lia Cigarini come spunto, che mi permette di indugiare ancora sulla scrittura del diario, che in questo processo euristico ha rappresentato per me una delle più grandi fonti di domande, dubbi e riflessioni di senso, a partire da alcune consapevolezze sviluppate in questi anni di lavoro. Da un lato, mi preme sottolineare lo scarso apporto narrativo da parte dei professionisti dell’educazione, che riescono a investire poco tempo e pochi mezzi nella narrazione, reputata in genere superflua, ma che avrebbe invece un grande valore. Non si tratta di dire come si debba educare, ma di trovare strumenti adeguati a capire qualcosa in più sul lavoro educativo, sia attraverso la scrittura di sé, sia attraverso la lettura e l’ascolto di altri, a partire proprio dalle storie di pratica educativa188 . Quando però ho iniziato a fare lo spoglio delle
scritture degli educatori, non ho trovato la florida letteratura e relativa analisi189 che
riguarda una professionalità spesso in rete con quella degli operatori sociali, cioè, quella degli insegnanti, e ho iniziato a interessarmi alle motivazioni che si celano dietro a queste dinamiche. Perché due professionalità in parte simili non dedicano lo stesso peso e lo stesso tempo alla scrittura? Per rispondere a questo quesito sarebbe necessaria un’ampia trattazione; ho scelto, dunque, di declinarlo in: come posso, come ricercatrice e professionista, trovare forme di scrittura adeguate alla conoscenza e comunicazione di quanto avviene nei laboratori, non solo per una produzione accademica, ma anche per rendere comprensibile il senso di questo lavoro ad una platea che vada oltre la comunità scientifica?
187 CIGARINI L., La politica del desiderio, op. cit. p. 244.
188 Cfr. TACCONI G., Il lavoro dell’educatore, un approccio narrativo, in Rassegna CNOS 1/2016 (XXXII),
pp. 125-139.
189 Il lavoro di lettura pedagogica delle scritture dei professionisti è da anni tra i maggiori campi di
interesse di Giuseppe Tacconi, che parte dal presupposto che l’analisi delle scritture dei professionisti - in particolare gli insegnanti - possa offrire uno stimolo di riflessione per altri e altre.
Ha trattato questi temi in alcuni articoli, come TACCONI G, Anche i formatori imparano. Analisi delle
pratiche didattiche raccontate da Franck McCourt in “Ehi, prof!”, in Rassegna CNOS 1/2008 (XXIV) pp. 133-
149; Strategie di contrasto del “Vietato diventare!”. Analisi della didattica narrata da Daniel Pennac in “Diario di
scuola”, in Rassegna CNOS 2/2008 (XXIV), pp. 167-189 e Raccontami di te. La didattica narrata (e narrativa) in “La città dei ragazzi” di Eraldo Affinati, in Rassegna CNOS, 2/2008 (XXIV), pp. 155-168.
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Quando devo narrare la storia di D-Hub, dico che è nato come una esperienza di volontariato politico190 che, nel corso della scrittura di questa tesi, si è trasformato in
un lavoro, restando sempre connotato come politico. L’aggettivo politico, come avremo modo di riflettere nell’ultimo capitolo, accostato alla pratica degli atelier, significa che, oltre a rispondere al bisogno rilevato (l’inserimento lavorativo), c’è un’attenzione anche a muovere un cambiamento sociale, attraverso un rapporto dialettico con le istituzioni e con la cittadinanza.
Il solo agire, seppure in linea con il fornire una risposta alle richieste più profonde e urgenti delle nostre comunità, non basta. Per diventare agire politico191 deve mettere
in parola, comunicare le parti di ogni mediazione trovata, dire che cosa eccede queste parti, per farlo diventare ordine di riferimento.
Come è possibile fare tutto questo nelle ristrettezze del lavoro sociale? La mia risposta - provvisoria - è quella di cercare forme di scrittura e narrazione il più possibile rispondenti alle caratteristiche del lavoro di educatrice che, con la corsa all’appalto quantitativamente migliore, a causa dei tagli ai fondi, di cui si è parlato nella prima parte di questo lavoro, rischia di non lasciare spazio al pensiero e alla significatività politica di trasformazione del lavoro. Dunque, nel mio percorso, ho indugiato anche sulla ricerca di una scrittura che possa caratterizzare la quotidianità dei professionisti, individuando nelle proposte di Duccio Demetrio e di Rémi Hess192 elementi che
possono essere trasversali sia al lavoro del ricercatore, sia a quello degli operatori sociali.
Hess da anni si dedica allo studio del diario come strumento di esplorazione del quotidiano non solo per gli etnologi, i sociologi e i ricercatori, ma anche per gli insegnanti e gli educatori e, ancora, per i padri e le madri. Secondo la sua prospettiva, annotare ogni giorno le proprie riflessioni, imparare a rileggere se stessi, a classificare le proprie descrizioni, permette di essere più efficaci e di dare valore al proprio vissuto, in uno scambio sociale con chi ha accesso alle scritture.
«È nostra convinzione difendere il valore della scrittura diaristica come scrittura intima della persona, ma soprattutto come strumento di condivisione sociale del sé, dal
190 Cfr. SARPELLON G., Dentro e fuori la società: emarginazione e stato sociale, Fondazione Italiana per il
volontariato, Roma 1998.
191 Cfr. CIGARINI L., La politica del desiderio, op. cit.
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momento che optare per una dimensione pubblica della pratica diaristica innesca un processo di “scambio sociale” che comporta “il riconoscimento di una razionalità degli individui nella loro interazione con gli altri”»193.
La scrittura diaristica, dunque, oltre a poter essere uno strumento di indagine oggettiva e un dispositivo da utilizzare nella ricerca, può essere anche un momento soggettivo, personale, di ricerca, per tenere memoria di percorsi e scoperte e, infine, farsi strumento di consapevolezza e di condivisione, per una conoscenza che non è situata nella testa di ciascuno, ma «distribuita»194 nel mondo di chi scrive e nelle sue interazioni
e relazioni.
Il diario e la scrittura autobiografica rappresentano anche uno strumento di memoria195,
per imparare a «controllarla emozionalmente, a rivisitarla prendendone le distanze»196,
attraverso lo sviluppo della capacità di controllo autoriflessivo, sia in chi scrive, sia in chi legge, come testimone di un discorso sull’educazione che sia stimolo all’azione. Fare memoria, raccontare eventi passati, genera quotidianità e getta le basi per una trasformazione del presente. Non è dunque un atto statico, che inchioda le parole alla carta, ma diventa una «possibilità di futuro».
Verso la fine del mio percorso di ricerca questa potenzialità del diario ha fatto nascere in me l’esigenza di un’ulteriore forma di narrazione capace, appunto, di fare memoria del quotidiano, scrivendo un diario che nasce per essere pubblico e manifesto, per riflettere insieme ad altri sulla pratica dei laboratori e del lavoro di comunità, aprendo un dialogo con altri attori del sistema educativo, ma anche con la cittadinanza stessa. Sono convinta infatti che la carenza di una scrittura che parta dalle professioni educative non sia solo una privazione per gli addetti ai lavori, ma anche per una comunità che fatica a comprendere le implicazioni del lavoro educativo. Vorrei che questo tipo di scritture, alla fine di questo percorso, costituissero la base per la creazione di un laboratorio permanente di riflessione sul lavoro educativo, come strumento di analisi e di valorizzazione di pratiche resistenti e relazionali, che vadano oltre l’idea strumentale del lavoro e che puntino alla co-costruzione di un orizzonte di
193 PALESE F.F., Autobiografia e diaristica nella formazione e nella ricerca, in HESS R., La praticadel diario, op.
cit. p. 8.
194 Cfr. BRUNER J., La cultura dell’educazione, trad. it., Feltrinelli, Milano 1998.
195 Cfr. DEMETRIO D., Un progetto di formazione e ricerca in prospettiva autobiografica, in GIUSTI M., Ricerca interculturale e metodo autobiografico, La Nuova Italia, Firenze 1998.
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senso nuovo e orientante, laddove la fatica e l’inerzia rischiano di prendere piede, come nel caso dell’esperienza di La rivolta del riso di Milano197.