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CAPITOLO 4 – IL METODO

4.4. Il percorso della ricerca

4.4.2.1 Fase preparatoria: ipotesi di ricerca, comprensione degli obiettivi della ricerca

La fase preparatoria della ricerca si è estesa per un periodo molto lungo, che potrei sintetizzare in alcuni momenti cruciali, come la definizione della domanda di ricerca e

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la scelta degli atelier da osservare; la decisione di come strutturare le osservazioni e di che posizionamento tenere sul campo; la scelta di inserire o meno, nel campo, anche il laboratorio in cui lavoravo come educatrice al momento dell’avvio della ricerca. Le prime domande di ricerca che mi sono posta, hanno avuto un carattere di tipo generico:

- Quali buone prassi attua chi opera come educatore o educatrice in un atelier di riuso?

- Come si struttura lo spazio e il tempo di questo creare comunitario?

La mappatura degli atelier italiani e la scelta di concentrarmi solo su alcuni di essi, hanno definito anche in maniera diversa la mia osservazione: ciò che ho guadagnato in corso d’opera è stata la forte valenza politica emergente dal lavoro degli atelier. Inoltre, è stato subito chiaro che, per le loro caratteristiche di autonomia e di resistenza, dovevo necessariamente legare la mia ricerca anche all’identità di impresa sociale dei luoghi che andavo osservando.

Attraverso le lenti della «creazione sociale»224, mi è stato possibile ricentrare l’oggetto

della ricerca, considerando gli atelier come «imprese d’amore e di denaro», usando l’allegoria di De Vita, che parla della creazione di un sistema di welfare fatto di tessiture, in cui sono l’amore, l’ideale, la politica ad avere il primato sulla ragione economica, portando nel mercato «non la povertà di quello che si ha, ma la ricchezza di quello che si è»225.

Gli aspetti centrali delle mie osservazioni sono dunque diventati:

- Il lavoro di donne e uomini negli atelier di riuso creativo, dal punto di vista della pratica della differenza sessuale, con particolare attenzione alla pratica delle relazioni e allo sviluppo di un’autonomia relazionale;

- il fare impresa come cambiamento esistenziale, politico ed economico; - pratiche di economie diverse e nuovi stili di vita.

Tali aspetti centrali hanno assunto la forma della domanda di ricerca: quali pratiche educative vengono agite e co-costruite nell’atelier di riuso creativo, come mediazione all’auto-impresa con donne e uomini che stanno vivendo una situazione di svantaggio?

224 Cfr. DE VITA A., Imprese d’amore e di denaro. Creazione sociale e filosofia della formazione, Guerini, Milano

2004.

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La scelta di concentrarmi su un argomento non solo a me noto, ma anche oggetto della mia pratica quotidiana, ha posto poi il problema di riflettere sul posizionamento e tale riflessione mi ha accompagnata prima, durante e dopo il lavoro di campo. Fabian226, a

questo proposito, fa notare come il lavoro etnografico parta sempre da noi, da esperienze pregresse, da gusti e abitudini che portano il ricercatore a essere sul campo con una non neutralità. Mi sono trovata a tematizzare questo aspetto con un’altra giovane ricercatrice, Lucia Fiorio227, che ha svolto la sua prima esperienza di campo a

Casa di Ramìa, prendendo parte all’atelier itinerante Mano lavora, bocca parla. Mi ritrovo molto nelle parole con cui narra il suo avvio di lavoro di campo e ciò che l’ha guidata alla scelta proprio di quel campo:

«Raccontare qualcosa in più di me è servito di fatto anche a giustificare la scelta di sviluppare il mio progetto con loro e non in altri ambiti o altre persone: è stata la mia passione per le tecniche manuali tessili e il mio personalissimo piacere a lavorare in gruppo a guidarmi verso il laboratorio della Casa; altri interessi e attitudini personali sono convinta mi avrebbero portata altrove»228.

Come Lucia, mi sono trovata a dover strutturare un modo per me inedito di stare sul campo, dal momento che, quando ho svolto le prime osservazioni, avevo già creato un atelier e ne stavo progettando un secondo, avente maggiormente le caratteristiche di quelli che andavo a osservare. Ho scelto di raccontare a chi incontravo sul campo questa mia identità, significando il mio progetto all’interno di una biografia personale e professionale. Col senno di poi, trovo che sia stata una scelta vincente, perché mi ha permesso di entrare in una relazione più autentica e fluida limitando la diffidenza legata all’essere osservati e facendomi entrare nel campo con la legittimazione che si dà ai pari, senza configurarmi mai come spettatrice esterna229:

“Questa è una new entry”, dice Manuela. Mi guardo intorno e non capisco di chi parli e con chi parli. Decido, infine, che il soggetto possa essere un ragazzo, sempre del CSM e mi rilasso su questa convinzione, quando i due comunicatori mi dicono in coro: benvenuta! (dal diario di campo del 19 luglio 2013).

L’ultimo grande dilemma della fase preparatoria è stato se includere o meno nella ricerca il luogo in cui lavoravo come educatrice. Se, infatti, è stato subito chiaro che

226 Cfr. FABIAN J., Cultural anthropology and the question of knowledge in “Journal of the Royal

Anthropological Insitute”, numero 2, 2012, pp. 429-453.

227 Cfr. FIORIO L., STOCCHERO D., Razionalità e riflessività. Quale modello in antropologia professionale?, in

“Intrecci. Quaderni di antropologia culturale”, numero 1, 2013.

228 Ibidem, cit. p. 127.

229 Cfr. BIDDLE J.R., The Antropologist’s Body or What it means to break your neck in the field, in TAJA, The Australian Hournal of Anthropology, n. 3, 1993, pp. 184-197.

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fosse necessario portare questa mia identità e restituire anch’io, in corso d’opera, le narrazioni di prassi, pensieri e valori che guidavano le mie scelte professionali e di vita, come forma di rispetto, di condivisione e, in qualche modo, di restituzione230; nella fase

iniziale avevo deciso di non considerare il laboratorio in cui lavoravo come parte della ricerca. È stata la graduale consapevolezza del guadagno che la mia posizione poteva portare sia alla ricerca, sia alla pratica a convincermi che il laboratorio che vivevo in prima persona e che aveva ispirato il mio lavoro politico di ricerca di senso e di nominazione, nell’ambito dell’inserimento lavorativo, poteva essere punto di partenza di un movimento circolare, che mi portasse ad altre realtà, per poi tornare alle origini e così via. È stato dunque naturale, nel momento in cui ho iniziato a strutturare il laboratorio D-Hub, come nuovo e totalmente sperimentale laboratorio di riuso creativo, inserirlo nel campo di ricerca.