CAPITOLO 4 – IL METODO
4.1. L’osservazione sul campo
Prima di condurre le interviste, ho scelto di avvicinarmi ai contesti da indagare attraverso un lavoro di campo, che ha previsto la mia presenza in maniera intensiva (Roma e Lecce), ricorsiva (Mantova), o quotidiana (Verona), mettendomi a disposizione della vita dei laboratori e creando delle connessioni che, probabilmente, non sono circoscrivibili solo al lavoro di campo, ma che caratterizzano contesti dove
161 TACCONI G., Fare ricerca sulle pratiche nella formazione professionale iniziale in TACCONI G., MEJIA
GOMEZ G., Raccontare la formazione. Analisi delle pratiche nei Centri di Formazione Professionale dell’Associazione
CIOFS/FP - Puglia, PrintMe Editore, Taranto 2010. Cit. p. 9. 162 Ibidem, p. 13.
163 Cfr. CURCIO R., La rivolta del riso, op. cit. 164 Cfr. DAMIANO, La nuova alleanza, op. cit.
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il livello di engagement è alto, come emerge anche dagli ultimi lavori presentati dal Laboratorio Connessioni Decoloniali: «abbiamo dovuto fare i conti con una forte contraddizione: se riuscivamo a stabilire l’inizio dei campi, segnarne la fine ci sembrava un’operazione intellettuale irrealizzabile. E questa era anche la percezione di alcune persone che avevano partecipato alla ricerca»165.
La mia presenza su un campo dai confini così incerti, sia per una questione di posizionamento, sia per una questione di una spazialità e di una temporalità non circoscrivibili, ha fatto sì che, pur negli spostamenti suggeriti dall’auto-etnografia e da una pedagogia del partire da sé, fosse necessario delineare degli strumenti chiari di indagine, che permettessero anche di distinguere, almeno per quanto riguardava il mio grado di agentività, le narrazioni attinenti al mio processo di ricerca-azione quotidiana all’interno di D-Hub, da quelle esterne al mio laboratorio.
Ho quindi scelto di rifarmi agli strumenti dell’antropologia, per darmi un rigore nella raccolta e analisi dei dati: sentivo la necessità, insomma, di avere da un lato una riflessione, caratterizzata da un alto lavoro meta-riflessivo e meta-educativo, che potesse svilupparsi a partire da un diario considerabile come diario della vita della mente, come esposto nel precedente paragrafo; dall’altro lato avevo bisogno, però, di ricorrere ad un metodo misto, che mi dotasse di alcuni strumenti che mi tenessero maggiormente ancorata a quanto stavo indagando. Ciò non ha comportato l’adozione di un’etnografia rigida, in quanto un punto saldo del lavoro della ricerca è sempre stato la necessità di scomporre le asimmetrie che caratterizzavano gli incontri etnografici166
con i miei interlocutori: movimento di non troppo difficile riuscita, in quanto i laboratori stessi si caratterizzano per un alto impegno di messa in discussione delle asimmetrie educative.
Lo strumento principale per l’analisi sul campo, dunque, è stato quello dell’osservazione. Occorre però fare una riflessione a riguardo: Ronzon definisce l’«osservazione partecipante»167 come la tecnica centrale della ricerca etnografica,
avente l’obiettivo di ottenere informazioni di prima mano e una conoscenza dei fenomeni dal punto di vista di coloro che li vivono o li costituiscono, attraverso il controllo e la partecipazione dell’osservatore. Tale formulazione, sebbene ponga al
165 ALGA M.L. e MURACA M.T., Pratiche di etnografia postesotica, op. cit. p. 134.
166 Cfr. LASSITER, The Chicago guide to Collaborative Ethnography, University of Chicago Press 2005. 167 Cfr. RONZON F., Sul campo - Breve guida alla ricerca etnografica, Meltemi, Roma 2008.
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centro il fenomeno, appare però sbilanciata prevalentemente sull’azione del ricercatore e rischia di essere riconducibile ad una prospettiva positivista e oggettivante168.
Tedlock169, ancora, sostiene che il costrutto “osservazione partecipante” esprima un
ossimoro, in quanto appare come una procedura emotivamente destabilizzante, che richiede allo stesso tempo di farsi coinvolgere e ingaggiare nella ricerca, pur restando freddamente distaccati. Si propone, dunque, il passaggio alla “partecipazione osservante”, che offre una visione diversa del binomio osservazione-esperienza, ponendo l’accento sulla co-partecipazione che si genera nell’incontro tra la ricercatrice e il campo, con le persone che lo abitano. Al centro, dunque, non sta più solo l’antropologo, ma il processo di costruzione dialogica della conoscenza.
Solitamente il termine «partecipazione osservante»170 contempla che l’osservatore sia
già membro del gruppo. Nella mia ricerca ciò, tecnicamente, è vero solo per quanto riguarda il contesto veronese, in quanto ho visto e partecipato alla nascita di quasi tutte le realtà osservate, in maniera più o meno diretta. Mi prendo la licenza di usare questo termine, perché le relazioni che si sono sviluppate nel corso della ricerca - anche a causa del mio particolare posizionamento - hanno fatto sì che, a tutti gli effetti, io diventassi parte dei gruppi osservati; allo stesso tempo le persone coinvolte nella ricerca sono diventate parte integrante delle mie cerchie:
Rendere consapevoli Secou e Buba dell’importanza di un’intervista, anche se già ero stata con loro sul campo non è stato semplice; Sekou, in particolare mi ha detto che è difficile fare un’intervista con me, rispondere a delle domande di cui secondo lui so già la risposta e già potrei scrivere per conto mio, perché pensa che io ormai sappia tutto e sia una di loro (dal diario della ricerca del 9 luglio 2015).
Essere «una di noi» è un effetto della ricerca che non avevo previsto e che, in corso d’opera, ha cambiato anche la mia definizione degli strumenti, sia da un punto di vista di significazione teorica, sia per ciò che riguarda il bisogno di affinare gli strumenti e di adattarli sempre di più a ciò che stavo facendo. Proprio per questo motivo si è parlato di un campo dai confini incerti e difficile da lasciare o, probabilmente, destinato proprio a non essere lasciato. E anche in questo senso la mia ricerca rispetto allo strumento di raccolta dati da utilizzare si è protratta a lungo e ha subito delle variazioni in corso d’opera, anche pensando che ciò di cui avevo bisogno era uno strumento che
168 FABIETTI U., Antropologia culturale. L’esperienza e l’interpretazione, Laterza, Bari-Roma 1999.
169 TEDLOCK B., From participant observation to the observation of participation in “Journal of Anthropological
Research”, 1991, pp 69-94.
170 Cfr. MACRÌ D.M. e TAGLIAVENTI M.R., La ricerca qualitativa nelle organizzazioni, Carocci, Roma
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potesse andare anche oltre a questo lavoro di narrazione e diventare parte integrante della mia pratica futura.