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CAPITOLO 4 – IL METODO

4.3. L’intervista fenomenologica semi-strutturata

4.3.2 La postura dell’intervistare

A chi intervista sono richiesti «massimo rispetto, accettazione avalutativa, piena fiducia, curiosità discreta e neutrale, coniugata alla capacità di mantenere una corretta distanza emotiva tra sé e l’intervistato»208. Con queste parole di Laneve non si vuole

negare quanto affermato nel capitolo precedente a riguardo di una «ricerca che spacchi il cuore», ma si vuole rendere conto di un passaggio importante da fare, soprattutto quando il processo euristico chiama particolarmente in causa il vissuto dell’intervistatrice, come nel mio caso. Nel momento in cui si raccolgono i dati tramite le interviste, la consapevolezza acquisita, anche attraverso la pratica auto-formativa del diario, rispetto al proprio vissuto e alla propria «tonalità emotiva»209, non deve essere

un ostacolo alla raccolta dei dati. Sità, riprendendo il pensiero di Mortari e Moustakas210

suggerisce una «riflessione sul proprio posizionamento in quanto ricercatore rispetto al tema di indagine»211, tematizzando a monte il significato che l’esperienza che si va

ricercando assume innanzitutto dal suo punto di vista, rendendo esplicite le precomprensioni, in modo che non influenzino il processo di conoscenza. A riguardo, Atkinson212 pone l’accento sulla centralità del ruolo dell’intervistatore, la cui identità e

le cui caratteristiche intervengono, nella costruzione della storia e dei suoi significati, pur senza modificarne il contenuto.

Anche se esiste comunque un’asimmetria di fondo tra intervistatore (che ha presente anche se in costruzione il disegno della ricerca e guida il colloquio) ed intervistato,

207 Cfr. PIUSSI A.M., Co-costruire apprendimento e conoscenza come bene comune: partnership tra università comunità

per la ricerca socialmente responsabile e trasformativa, Relazione, Università degli studi di Verona, Verona, 2011. 208 LANEVE C., Analisi delle pratiche, op. cit. p. 85.

209 Cfr. MORTARI L., Apprendere dall’esperienza, op. cit.

210 Cfr. MOUSTAKAS C., The touch of loneliness, Prentice-Hall, Englewood Cliffs 1975. 211 SITA’ C., Indagare, op. cit. p. 40.

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questa non deve essere eccessiva e il punto di vista del ricercatore deve rimanere tacito, in modo che il processo sia centrato sui soggetti, in questo caso le imprenditrici, che vanno continuamente sollecitate a portare esempi e a raccontare eventi concreti. È importante che le domande siano poste in maniera semplice, ma non banale, utilizzando un registro comprensibile alle imprenditrici e agli artigiani e limitando le inferenze (integrazioni con informazioni pre-esistenti nella mente, poco inerenti al discorso).

In definitiva, l’intervista deve adottare un metodo «morbido e gentile», che «sappia accogliere l’altro nella sua singolarità e dunque nel rispetto della trascendenza»213 e che

si esplicita con gli atti cognitivi propri della fenomenologia214:

- mantenere un’attenzione aperta ai fenomeni, assumendo una postura passiva, di sospensione del pensiero, che lasci al fenomeno il tempo e il modo per venire in presenza, facendo uno sforzo negativo215, cioè di disattivazione dei

dispositivi epistemici posseduti, che permetta di mantenere una postura allocentrica. Le due condizioni necessarie allo sviluppo di questa attenzione sono il percepire l’oggetto come avente un valore intrinseco, ascoltando quindi l’altro per la sua singolare unicità, con sguardo attento, rispettoso e di cura; sviluppare una disposizione rilassata della mente, una quiete interiore;

- non cercare: abbandonare tutto ciò che potrebbe portare a un’imposizione di sé sull’altro, adottando «un’azione non agente»216, libera da un progetto specifico,

da schemi ed aspettative, sapendo fare attenzione alle piccole cose; perché, per attuare una conoscenza etica, bisogna salvaguardare l’altro nella sua trascendenza, lasciandosi guidare da lui. Solo non cercando qualcosa di specifico e, utilizzando le parole di Guardini, «facendosi avanti, ritraendosi»217,

è possibile arrivare all’inedito e all’imprevedibile. In questo senso, le domande dell’intervista dovranno essere costitutivamente aperte;

- fare vuoto: svuotare la mente, disattivando i dispositivi epistemici abituali, per accrescere l’ascolto dell’altro. Fare vuoto, soprattutto quando si ha già

213 MORTARI L. (a cura di), Dire la pratica, op. cit. p. 5.

214 MORTARI L. Cultura della ricerca, op. cit.

215 Cfr. LANZARA G. F., Capacità negativa. Competenza progettuale e modelli di intervento nelle organizzazioni,

Il Mulino Ricerca, Bologna 1993.

216 WEIL S., Quaderno II, trad. it., Adelphi, Milano 1985, p. 199.

217 Cfr. GUARDINI R., Persona e libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica. Editrice La Scuola, Brescia,

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raggiunto un’elevata forma di conoscenza nei confronti del tema indagato, è mossa indispensabile, per non portare l’interlocutore a dare per scontato ciò che fa. È una disposizione di vita, di fiducia e di valorizzazione di chi si ha davanti, come se ogni testimonianza e intervista fosse nuova, senza permettere alle conoscenze acquisite dalle altre testimonianze e dal lavoro di campo di cristallizzarsi, di diventare certezze;

- spaesarsi: svuotare la mente da quanto è stato già pensato, mettendo da parte ciò che potrebbe prefigurare la ricerca. È atto che può essere disorientante, ma che permette di essere esposti realmente alla sorpresa che l’affidarsi dell’altro suscita;

- sviluppare un’epistemologia ospitale, in opposizione a quella positivistica, che assimila l’altro a una rete di dispositivi già dati. «Aver cura di creare una buona situazione ambientale e relazionale, condizione questa che si realizza innanzitutto attraverso un lavoro che il ricercatore fa su di sé per rendersi accogliente»218. Alla prensione del positivismo viene a opporsi la distensione,

che chiede di mettere in secondo piano il proprio io, per fare spazio all’altro, secondo il «principio di fedeltà», che prevede la gratitudine del dono dell’apparire dell’altro;

- ricorrere al dire fenomenologico, con parole che manifestino le cose, ma possano anche velarle, lasciarle sospese, interpretabili, come la «parola poetica»219 di

Maria Zambrano;

- esercitare un pensare capace di sentire: le emozioni fanno parte dell’atto conoscitivo. Come detto, c’è sempre una tonalità emotiva che costituisce il nostro modo di conoscere e va indagata e resa nota. La sintonia tra pensare e sentire si realizza nell’empatia, che permette di fare spazio dentro di sé all’esperienza altrui. Ciò è possibile solo se prima e durante il processo euristico si è allenata anche la sfera emotiva, cercando strumenti per comprenderla e renderla manifesta; - pensarsi pensare: il lavoro che fa il ricercatore – lo si è detto più volte – è prima

di tutto su di sé e, in questo, il diario di campo è anche un imprescindibile strumento di auto-comprensione e auto-formazione, che permette di esercitare

218 DUSI P., SITÀ C., Il percorso della ricerca in MORTARI L. (a cura di), Dire la pratica, op. cit. p. 47.

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uno sguardo riflessivo, indispensabile come atto di coscienza continuo, che monitora ed esplicita i processi cognitivi. L’auto-osservazione continua deve anticipare l’osservazione del contesto, poiché la credibilità e la trasparenza della ricerca dipendono dalla profondità dell’autoriflessione che la ricercatrice sa attivare.

Dal punto di vista delle scelte operative, questi atti cognitivi si sono concretizzati in precise azioni e per questo, prima di svolgere le interviste220, ho chiarito alle

imprenditrici e a artigiani e artigiane quali erano gli scopi del colloquio, condividendo con loro l’oggetto della ricerca e la sua funzione politica. Ho definito uno schema di domande primarie (di introduzione di un nuovo tema) e secondarie (di approfondimento del tema prioritario), non direttive, che lasciassero loro spazio, elaborando una presentazione dell’intervista che tenesse conto dell’osservazione svolta in precedenza e dei legami e delle relazioni che questa aveva generato:

Ci siamo già conosciuti nelle osservazioni e so che non è come le mie precedenti esperienze di ricerca, mi sono dunque preparata un’introduzione più accurata da fare:

«Oggi sono qui con una presenza simile ai nostri incontri, nel senso che sono qui per capire come funziona il vostro lavoro e quali sono le vostre motivazioni, senza avere una previsione su quello che scoprirò; ma è anche vero che di alcune cose abbiamo già parlato, sono state viste, ho letto molto su di voi, abbiamo fatto qualcosa insieme. Vi chiedo, però, di non dare nulla per scontato, di raccontarmi il vostro lavoro, le vostre emozioni e i vostri pensieri con libertà, senza pensare che posso già sapere ciò di cui stiamo parlando. Oggi siete i miei esperti, lo siete sempre stati, ma adesso vi chiedo di esserlo in prima persona, con questa intervista» (dal diario di ricerca dell’8 luglio 2015)

La mia presentazione era volta anche a ridurre una possibile asimmetria, dovuta all’attribuire a me un ruolo di esperta e non a chi, quotidianamente, opera negli atelier di riuso creativo. Tale accento è stato particolarmente necessario con gli artigiani e con le artigiane, non sempre abituati a esprimersi sul loro lavoro (in quasi tutte le realtà, fatta eccezione per Refugee Scart, sono le creatrici a raccontare all’esterno ciò che fanno), ma anche con le creatrici dei laboratori, che mi riconoscevano una grande autorità sul tema, in virtù del fatto che io stessa avevo contribuito alla creazione di due laboratori. Quando volevo degli approfondimenti, richiedevo chiarificazioni e davo delle restituzioni in forma di ascolto attivo («Non ho capito bene…», «Hai detto/mi stai dicendo che…»), facendo uso di tecniche di probing, incoraggiando, accertandomi che gli intervistati e le intervistate avessero ben capito le domande, aiutandoli ad andare in profondità e a superare eventuali movimenti di difficoltà, attraverso pause e attese,

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brevi affermazioni di comprensione e interessamento, spesso non verbali, come cenni, sguardi e sorrisi. I probes sono stati mirati soprattutto a creare un atteggiamento di accoglienza e gratitudine nei confronti di chi avevo davanti, con l’obiettivo di far sentire che ciò che dicevano era importante, sapendo generare quell’interazione sociale221 volta a “far dire” la pratica e a «ottenere testimonianze ricche, affidabili,

esaustive, non ambigue ma anche per questo fortemente dipendenti dalle componenti soggettive delle persone che vi sono coinvolte»222.