• Non ci sono risultati.

Processo di cognizione e procedimento di sorveglianza sono due riti profondamente diversi l’uno dall’altro, sotto una molteplicità di aspetti. Per analizzare le differenze partiamo innanzitutto dall’oggetto su cui verte la statuizione del giudice.

Nel processo ordinario, lo scopo è quello, attraverso le prove raccolte dalle parti e portate innanzi al giudice, di stabilire se un determinato evento si sia o meno verificato, o un comportamento sia stato compiuto. Si tratta di una verifica di tipo oggettivo, su un fatto storico, o, ancora sull’idoneità della sentenza a fungere da titolo esecutivo.

Completamente opposto è l’obiettivo del procedimento di sorveglianza, che, dovendo rispondere alle esigenze di tipo rieducativo di cui si è

77 C. CARDINALI e R. CAIA, Il paradigma ri-educativo nel trattamento

penitenziario. Azioni e valutazione possibile, in Formazione & Insegnamento, 2014, p.

detto, è incentrato sulla figura dell’interessato, condannato o internato (funzioni e provvedimento delineati all’art. 70 ord. penit.). La decisione finale verterà sulla concessione o revoca di misure premiali, a seguito di un’analisi sul suo percorso rieducativo e sul concreto livello di avanzamento che in tal senso l’individuo ha posto in essere. Si parla infatti di una giurisdizione «anomala», in quanto l’oggetto del giudizio

«prescinde dall’esistenza di una “lite” e dalla violazione del diritto oggettivo [e riguarda] invece la persona cioè la sua evoluzione o involuzione»78

Questo giustifica la particolare formazione dell’organo del tribunale di sorveglianza, composto, sempre ex art. 70, da: presidente, il magistrato di sorveglianza sotto la cui giurisdizione è il condannato o internato nei cui confronti si provvede; due esperti scelti tra professionisti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica, figure analoghe a quelle che si occupano del trattamento dell’individuo all’interno dell’istituto; docenti di scienze criminalistiche. Gli esperti sono nominati dal Consiglio Superiore della Magistratura in base alle necessità concrete di servizio presso ogni tribunale.

Una seconda differenza riguarda l’ambito di applicazione di questo rito camerale, ex art. 678 c.p.p.. Con l’abolizione delle norme degli artt. 71- 71 sexies79a mezzo dell’art. 236, 2° co. disp. att. c.p.p., si assicurava anche una limitazione dell’attività del tribunale speciale, rispetto alla generale previsione dell’art. 678, 1° co., c.p.p., per cui «il tribunale di sorveglianza [procede] nelle materie di sua competenza». Una simile disposizione, a carattere generale, non avrebbe lasciato spazio alle procedure semplificate disposte dall’ordinamento penitenziario. Si è pertanto stabilito che nei casi in cui «la tutela giurisdizionale piena [fosse] parsa sovrabbondante»80 si continuasse ad applicare le regole

78L. FILIPPI. – G. SPANGHER, Diritto penitenziario, Milano, 2000, p. 97. 79 Cfr., infra, Cap. 1, § 1.2., p. 11.

80 V. A. PRESUTTI, La disciplina del procedimento di sorveglianza dalla normativa

penitenziaria al nuovo codice di procedura penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, p.

dei procedimenti atipici, riguardanti nello specifico il trattamento intramurario e tutti i casi in cui si richiede all’organo collegiale di pronunciarsi sul reclamo sollevato avverso una decisione del magistrato di sorveglianza o l’amministrazione penitenziaria81. L’atipicità in questo ambito concerne la semplificazione delle formalità nell’instaurazione del contraddittorio, dal quale deriva inevitabilmente una contrazione delle garanzie giurisdizionali. Il procedimento diviene essenzialmente cartolare, andando così a scardinare quell’elemento portante, che già pare a molti non essere bastevole, del contraddittorio rinforzato (di cui si dirà più avanti). Di non poco conto questa differenza, che «si è poco

attenuata»82 con il successivo delinearsi della disciplina dell’art. 666, specie in relazione al quarto comma83. In ogni caso, palese appare la differenza fra le due ipotesi, ordinaria e atipica, quest’ultima sofferente sul versante del diritto ex art. 24 Cost., che ha condotto, dopo molte critiche e alcuni «slanci di sensibilità garantista»84, a pronunciarsi la

Corte Costituzionale. La Consulta, dichiarando l’incostituzionalità degli artt. 236, 2° co. delle disp. att. c.p.p., del 14 ter 1°, 2° e 3° co. e art. 30

bis della legge n. 354 del 1975, rispetto all’art. 76 della Carta

fondamentale, «nella parte in cui non consentono l’applicazione degli

artt. 666 e 678 del codice di procedura penale nel procedimento di reclamo avverso il decreto del magistrato di sorveglianza che esclude dal computo della detenzione il periodo trascorso in permesso- premio»85. La scelta della Corte si è ispirata ai principi sanciti nell’art. 2

della l. delega 81 del 1987, ed in particolare nella direttiva n. 96, che sanciva «garanzie di giurisdizionalità nella fase dell’esecuzione»,

81 I casi previsti per il reclamo sono: per il regime di sorveglianza particolare, l’art. 14

bis ord. penit., ancora, l’ipotesi generale dell’art. 14 ter, ord. penit. e infine il caso

dell’art. 18 ter ord. penit., contro i provvedimenti emessi dal magistrato di sorveglianza in materia di limitazioni e controlli della corrispondenza.

82 V. F. DELLA CASA, L’incostituzionalità del procedimento di reclamo ex art. 53

bis comma 2 ord. penit. Un restyling determinato da un «eccesso di delega» (o dalle eccessive aperture della Consulta nei confronti della giurisdizionalizzazione dell’esecuzione?), in Giur. cost., 1993, p. 1420.

83 V. Infra, Cap 2.

84 V. K. MAMBRUCCHI, Procedimento di sorveglianza, in Dig. disc. pen., III agg., Torino, 2005.

consistenti nella «necessità del contraddittorio» e «nell’impugnabilità dei provvedimenti» sulle pene e misure di sicurezza.

Seppur rivisto dopo la censura della Consulta, il sistema continua a fondarsi su una modulazione degli schemi procedurali in relazione al provvedimento oggetto di contestazione, nonché delle forme di tutela per l’interessato in relazione alla natura del diritto leso. Per cercare di dare chiarezza a questo complesso insieme, alla luce dei diritti fondamentali degli individui, pochi mesi dopo la precedente pronuncia, si è nuovamente espressa la Corte Costituzionale. La distinzione è stata così tracciata tra le decisioni concernenti «le modalità di esecuzione

della pena che non eccedono il sacrificio della libertà personale già potenzialmente imposto al detenuto con la sentenza di condanna» e

quelli che «incidono sulla quantità e qualità della pena», e comprendenti le «misure che comportano un sia pur temporaneo

distacco, totale o parziale, dal carcere»86. Queste indicazioni sono state

seguite dal legislatore che, negli anni seguenti, con una serie d’interventi legislativi, ha assicurato un reclamo, definito «integrato»87, delle garanzie difensive del procedimento di sorveglianza, anche riguardo a provvedimenti definenti il profilo della quantità e qualità della pena88.

Differente è anche lo svolgimento del procedimento, più celere, e che si caratterizza per la privatezza, a sacrificio del principio di pubblicità, tipico del processo cognitivo.

Nel delinearlo tuttavia il legislatore non ha articolato l’unica udienza camerale, come invece accade nel processo cognitivo, in fasi precise e circoscritte89. Una ricostruzione può essere effettuata dalla lettura in

86 Corte cost., 24 giugno 1993, n. 349.

87 In questi termini C. CONTI, Il reclamo sulle restrizioni della corrispondenza in

carcere nel quadro della tutela dei diritti dei detenuti, in Cass. pen., 2006, p. 296.

88 Il riferimento è ai seguenti interventi legislativi: l. 19 dicembre 2002, n. 277 in materia di liberazione anticipata, e la l. 23 dicembre 2002, n. 279, riguardante l’impugnazione dei provvedimenti che, sospensivi del trattamento, vietano la concessione delle misure alternative ai detenuti sottoposti al regime speciale dell’art. 41 bis ord. penit..

89 Una critica a questa scelta di incertezza del legislatore la si ritrova in F. DELLA CASA, La magistratura di sorveglianza. Organizzazione, competenze, procedure,

combinato disposte delle disposizione dell’art. 666 e 45 disp. att. c.p.p.. Volendolo descrivere sommariamente, possiamo individuare una prima fase, dedicata agli “atti introduttivi”, che si distinguono in due macro categorie: quelli riguardanti l’accertamento della regolarità delle notificazioni a tutti i destinatari aventi diritto, con la loro conseguente corretta costituzione, e quelli relativi alle questioni, se sussistenti, da definire preliminarmente. Una volta terminate tali verifiche, si apre una “seconda fase”, con la lettura di una «relazione orale» da parte del presidente del tribunale, o di un membro dallo stesso designato, a seguito della quale si entra nel vivo del procedimento, nel suo momento più importante: l’istruzione. È proprio la parte dell’acquisizione delle prove, con lettura dei documenti nel fascicolo e di quelli prodotti dalle parti nel corso della stessa udienza, ma anche con l’assunzione di prove che si costituiscano nel contraddittorio tra le parti, che sarà la più determinante, per la decisione finale del collegio.

È a questo punto che, se presente in aula, inizia l’audizione dell’interessato, consistente in una serie di domande a lui rivolte, di fronte al proprio difensore e al pubblico ministero, partendo dal progetto trattamentale e dalle relazioni dell’equipe che in carcere lo segue, e dalle richieste delle parti. Necessario è, per il giudice, verificare se effettivamente le risultanze delle analisi compiute da altri sono in linea con lo stato del soggetto, senza piegarsi a forme di pietismo.

Chiusa l’istruttoria, le parti, e per ultimo il difensore, espongono brevemente le proprie conclusioni, cui seguirà il ritiro da parte del collegio giudicante in camera di consiglio e l’emissione di un’ordinanza decisoria.

Tornando a quegli elementi del «giusto processo» descritto dall’art. 111 Cost., rimandiamo la trattazione della questione del contraddittorio ai prossimi capitoli del presente lavoro.

Torino, 1998, p.130; ancora, G. DI CHIARA, op. cit., p. 235, in cui l’autore sottolinea la necessità di ricostruire una articolazione interna all’udienza dell’art. 666 c.p.p., «da

una pluralità di fonti, opportunamente interpretate anche allo scopo di colmare inevitabili lacune».

Ponendo l’attenzione sulla formazione delle prove, conviene spendere qualche parola innanzitutto su quali esse siano in questo tipo di processo. Si è già parlato di una serie di documenti che provengono direttamente dal carcere, e che fungono da ricostruzione della vita del detenuto all’interno della struttura, prima fra tutti la cartella personale del detenuto. A questi se ne possono aggiungere altri, in base al thema

decidendum, come le certificazioni dell’U.E.P.E. (Ufficio

dell’Esecuzione Penale Esterna), il cui compito (ex art. 72 ord. penit.), in fase di esecuzione delle sanzioni penali in forme alternative alla detentiva, consta nell’elaborazione di un programma trattamentale, da sottoporre alla magistratura di sorveglianza, e, in seguito, alla verifica della persistenza non solo del rispetto dello stesso, ma anche delle condizioni che ne hanno in un primo momento permesso l’accesso al singolo. Innegabile tuttavia, è che la prova suprema in questo contesto dovrebbe essere rappresentata proprio dal soggetto. Se è della sua psiche che si deve trattare, della sua concreta volontà di non utilizzare una misura premiale al solo fine di poter uscire dalle mura carcerarie, ma in ottica costruttiva, è dunque sulla sua presenza che si focalizza l’intera attività. Si tratta di prove la cui formazione, come stabilito dall’art. 111 comma quarto, devono formarsi nel contraddittorio delle parti, e quindi al cospetto di tutti gli interessati. In senso contrario a questa riflessione pare essere il dato concreto dell’onnicomprensività della cartella personale, che finisce per incidere negativamente sulla “tipologia” di contraddittorio realizzabile90. Come verrà chiarito più avanti, il procedimento di sorveglianza è difatti caratterizzato da un contraddittorio rafforzato91, che maggiormente dovrebbe essere consono all’applicazione dell’art. 111, 4° co., Cost., prevedendo a maggior ragione il terzo comma dell’art. 71-bis ord. pen., che il materiale per la decisione si forma «in udienza».

Elemento diametralmente opposto riguarda il diritto a presenziare. Se nel procedimento ordinario l’imputato detenuto deve essere tradotto

90 Cfr. G. DI CHIARA, Il contraddittorio nei riti camerali, Milano, 1994, p. 120. 91 V. Infra, Cap. 2, § 1, p. 48 ss.

davanti al giudice, da parte dell’amministrazione penitenziaria, con l’eccezione di una sua espressa rinuncia, nel procedimento di sorveglianza è il detenuto che deve fare esplicita richiesta per poter partecipare, in caso contrario, essendo il suo intervento meramente facoltativo, è data per scontata la sua astensione92, sulla sola base della quale, peraltro, non possono conseguire effetti a lui pregiudizievoli93, almeno sul piano teorico.

Per di più, nel processo di cognizione l’absentia dell’imputato può essere considerata una strategia difensiva, che legittima il processo a proseguire con la sola presenza del difensore (laddove si dimostri che il decreto contenente la data dell’udienza era giunto all’imputato o che questi ne era comunque a conoscenza). La sua volontà di sedere in udienza non ha alcun riflesso sull’accertamento della sua responsabilità, né, tantomeno, sulla quantificazione della pena o sanzione, dipendenti solo dai criteri dell’art. 133 c.p..

Questo nuovo istituto è stato recentemente introdotto, con la l. 28 aprile 2014, n. 67, che ha riformato il nostro ordinamento, allineandosi alla normativa europea. Conseguentemente, è stata abrogata la disciplina sulla contumacia (art. 420 c.p.p. ss.), lacunosa sul piano delle garanzie dell’imputato, giacché non sempre l’assenza dipendeva da una sua concreta volontà, bensì da un’ignoranza dello svolgimento del processo a suo carico. I rimedi non potevano dirsi soddisfacenti: alla restituzione del termine per proporre impugnazione (art. 175, 2° co, c.p.p.), si accompagnava la possibilità al condannato in primo grado di dimostrare, in appello, la sua mancata incolpevole conoscenza dell’udienza, o l’impossibilità a comparire per causa di forza maggiore o caso fortuito, e dunque chiedere la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. Tuttavia, non solo la concessione non era automatica e

92 Cfr. M. CANEPA – S. MERLO, Manuale di diritto penitenziario, Milano, 1987, p. 338.

93 Ritengono in proposito M. CANEPA – S. MERLO, op. cit., p. 586, che, l’assenza

«non comporta alcuna formale dichiarazione da parte del giudice né dispiega alcun particolare effetto in ordine agli atti da eseguirsi nel tempo successivo all’emissione dell’ordinanza terminativa».

certa, dovendo passare attraverso un giudizio del giudice ex art. 603 c.p.p., ma, soprattutto, non possiamo considerare la mera rinnovazione istruttoria equivalente alla presenza durante un processo, il cui esito sfugge completamente dal controllo del soggetto protagonista. Per queste ragioni è intervenuta la Corte EDU94 che nel corso degli anni, condannando l’Italia, aveva enucleato i principi cardine attorno ai quali doveva ruotare il meccanismo dell’assenza dell’imputato, e che sono: la rinunciabilità, a determinate condizioni, al diritto ad essere presente, che però deve fondarsi su una libera e consapevole scelta del soggetto, manifestata in modo inequivoco, sia esso espresso o tacito. A questo si aggiunge un obbligo di dimostrazione del fatto che la persona fosse a conoscenza del procedimento, che può avvenire con qualunque strumento idoneo. Il nuovo art. 175 c.p.p. nasce dunque su queste fondamenta.

Nel procedimento di sorveglianza il regime è ancora una volta diverso. In questo caso il destinatario dell’ordinanza, non richiedendo di presenziare, non mostra interesse verso il procedimento stesso, per cui si riapre il delicato problema del bilanciamento, nell’opera rieducativa, del consenso del condannato, o internato95, che può per dipiù comportare la mancata irrogazione di misure alternative, per l’impossibilità del giudicante di verificare, da un lato l’idoneità rispetto al caso concreto, e, dall’altro, l’effettiva disponibilità del soggetto a modificare il proprio trattamento. A maggior ragione quando ciò avviene per incomunicabilità con l’interessato, nel caso d’irreperibilità in pendenza di sospensione dell’esecuzione, o di rifiuto, se detenuto96. Una tale difficoltà, ben diversa dal disinteresse al procedimento, non può tuttavia essere automaticamente assunta come criterio impeditivo

94 Corte EDU, 18 maggio 2004, Somogyi c. Italia, n. 67972/01, in

https://hudoc.echr.coe.int .e Corte EDU, 10 novembre 2004, Sejdovic c. Italia, n. 56581/00, in https://hudoc.echr.coe.int.

95 V. Infra, Cap. I, § 1.1.. p. 9-10. 96 Cfr. A. PULVIRENTI, op. cit., p. 246.

della concessione di misure alternative, dovendosi a tal fine esaminare gli atti processuali97.

Si parla inoltre di una circostanza particolare di assenza del soggetto nel comma 4° dell’art. 666, che la prevede come possibilità laddove «il detenuto sia detenuto o internato in luogo posto fuori dalla circoscrizione del giudice, è sentito prima del giorno dell’udienza dal magistrato di sorveglianza del luogo, salvo che il giudice ritenga di disporre la traduzione». Come questo possa conciliarsi con quanto sopra detto sarà materia del prossimo capitolo.

Riguardo l’instaurazione e, in particolar modo, ai casi in cui essa non avviene su istanza di parte, ma in cui si proceda d’ufficio, nel processo di cognizione non è mai il giudice a poter introdurre il processo di sua iniziativa, essendo la domanda (su querela di parte o d’ufficio, nei casi di particolare gravità previsti dal codice di rito), veicolata e sottoposta ai filtri della fase delle indagini preliminari. Differente è quel che accade nel procedimento di sorveglianza, in quanto, come già sviscerato parlando della questione controversa della terzietà del giudice, può essere lo stesso magistrato di sorveglianza, che poi farà parte anche del collegio giudicante, a dare impulso all’azione.

97 Ritiene infatti la giurisprudenza di legittimità che la comparizione in udienza, e la reperibilità del condannato al momento della decisione, non possano essere condizioni di ammissibilità della richiesta di misura alternativa alla detenzione, dal momento che questa «in tanto può essere considerata ostativa all’accoglimento dell’istanza, in

quanto sia sintomatica di disinteresse per la procedura, e impedisca in modo assoluto la verifica della sussistenza dei presupposti per la concessione del beneficio invocato». Così, Cass., Sez. I, 20 dicembre 2000, Sow, in Cass. pen., 2002, p. 1091.

CAPITOLO 2

La presenza dell’interessato come requisito essenziale del procedimento (?) .

2.1. Il quarto comma dell’art. 666 c.p.p. e le somiglianze con l’art 127 c.p.p. – 2.2. L’autodifesa nell’ambito del procedimento di sorveglianza: la rogatoria interna e i conseguenti dubbi di legittimità costituzionale. – 2.2.1. Gli orientamenti giurisprudenziali consolidati in Italia: l’evoluzione fino alla sentenza n. 45/1991 della Corte costituzionale. – 2.2.2. La pratica dei casi concreti: dalla proposta di legge ai tentativi di elusione della normativa. – 2.2.3. Le Sezioni Unite: il fallimento dello sforzo verso un sistema omogeneo. – 2.2.4. …e in Europa: la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. – 2.2.5. I recenti orientamenti giurisprudenziali: tra le conferme di un diritto di partecipazione e le conseguenti ipotesi di nullità ex artt. 178-179 c.p.p. – 2.3. Un limite di fatto: il diritto all’interprete dell’interessato straniero.

2.1. Il quarto comma dell’art. 666 c.p.p. e le somiglianze con l’art.