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La presenza dell’interessato davanti alla magistratura di sorveglianza: una garanzia in declino?

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

La presenza dell’interessato davanti alla magistratura di sorveglianza:

una garanzia in declino?

Il candidato Il relatore

Arianna Cortigiani Chiar.mo Professor. Luca Bresciani

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INDICE

INTRODUZIONE………..1

CAPITOLO 1

Procedimento di sorveglianza: la rieducazione nell’ordinamento italiano.

1.1. La nascita della «giurisdizione rieducativa» con la sentenza n. 204/1974 della Corte costituzionale……….…3 1.2. L’evoluzione legislativa e l’approdo nel codice di rito………….. 12 1.3. Le garanzie del giusto processo davanti alla giurisdizione di sorveglianza: Art 111 Cost e art 6 CEDU………. 18 1.4. L’incidenza del principio di rieducazione……….. 27 1.5. Differenze con il processo di cognizione………... 45

CAPITOLO 2

La presenza dell’interessato come requisito essenziale del procedimento (?).

2.1. Il quarto comma dell’art. 666 c.p.p. e le somiglianze con l’art 127 cpp………. 54 2.2. L’autodifesa nell’ambito del procedimento di sorveglianza: la rogatoria interna e i conseguenti dubbi di legittimità costituzionale… 61 2.2.1. Gli orientamenti giurisprudenziali consolidati in Italia: l’evoluzione fino alla sentenza n. 45/1991 della Corte costituzionale.. 68 2.2.2. La pratica dei casi concreti: dalla proposta di legge ai tentativi di elusione della normativa………... 82

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2.2.3. Le Sezioni Unite: il fallimento dello sforzo verso un sistema omogeneo……….. 85 2.2.4. …e in Europa : la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo……... 101 2.2.5. I recenti orientamenti giurisprudenziali: tra le conferme di un diritto di partecipazione e le conseguenti ipotesi di nullità ex artt 178-179 cpp……… 111 2.3. La realizzazione del contraddittorio: il legittimo impedimento dell’interessato e del suo difensore……….…… 118

CAPITOLO 3

Le nuove tecnologie in ausilio del sistema: la videoconferenza e la compressione del contraddittorio.

3.1. L’uso della tecnologia all’interno del sistema penitenziario: gli artt. 146bis e 147bis delle norme di attuazione fino alla Riforma

Orlando……… 122 3.2. In attesa dei decreti attuativi della legge del 23 giugno 2017, n. 103. Proposte per un’alternativa applicazione della videoconferenza all’interno del procedimento di sorveglianza: verso il recupero del diritto alla presenza? ………..… 130 3.3. Le modifiche della disciplina: la Riforma Orlando e i primi decreti attuativi……… 140 3.4. Limiti del sistema: possiamo considerarlo equipollente alla presenza?... 147

CONCLUSIONI……… 153

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INTRODUZIONE

Il presente lavoro ha l’intento di analizzare la facoltà dell’interessato, all’interno del procedimento di sorveglianza, d’intervenire personalmente di fronte al giudice che di lui dovrà giudicare. L’attenzione si focalizzerà, in particolare, sulla qualificazione da attribuire alla stessa, come diritto soggettivo vero e proprio, o mera possibilità.

Partendo dall’evoluzione che il rito in esame ha subito nel corso della storia, con un significativo implemento della sua funzione specialmente dopo l’entrata in vigore della Carta costituzionale, si è cercato di capire come un procedimento così strettamente incardinato fra molti formalismi, potesse essere adatto a realizzare e tutelare la funzione rieducativa. Importante sarà, infatti districarsi fra le differenze sostanziali che caratterizzano il rito di competenza del tribunale di sorveglianza rispetto a quelle del processo di cognizione, non tanto sotto il profilo procedimentale, quanto sotto quello dell’oggetto: l’evoluzione personologica dell’interessato. Questo elemento chiave, che richiama a sé aspetti e valutazioni più psicopedagogiche che giuridiche, impone una riflessione: quanto può essere importante la presenza del soggetto di fronte al giudice, quanto questi dovrà statuire proprio in ragione della sua psiche e personalità?

Da qui lo studio inizia a farsi più complesso, in quanto, sebbene il contraddittorio risulti rafforzato per la presenza necessaria, prescritta dall’art. 666, quarto comma, c.p.p. di difensore e pubblico ministero, le garanzie dal punto di vista difensivo sembrano vacillare laddove, procedendo con la lettura della norma, viene descritta la condizione di colui che, detenuto o internato in luogo posto al di fuori della circoscrizione del giudice, vede sostituirsi la partecipazione diretta al processo dal meccanismo della rogatoria interna. Questa, da celebrarsi alla presenza del proprio magistrato di sorveglianza, e antecedentemente rispetto dell’udienza, potrebbe essere sostituita solo dalla facoltà del

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giudice di pronunciarsi, a seguito di una valutazione sull’”utilità” di un suo diretto contatto con l’interessato, ordinando la traduzione dell’individuo in aula.

La dottrina e la giurisprudenza si sono da subito divise, con la creazione di una molteplicità d’indirizzi che non hanno fatto che complicare il sistema. Due sono stati i principali orientamenti: da un lato le istanze di coloro che riconoscevano al detenuto un vero e proprio diritto alla partecipazione; dall’altro le istanze di chi facendo prevalere le necessità organizzativo-economiche del sistema (ratio stessa della norma di cui al quarto comma dell’art. 666 c.p.p.), propendevano per la qualificazione di mera facoltà, fondando la tenuta costituzionale sulla previsione della facoltà del giudice di ordinare la traduzione.

I dubbi maggiori risiedono sull’effettiva possibilità di lasciare alla magistratura un compito così importante come la scelta sull’effettiva costituzione del contraddittorio, e dunque realizzazione del giusto processo. Su questo punto si concentra un’analisi fondata non solo sui lassi criteri di scelta definiti dal legislatore, ma anche sulla qualità stessa del bilanciamento d’interessi alla base della valutazione e, ancor prima, della previsione normativa.

Fino a che punto è possibile sacrificare il diritto difensivo in ragione di necessità di carattere eminentemente organizzative ed economiche? In diretto collegamento con la materia, ed in particolare in ottica funzionale e servente alla stessa, si colloca la disciplina sull’utilizzo di strumenti tecnologici all’interno del processo, ed in particolare la normativa di cui all’ articolo 146bis, direttamente richiamato al 45bis delle disposizioni attuative del codice di rito.

Se prima le previsioni di utilizzo erano molto limitate e circoscritte a esigenze di sicurezza (particolarmente rilevanti per i casi di sottoposti a 41bis), la tendenza odierna sta in parte cambiando. Con il grande sviluppo dei mezzi di tecnologia e il nuovo ruolo che questa ha assunto nei vari ambiti nostre vite, finanche in quella dello Stato, di particolare rilievo è capire come tali strumenti siano rientrati all’interno dell’ambito

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processuale, in quali misure e con quali finalità. La Riforma della Giustizia Orlando (l. 23 giugno 2017, n. 103), ha cambiato profondamente il modo di guardare allo strumento audiovisivo, ampliandone le possibili applicazioni, secondo una ratio che ha suscitato dubbi in larga parte della dottrina.

Nei prossimi capitoli dunque, se, da un lato, si cercherà di indagare quale dovrebbe essere il confine più “giusto”, entro cui ascrivere l’uso di questi mezzi, nell’ottica del «giusto processo» e delle garanzie costituzionali, dall’altro si potrebbe, al contrario rinvenire in essi una “via di uscita” per la risoluzione di problemi in stallo da anni.

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CAPITOLO 1

PROCEDIMENTO DI SORVEGLIANZA: la rieducazione nell’ordinamento italiano.

1.1. La nascita della «giurisdizione rieducativa» con la sentenza n. 204/1974 della Corte costituzionale. – 1.2. L’evoluzione legislativa e l’approdo nel codice di rito – 1.3. Le garanzie del giusto processo davanti alla giurisdizione di sorveglianza: art. 111 Cost. e art. 6 CEDU. – L’incidenza del principio di rieducazione. – 1.4. Differenze con il processo di cognizione.

“Se è vero che anche la pena può dare frutto, ebbene il frutto è davvero maturo, è tempo di coglierlo altrimenti marcisce. Ma fuori non lo sanno, non tutti hanno la ventura di tenere corrispondenza con i condannati all’ergastolo. Se almeno gli scienziati inventassero uno psicoscopio, con il quale guardare dentro l’anima, e scoprire quando è che l’individuo si è “rieducato”… Ma lo psicoscopio non esiste”1.

1.1. La nascita della «giurisdizione rieducativa» con la sentenza n. 204/1974 della Corte Costituzionale.

Per affrontare il tema del procedimento di sorveglianza non possiamo esimerci da un breve excursus storico, né dal trascurare il particolare periodo in cui lo stesso è nato e si è evoluto.

Uno stato embrionale del sistema lo ritroviamo nell’Italia fascista del Codice Rocco (1930), affiancato dal codice di procedura penale (in particolare all’art 585) e, infine, dal Regolamento per gli Istituti di Prevenzione e di Pena dell’epoca. La distinzione fondamentale, rispetto all’attuale istituto, stava nell’essere incardinato in un ordinamento fondato su una concezione della pena in senso retributivo, che non ne ammetteva una visione in senso evolutivo, né tantomeno si preoccupava

1 E. FASSONE, Fine pena: ora, Palermo, 2015, p. 162.

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della rieducazione del reo, ma solamente di assicurarsi che fosse attuato strettamente quanto previsto dalla sentenza di condanna. Il risultato era un ordinamento a carattere più amministrativo che giuridico-giurisdizionale, come emergeva dalla stessa Relazione ministeriale al Re sul progetto al c.p.p..

Il giudice di sorveglianza aveva, infatti, il mero ruolo di vigilante sull’esecuzione delle pene, e svolgeva il suo incarico negli istituti dipendenti dal Ministero di Grazia e Giustizia e dal pretore per le carceri mandamentali. Le altre funzioni ad esso attribuite erano ispettive (come generale potere di controllo sulla corretta applicazione di leggi e regolamenti), deliberative (rispettivamente per un eventuale mutamento dello stato penitenziario dei detenuti o con una diretta statuizione dei diritti patrimoniali degli stessi) e consultive (che, pur essendo obbligatorie, non si consideravano vincolanti).

La stessa possibilità di mitigare la pena, attraverso la concessione di una misura di favore (quale ad esempio la liberazione condizionale, prevista dal c.p. all’art 176), era affidata a un’autorità amministrativa, il ministro della giustizia, come forma di pura benevolenza, anziché con una qualsivoglia accezione rieducativa2.

Al contrario, la dottrina aveva circoscritto ad una serie limitata di atti del giudice di sorveglianza una funzione giurisdizionale vera e propria, ed in particolare quelli legati alla scelta del legislatore di assegnare agli stessi il compito di applicare le misure di sicurezza sui diritti soggettivi degli internati, e, in seguito, anche di un controllo circa la loro esecuzione.

Questo stato dei fatti restò immutato anche a seguito della caduta del regime totalitario fascista e dell’emanazione della Costituzione, nonostante i numerosi richiami alla materia all’interno della stessa ed, in particolare, la rivoluzione dell’art 27.

A far propendere verso una giurisdizionalizzazione del sistema fu per la prima volta la Corte Costituzionale, che, con la pronuncia n. 204 del

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19743, dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art 176 c.p., rispetto all’art. 27, nella parte in cui prevedeva la competenza del ministro della giustizia nella concessione della liberazione condizionale. A fondamento della sua scelta la Consulta poneva la funzione rieducativa insita nell’istituto, che avrebbe potuto condurre più rapidamente e adeguatamente il soggetto recluso al recupero sociale. In questo modo si procedeva inoltre verso la realizzazione, o forse meglio dire l’avvicinamento, alla finalità prescritta dal terzo comma dell’art. 27 della Costituzione, giacché, come precisava la Corte, il recupero sociale del detenuto a seguito dell’espiazione della condanna doveva essere «il

fine ultimo e risolutivo della pena».

La Consulta ricollegava la finalità rieducativa, da un lato alla tutela dei diritti (come voluto dall’art. 24, co 1 e 2 Cost.4) e dall’altro alle ristrette prescrizioni in tema di limitazione della libertà personale, in particolar modo la sua subordinazione ad una riserva di giurisdizione (art. 13 Cost.). In una simile ottica il terzo comma dell’art. 27 Cost. acquisiva un ruolo fondamentale, capace di fondare la ratio dell’intero sistema e, infatti, nelle stesse parole della Corte, «rappresenta in sostanza, un

peculiare aspetto del trattamento penale e il suo ambito di applicazione presuppone un obbligo tassativo per il legislatore di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle».

La sentenza proseguiva prevedendo un vero e proprio diritto del condannato a un controllo giurisdizionale in fase di esecuzione della pena, in ottica di riesame, sull’utilità di prosecuzione ed eventuale modifica (in senso sia mitigativo che più restrittivo), giacché

3 C. cost., sent. 5 aprile 1974 n. 204, in Giur. cost., 1974, p. 779.

4 Art. 24, 1° co. . «Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi»; e 2° co. : «La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento». Si parla in questo senso di diritto alla tutela giurisdizionale del soggetto, che si estrinseca nell’azione in giudizio in difesa dei propri diritti. Poco senso avrebbe attribuire agli individui situazioni giuridiche soggettive attive e passive, senza al contempo permettergli di difenderli con idonei strumenti. Il principale è appunto la difesa, sia essa personale o tecnica, connesso al diritto di partecipare al giudizio per l’instaurazione del contraddittorio (art. 111 Cost.), e a quello di essere informato delle vicende processuali (art. 101 Cost.).

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«verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo».

Alla luce di un sistema così delineato, la prosecuzione dello status detentionis nei confronti di un soggetto per il quale si riscontri un effettivo progresso dal punto di vista rieducativo, tale da potergli consentire l’accesso a misure alternative alla carcerazione, sarebbe stata una violazione dell’art. 13 secondo comma Cost. Tuttavia quanto detto non basta, in quanto a ciò si deve aggiungere la frustrazione di un suo vero e proprio diritto soggettivo, nonché legittima aspettativa ad una modifica della pena, ormai tutelabile in via giurisdizionale (art. 24 comma 1 Cost.)5.

Sarà ragionando in questo senso che il legislatore, da lì a poco, avrebbe formulato la delega per una revisione in toto del sistema penitenziario. Lo stesso verrà fondato su un procedimento di sorveglianza visto non più come un istituto di mera vigilanza nell’esecuzione della pena, a carattere amministrativo, ma come un vero e proprio procedimento penale di fronte ad un «giudice naturale precostituito per legge» (art. 25 Cost.) esercente il suo potere in piena ottica giurisdizionale.

È così che nasce la «giurisdizione rieducativa»6.

Questa vuole andare nettamente contro corrente rispetto al sistema previgente, che aveva portato a uno stato dei fatti in cui: «le carceri

italiane rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta: noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono goccia a goccia le

5 v. A. MALINVERNI, Esecuzione della pena detentiva e diritti dell’individuo, in Ind.

pen., 1973, p. 17.

6 Definizione coniata da G. GIOSTRA, Il procedimento di sorveglianza nel sistema

processuale penale, Milano, 1983, p. 142; in più ampia accezione, invece, v. A.

PULVIRENTI, Dal “giusto processo” alla “giusta pena”, Torino, 2008, p. VIII, e in seguito p. 23 ss.

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nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice; noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli, e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti, o scuole di perfezionamento dei malfattori»7.

L’aspirazione verso un modello diverso passa attraverso una forma di trattamento carcerario a carattere personologico, calibrato sul soggetto. Ricorrente è l’immagine del sarto che cuce l’abito su misura al cliente, che, un anno dopo, sarà tradotta nell’art. 13 della legge sull’ordinamento penitenziario8, laddove si prevede che: «Il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto». Una visione che si fonda anche sulle caratteristiche fisico-psichiche dei soggetti reclusi, oltre che socio-culturali. La personalizzazione e individualizzazione del trattamento è massima e per questo si legge, nel secondo comma dello stesso art. 13, che: «Nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l’osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale. L’osservazione è compiuta all’inizio dell’esecuzione e proseguita nel corso di essa».

È questa l’idea del trattamento come di una cura, e del carcere che prende quasi l’aspetto di una clinica ospedaliera, all’interno della quale ciascun soggetto ha una propria «cartella» (termine prettamente medico)9. Proprio come in un qualsiasi trattamento diagnostico, all’interno del quale la condizione del paziente è costantemente monitorata per controllarne gli sviluppi, e poter di conseguenza intervenire in modo tempestivo, anche in questo «nuovo carcere» «il relativo programma, è integrato o modificato secondo le esigenze che si prospettano nel corso dell’esecuzione» (art. 13, 3°co. ord. penit.).

Il concetto di rieducazione, giacché molto generico, può essere concretizzato leggendo il terzo comma dell’art. 27 in combinato con

7 Intervento alla Camera dei Deputati dell’Onorevole Filippo Turati, 18 marzo 1904. 8 L. 26 luglio 1975, n. 354.

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altre disposizioni del testo costituzionale, e bilanciandolo con i diritti ivi contenuti.

Prima fra tutti vediamo la relazione con l’art. 3 comma 2 Cost., che configura il diritto di eguaglianza in senso sostanziale. Dalla relazione fra i due testi il processo rieducativo non può essere un mero tentativo eventuale, né una mera emenda morale, ma, inserendosi in un più ampio contesto, rientra fra quei compiti della Repubblica, a carattere risocializzativo, volti a rimuovere «gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese».

Per un’analisi esaustiva dell’operare della giustizia rieducativa dobbiamo considerare due aspetti: quello in positivo e quello in negativo.

Partendo dal primo, questa viene a configurarsi come una vera e propria pretesa dei detenuti nei confronti dell’amministrazione penitenziaria, che non potrà escludere nessun soggetto dal suddetto trattamento, neppure nel caso non lo ritenga rieducabile. A conferma, negli anni ’90, a seguito delle nuove legislazioni più restrittive, con l’introduzione dell’art. 41-bis e la relativa disciplina, si è ritenuto che neanche per i soggetti sottoposti a tale regime fosse possibile l’esclusione, o limitazione, dal percorso rieducativo. Ha in merito statuito la Consulta che l’art.: «non può comportare la soppressione delle attività di

osservazione e di trattamento individualizzato previste dall’art. 13 dell’ordinamento penitenziario, né la preclusione alla partecipazione del detenuto ad attività culturali, ricreative, sportive e di altro genere, volte alla realizzazione della personalità, previste dall’art. 27 dello stesso ordinamento, le quali semmai dovranno essere organizzate, per i detenuti soggetti a tale regime, con modalità idonee ad impedire quei

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contatti e quei collegamenti i cui rischi il provvedimento ministeriale tende ad evitare»10.

L’unica forma di discrezionalità che l’organo amministrativo mantiene concerne l’organizzazione dell’impianto e delle forme spendibili per il perseguimento dello scopo nei confronti del singolo, proprio per quei «particolari bisogni della personalità di ciascun [soggetto]» di cui sopra. Ha difatti più volte riconosciuto la Corte di Cassazione nelle sue pronunce che, il trattamento rieducativo, «costituisce, dal punto di vista

giuridico, un obbligo di fare per l’amministrazione penitenziaria, cui corrisponde un diritto del detenuto»11.

Appena quattro anni dopo, in una successiva sentenza, la Suprema Corte si è spinta ancora oltre, andando a configurare in maniera più specifica in cosa dovesse consistere tale obbligo organizzativo in capo all’organo amministrativo. Si legge quindi: «(…) obbligo di fare per

l’amministrazione penitenziaria che si sostanzia in una offerta di interventi, i quali, però, non sono dalla legge considerati atomisticamente, ma sono finalizzati, tramite l’osservazione scientifica della personalità del soggetto, alla predisposizione di un programma individualizzato di trattamento, i cui risultati devono essere periodicamente valutati per le varie esigenze previste dalla legge sull’ordinamento penitenziario»12.

Passando all’analisi in negativo, l’ideologia rieducativa viene ad essere delimitata sotto un duplice aspetto: quello degli obiettivi che vuole perseguire e del metodo con cui deve essere portata avanti13.

Riguardo ai primi, lo Stato non deve aspirare alla creazione di un modello d’indottrinamento, che, come il Grande Fratello orwelliano, imponga un pensiero comune, con un meccanismo di “lavaggio del cervello”, in quanto «la libertà e libertà di dire che due più due fa

10 V., Corte cost., sent. n. 376 del 1997.

11 Così, Cass. pen., Sez. I, 9 ottobre 1981 n. 1161, c.c. 1 luglio 1981, in CED Cass., rv. 150410.

12 Così, Cass. pen. Sez. I, 18 aprile 1985 n. 901, c.c. 29 marzo 1985, in Giust. pen., 1986, III, c. 333.

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quattro. Garantito ciò, tutto il resto ne consegue naturalmente»14. Al contrario, la libera formazione di un proprio convincimento da parte dei consociati, rispetto a ciò che possa definirsi o no eticamente giusto, è l’unica chiave di volta che possa consentire all’intero sistema di non essere efficiente soltanto nel breve termine, ma anche nel lungo, laddove ciò ridurrebbe notevolmente il tasso di recidiva. Imprescindibile è dunque il diritto alla «libertà di coscienza»15, definibile come «libertà di una scelta interiore, volta ad aderire a

quelle concezioni ideali che si ritengono individualmente preferibili»16.

È dunque necessario e imprescindibile che il percorso rieducativo si sviluppi con il consenso17 del destinatario, nel rispetto della sua libertà

morale e autodeterminazione. L’obiettivo della rieducazione sarà raggiungo non laddove il reo sia divenuto un «cittadino modello»,

«sulla base di un sentire comune, ma quando il medesimo abbia acquistato «la capacità di vivere nella società nel rispetto della legge penale»18.

Deve quindi essere affermato un generale diritto del detenuto, seppur nell’ipotesi di procedimento di sorveglianza a lui favorevole (quindi non avente ad oggetto la revoca di benefici), di rinunciare al medesimo, o ancora, il diritto di modificare l’oggetto del procedimento chiedendo una differente misura alternativa19. Contrariamente, il tribunale non può applicare una misura differente rispetto a quella contenuta nell’istanza

14 G. ORWELL, 1984, Londra, 1949.

15 M. RUTOLO, Diritti dei detenuti e costituzione, Torino, 2002, p. 118 ss.

16 P. DI MARZIO, La libertà di coscienza come diritto soggettivo, in R. BOTTA (a cura di), L’obiezione di coscienza tra tutela della libertà e disgregazione dello stato

democratico, Milano, 1991, p. 271.

17 Cfr. G. FIANDACA, Art. 27, in G. BRANCA e A. PIZZORUSSO (a cura di),

Commentario alla Costituzione, Bologna, 1991, p. 235.

18 Così, E. DOLCINI, La «rieducazione del condannato» tra mito e realtà, in V. GREVI, Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, Bologna, 1981, p. 58.

19 In questo senso, Cass. pen., sez I, 2 dicembre 1992, in Mass. Cass. pen., 1993 (3), 94: «Presentata dal condannato istanza per la concessione della detenzione

domiciliare, è rituale il giudizio che abbia avuto ad oggetto l’affidamento in prova al servizio sociale, qualora all’udienza dinnanzi al tribunale di sorveglianza il condannato stesso ne abbia fatto oralmente richiesta, così modificando l’originaria domanda, e il p.m. abbia accettato il contraddittorio sul punto».

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dell’interessato20, decidendo sulla stessa senza prima aver interpellato il p.m. e l’interessato21, eccezion fatta per il caso in cui, la diversa misura non «rientri in quella più ampia richiesta dal condannato»22.

Quindi in questo senso la legge penale non potrà rinvenire «una

sufficiente legittimazione in sé stessa, nella propria ipotetica rispondenza ad un imperativo di giustizia», al contrario, essa dovrà «essere finalizzato, e rigorosamente circoscritto, alla tutela di beni costituzionalmente rilevanti»23.

Guardando al metodo, non si deve commettere l’errore di equiparare la rieducazione al mero restringimento della libertà personale, con un ulteriore grado di sofferenza rispetto a quella già inflitta con la sentenza giudiziaria, finendo questo per diventare un sistema fin troppo simile a quello del carcere mamertino. La nuova ottica è più quella del

Panopticon24, con il carcere visto come luogo di redenzione per il condannato, che possa ivi crescere anche moralmente e spiritualmente, sostituendo alle abitudini criminali una disciplina meccanica e di austerità, ispirata all’esperienza monacale. Non volendo certo pretendere la realizzazione di questo modello più filosofico che attinente alla realtà, con la sentenza della Corte Costituzionale del 1974, e l’operato immediatamente successivo, del legislatore, si mette un punto fermo: una rieducazione attenta alle esigenze del singolo che, non potendosi trasformare in una mera limitazione della libertà di autodeterminarsi, non si converta in una serie di «forme coattive di

20 Sul concetto di interessato si veda E. AMODIO, Sub art. 127 in Commentario al

nuovo codice di procedura penale, a cura di E. AMODIO – O. DOMINIONI, vol. II,

Milano, 1989, p. 89 e nota 6, in cui, rispetto all’art. 127 c.p.p., il quale compie una distinzione tra le due categorie di «parti» e «interessati», per questi ultimi ci si riferisce a coloro che, seppur terzi, si trovano ad avere una posizione correlata rispetto allo specifico oggetto del procedimento.

21 Cass., Sez. I, 8 febbraio 1995, Fedeli, in Giur. Pen., 1996, III, 231: «La valutazione

sul genere di misura, la cui corretta applicazione è rimessa alla decisione del giudice, è conclusivamente riservata al condannato che, nella sua libertà di determinazione, avrà considerato quale, tra quelle previste dall’ordinamento penitenziario, è più cinfacente alla sua concreta situazione detentiva».

22 V. Cass., Sez. I, 31 maggio 1995, Liviotti, in Cass. pen., 1997, 104. 23 E. DOLCINI, op. cit. pp. 57-58.

24 J. BENTHAM, Panopticon, ovvero La casa d’ispezione, a cura di M. FOUCAULT e M. PERROT, Venezia, 1983.

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orientamento della personalità del reo»25, costituendo, in caso contrario, «trattamento contrario al senso di umanità», vietato dall’art. 27 Cost.

1.2. L’evoluzione legislativa e approdo nel codice di rito

La legge n. 108 del 1974, contenente la delega al Governo per l’emanazione del c.p.p., e con esso della materia penitenziaria, all’interno della direttiva n. 79 prevedeva la «giurisdizionalizzazione dei procedimenti concernenti la modificazione e l’esecuzione della pena e l’applicazione delle misure di sicurezza; garanzia del contraddittorio; effettivo giudizio sulla pericolosità; impugnabilità dei provvedimenti». Così, il 26 luglio del 1975 si ha la promulgazione della legge n. 354 sull’ordinamento penitenziario. Nel Capo II del Titolo II della stessa vengono istituiti il magistrato di sorveglianza (come organo monocratico), e la sezione di sorveglianza (organo collegiale) che tuttavia, al tempo, non presentava la struttura permanente dell’attuale tribunale ed era composta da due giudici onorari e da due magistrati di sorveglianza del distretto di Corte d’Appello sede della sezione (componenti togati), di cui, uno dei due, era lo stesso sotto la cui giurisdizione era posto il soggetto, condannato o internato, interessato al procedimento. Per quanto riguarda le funzioni, la sezione aveva competenze in materia di misure alternative alla detenzione.

Il nuovo sistema era regolato dall’originario art. 70 ord. penit., che, nei suoi nove commi, si occupava sia della parte statica che di quella dinamica della procedura. Tuttavia, esaurendosi in un’unica disposizione, il testo risultava incompleto, e parte della dottrina ha attribuito questo “vuoto” lasciato dal legislatore, come una sorta di voluta elasticità, nei confronti di un modello processuale del tutto nuovo, con la conseguente possibilità di lasciare alla giurisprudenza la

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facolttà di rintracciare, nei casi concreti, le giuste soluzioni ed andare così a colmare le lacune26.

Il maggiore limite della riforma risiede nella «giurisdizionalizzazione

indiscriminata»27, ovvero quella previsione per cui, in assenza di una vera e propria specializzazione di questa magistratura, «un giudice

qualsiasi, attraversi un procedimento giurisdizionale qualsiasi, potesse sempre costituire garanzia necessaria e sufficiente per intervenire su qualsiasi situazione sostanziale».

La riprova starebbe nella riforma all’originaria disciplina del procedimento di sorveglianza, avvenuta appena due anni dopo dall’emanazione della legge n. 354 del 1975, con la legge 12 gennaio 1977 n. 1, che, abrogandola interamente, la sostituiva con sei articoli (artt. 71-71 sexies ord. penit.) racchiusi all’interno di un nuovo capo, appositamente creato Capo II-bis del Titolo II. Nelle nuove modifiche il legislatore dimostrava di recepire alcune delle indicazioni della prassi delle aule di tribunale, della giurisprudenza di legittimità e finanche della dottrina. Inoltre, si riconosceva una nuova autonomia contabile delle sezioni, con l’assegnazione di fondi e attrezzature per il funzionamento dei singoli uffici, che faceva propendere per una loro netta separazione rispetto ai tribunali ordinari.

Tuttavia, è stato soprattutto negli anni ottanta, con la legge 16 ottobre 1986, n. 663 (detta Legge Gozzini), che si sono avute le più profonde modifiche dell’istituto del procedimento di sorveglianza, nonché il suo fondamentale inserimento all’interno del nuovo c.p.p., agli artt. 677-680, con un generale rinvio all’art. 666 c.p.p. ed al processo di esecuzione, divenendo così «strumento di sistematizzazione

dell’intervento giurisdizionale esecutivo»28.

26 Relativamente alla volontarietà della scelta legislativa per l’originaria disciplina del procedimento v. G. DI CHIARA, Il contraddittorio nei riti camerali, Milano, 1994, p. 109.

27 Cfr. G. GIOSTRA, Innovazioni sistematiche, adeguamenti normativi e limiti tecnici

nella disciplina del procedimento di sorveglianza, in L’ordinamento penitenziario dopo la riforma, (a cura di) GREVI, Padova, 1988, p. 376.

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In questo modo il legislatore da un lato si è assicurato l’eliminazione di eventuali lacune, potendo i magistrati ritrovare sempre nella disciplina generale le soluzioni per la risoluzione di qualsivoglia problematica, dall’altro ha rinunciato ad un perfezionamento del procedimento e quindi ad una sua maggiore caratterizzazione rispetto alle esigenze specifiche di un processo imperniato sulla valutazione personologica del soggetto e del suo stato di rieducazione.

Il nuovo testo caratterizzava la magistratura di sorveglianza come una magistratura specializzata, da qui il divieto di adibire i magistrati di sorveglianza ad altre funzioni giudiziarie, questo in ottica sia di una separazione dal resto del sistema con il risultato di una specializzazione effettiva dei singoli giudici, sia della possibilità per gli uffici di avere le risorse umane necessarie e adeguate al carico di lavoro. Nella stessa direzione di accentuazione dell’autonomia degli uffici di sorveglianza, rispetto alla Corte d’Appello e agli altri tribunali ordinari, è stato riformulato il testo dell’art. 68 comma 1 ord. penit. in cui è stata sostituita la denominazione “sezione di sorveglianza” con “tribunale di sorveglianza”.

In relazione allo stesso tribunale si sorveglianza il legislatore della riforma ha voluto ampliare di molto il suo ambito di competenza, facendovi riconfluire funzioni ulteriori rispetto a quelle precedentemente previste per le sezioni, e attribuendogli in tal modo un ruolo preponderante rispetto a quello del magistrato di sorveglianza, a confronto del quale si è ritenuto presentasse maggiore affidabilità29. Riguardo al singolo magistrato, gli ordini di servizio, emessi in precedenza, sono stati sostituiti, nelle materie di sua competenza, con provvedimenti quali ordinanza o decreto, a carattere tipicamente giurisdizionale. In questo modo si è definitivamente sciolto il nodo circa la natura di questa figura, che, secondo la previgente normativa, restava un ibrido, a cavallo tra organo giurisdizionale e organo dell’amministrazione penitenziaria.

29 Cfr. E. MISEROCCHI, in M. PAVARINI, Codice commentato dell’esecuzione

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Allo stesso tempo si era avuto un notevole ampliamento dell’ambito di applicazione del procedimento di sorveglianza, che, se prima era utilizzato esclusivamente per l’emanazione di provvedimenti fondati su una valutazione della personalità del soggetto interessato, per l’eventuale ricorso a misure alternativa, e sempre in ottica risocializzativa, a seguito della legge n. 1 del 1977 (che faceva riconfluire nella disciplina dell’art. 71 ord. penit. il ricovero per infermità psichica sopravvenuta del condannato) trovava nuova vita per tutti gli istituti caratteristici della fase esecutiva penale che avessero alla base una valutazione inerente alla persona del condannato o internato (relative a rieducazione, pericolosità sociale, condizioni di salute fisiche o psichiche ecc..).

Il passo successivo nell’evoluzione dell’istituto, è rappresentato dalla riforma del codice di procedura penale del 1988. Per quanto riguarda la materia penitenziaria, all’interno della legge delega, due erano le direttive che miravano ad orientare il legislatore, entrambe contenute all’interno dell’art. 2 della legge 16 febbraio 1987 n. 81: la direttiva n. 96, con cui si richiedevano «garanzie di giurisdizionalità nella fase

dell’esecuzione, con riferimento ai provvedimenti concernenti le pene e le misure di sicurezza», e la direttiva n. 98, che auspicava il «coordinamento con i principi della presente delega dei procedimenti di esecuzione e di sorveglianza anche attraverso la regolamentazione delle competenze degli organi»30. Tali formule, seppur risultavano più lascive rispetto a quella della direttiva n. 79 della legge del 197431, che prevedeva una vera e propria «giurisdizionalizzazione», a fronte di «garanzie di giurisdizionalità», mettevano in luce, per la prima volta la «fase dell’esecuzione». «L’esecuzione non [doveva] quindi [essere]

considerata come un «grado» del procedimento penale (né, ovviamente

30 v. L. 16 febbraio 1987, n. 8, Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale.

31 Considerando che la necessità, per il legislatore del 1987, non era la garanzia di una tutela giurisdizionale di base, con la creazione di un istituto ad hoc, come nel 1974, ma, prendendo atto dello stato dei fatti, cercare di estendere quelle tutele nei settori che ancora ne risultavano privi. In questo senso cfr. M. RUARO., op. cit-, p. 18.

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come uno «stato»), ma come una sua fase»32, e, di conseguenza, il procedimento di sorveglianza veniva ricompreso nell’alveo della giurisdizione penale (come confermato dal suo inserimento all’interno dell’art. 678 c.p.p.).

Tuttavia, la collocazione all’interno del codice ha portato con sé anche conseguenze negative in ordine alla possibile evoluzione dell’istituto, che è sostanzialmente rimasto in una fase di stallo, senza progredire nel senso di una maggiore specificità della sua fisionomia. Fin dagli anni ’30, restando le sedes materiae nettamente distinte (la procedurale da un lato e la penitenziaria dall’altro), dottrina e giurisprudenza avevano sempre potuto applicare analogicamente le norme generali, estrapolate dal codice (senza che questo comportasse interferenza alcuna di ordine sistematico fra le norme) per cercare di correggere le incongruenze del procedimento di sorveglianza, e poterle applicare alle particolari necessità di questo istituto.

L’auspicio era quello che il legislatore dell’88 tenesse conto di queste specificità, e cercasse di risolvere le maggiori questioni interpretative in relazione all’applicazione e ai possibili contrasti fra la normativa generale e il procedimento di sorveglianza. Questo non è avvenuto, tanto che non si trova tra gli artt 678, 666 e il resto del codice alcun tipo d’indicazione che possa indirizzarci in fase di risoluzione di contrasti, né tantomeno la giurisdizione rieducativa viene richiamata dalle norme generali33.

I due sistemi restano ancora due atolli separati, ma stavolta conviventi all’interno di un unico corpo normativo. Questo è lampante alla lettura dell’art. 61 c.p.p., che, laddove estende le garanzie dell’imputato alla persona sottoposta alle indagini preliminari, non si preoccupa di fare lo stesso anche per il soggetto interessato all’interno del procedimento di sorveglianza. Questa discrasia è stata parzialmente corretta dalla giurisprudenza di legittimità, laddove ha precisato la Corte, che «in fase

si esecuzione devono considerarsi estese al soggetto interessato, in

32 cit. F. CORBI, L’esecuzione del processo penale, Torino, 1992, p. 25. 33 In questo senso cfr. M. RUARO., op. cit., p. 22.

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quanto praticabili, tutte le garanzie previste per l’imputato nel procedimento di cognizione»34.

Tornando alla direttiva n. 98 della legge delega, vediamo come essa auspicasse il coordinamento fra i due procedimenti, di sorveglianza ed esecuzione, che non possiamo considerare essersi effettivamente realizzato nella traduzione ultima delle disposizioni codicistiche. Il blando richiamo dell’art. 678 al 666, optando quindi per una disciplina omogenea dei due, tradisce una lettura minimalista della direttiva stessa, che sembra trovare un sostegno nelle parole della Relazione al progetto preliminare del c.p.p., laddove prevedeva «un nuovo e definitivo assetto

nel nuovo codice di procedura penale al fine di unificare e semplificare i procedimenti di esecuzione e di sorveglianza riguardanti materie quanto meno analoghe se non addirittura identiche»35. L’idea stessa della possibilità di ravvisare materie identiche sembra essere assurda e irrealizzabile. Se, difatti, è vero che per entrambi i procedimenti il

thema decidendum richieda una serie di operazioni di calcolo

matematico al fine di stabilire pena irrogata o residua, per il resto la divergenza fra i sue è assoluta. Se da un lato il procedimento di esecuzione si fonda sulla risoluzione di questioni giuridiche relative all’efficacia del titolo esecutivo, o sull’accertamento di fatti che comportino la commissione di un reato da parte del soggetto imputato, il procedimento di sorveglianza ha come oggetto non il titolo (presunto valido ed efficace) bensì l’individuo, il soggetto interessato, e la valutazione da compiere riguarda la sua evoluzione personologica durante lo sconto della pena, in base alla quale, se del caso, mutare la misura stessa.

Una delle conseguenze di questa unificazione è proprio il tema di interesse di questo lavoro: la passibilità di applicazione del quarto comma dell’art. 666 al procedimento di sorveglianza, con l’esclusione per l’interessato del diritto alla partecipazione dal procedimento stesso nell’ipotesi in cui il soggetto sia detenuto o internato in un luogo posto

34 Cfr. Cass., sez. I, 2 febbraio 2006, Jemaa Hassine, in Cass. pen. 2007, p. 1197. 35 Cfr. la Relazione prog. prel. c.p.p., p. 139.

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fuori dalla circoscrizione del giudice, con la sola possibilità di una rogatoria interna e antecedente allo svolgimento del procedimento, garanzia che era rimasta immutata fin dal 1975 con l’art. 71 comma 1 ord. penit.

1.3. Procedimento di sorveglianza e diritti fondamentali: l’Art 111 Cost. e l’Art 6 CEDU.

L’art. 111 della Costituzione si apre con una statuizione fondamentale, che permea l’intero sistema processuale del nostro paese, ad ogni livello: l’attuazione della giurisdizione mediante il giusto processo regolato per legge.

Un fondamento di questo principio nasce nel 1787, con il Bill of Rights della Costituzione federale nordamericana nella formula «No person

shall be deprived of life, liberty or property without due process of law, nor shall any person be denied the equal protection of the law36». La necessità di inserire una simile statuizione all’interno della Carta fondamentale è dovuto all’esigenza primaria, specie per i costituenti che hanno appena vissuto il regime totalitario fascista, non solo di rendere esplicite le condizioni in base alle quali il processo potesse essere riconosciuto come giusto ed equo, ma di renderlo effettivamente tale, vincolando il legislatore futuro.

Questo si trova in linea con molteplici disposizioni anche di stampo internazionale. Muovendoci in ordine cronologico ritroviamo prima fra tutti la Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo, che prevede «diritto [per ogni individuo] ad un’effettiva possibilità di ricorso a tribunali competenti contro atti che violino i diritti fondamentali a lui riconosciuti dalla Costituzione o dalla legge», e ancora «ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad un’equa e pubblica

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udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, (...)»37. Adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a Parigi, il 10 dicembre del 1948, la Dichiarazione rappresenta la stella polare per tutti gli accordi internazionali, o atti interni, di simil contenuto, fondando la promozione e la protezione dei diritti umani. Per queste ragioni oggi ai diritti e alle libertà contenuti in questo Atto è stato assegnato valore giuridico autonomo nella comunità internazionale.

Sulla stessa linea si sono mossi anche gli stati europei, quando, due anni dopo, il 4 novembre del 1950, a Roma, hanno sottoscritto la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), successivamente ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge del 4 agosto 1955 n.848. Oggi questa carta lega tutti gli stati facenti parte del Consiglio d’Europa.

L’art. 6 della stessa al primo comma afferma che «ogni persona sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta».

La Corte EDU ha, nel tempo, ricostruito la ratio di siffatta disposizione, inquadrandola nella necessità, di una tutela «contro una giustizia

segreta, sottratta al controllo del pubblico»38, dal momento che la pubblicità è «il mezzo per realizzare la trasparenza dell’amministrazione della giustizia»39. L’istituto deve essere, a tal fine,

sostanzialmente garantito, attraverso delle udienze che si svolgano «in

un luogo facilmente accessibile, in un’aula capace di contenere un certo numero di spettatori, normalmente raggiungibile e riconoscibile attraverso adeguata informazione»40.

37 Cfr. Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, Parigi, 1948, artt. 8 e 10. 38 Corte Edu, 14 novembre 2000, Riepan c. Austria, n. 35115/97, in

https://hudoc.echr.coe.int

39 Corte Edu, 25 luglio 2000, Tierce e altri c. San Marino, n. 69700/01, in

https://hudoc.echr.coe.int

40 Corte Edu, 14 novembre 2000, Riepan c. Austria, n. 35115/97, in

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Altro aspetto rinvenuto dalla Corte sta nella salvaguardia della legittimità della decisione nei confronti dell’accusato, che, al fine di poter ricavare un’utilità dalla sanzione, dovrà potersi convincere del fatto che la stessa sia stata presa da un giudice che possa essere riconosciuto come terzo e imparziale41.

Nell’articolo 6 CEDU non solo ritroviamo riassunti la maggior parte dei principi relativi al processo espressi dalla nostra Costituzione, che risulta veramente essere un documento lungimirante e moderno, ma anche il «giusto processo» che, espressamente richiamato come «procès

équitable», viene descritto in ogni sua caratteristica, e riconosciuto

come un diritto dovente rivestire «una posizione preminente in una

società democratica»42. Ciò è particolarmente importante in quanto la CEDU, a differenza degli altri trattati internazionali, è l’unica dotata di un meccanismo giurisdizionale permanente, attivabile da qualunque soggetto di diritto pubblico o privato, che permette e garantisce un controllo effettivo sul rispetto dei diritti in essa contenuti. Quest’ultimo elemento si rivelerà fondamentale nel corso del presente lavoro proprio perché alcune sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo saranno delle utili guide per i giudici interni e per la dottrina al fine di dissipare taluni problemi interpretativi.

L’elemento del giusto processo diviene quindi centrale, e caratterizzante il diritto processuale per come visto dalla Corte Costituzionale, che riconosce, nell’utilizzare questa formula, un valore etico allo stesso, che deve trovare non solo un riscontro nelle parole del legislatore, ma una concretizzazione all’interno dell’ordinamento. Si deve, infatti, considerare “due” «non già qualunque processo che si limiti ad essere

estrinsecamente “fair” (vale a dire: corretto, leale o regolare sul piano formale, secondo la law of the land), bensì un processo che sia intrinsecamente equo e giusto, secondo i parametri etico-morali

41 Corte Edu, 25 luglio 2000, Tierce e altri c. San Marino, n. 69700/01, in

https://hudoc.echr.coe.int.

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accettati dal comune sentimento degli uomini liberi di qualsiasi epoca e paese»43.

Un passo avanti, lo si fa riconoscendo, all’interno della stessa disposizione dell’art. 111 Cost., un «giusto processo» generale, e un «giusto processo» penale, aventi garanzie non del tutto sovrapponibili. Per quanto riguarda il processo penale difatti, oltre alle generali tutele quali il giusto processo regolato dalla legge, il contraddittorio tra le parti in condizioni di parità, la terzietà e imparzialità del giudice, la ragionevole durata, l’obbligo di motivazione e la ricorribilità in Cassazione per violazione di legge contro i provvedimenti relativi alla libertà personale, si riscontrano ulteriori garanzie, più specifiche. La motivazione di fondo sta certamente nel bene in gioco, ed a rischio, all’interno del processo penale: la libertà personale. Difatti la reclusione, in quanto massima forma privazione e sanzione prevista dal nostro ordinamento, se irrogata, deve esserlo tramite un processo che abbia concesso al soggetto imputato, o condannato, il più ampio corollario di tutele e strumenti possibili all’interno del quale instaurare la propria difesa.

Non si può tuttavia prescindere dal considerare la Costituzione come un corpo unico, e, di conseguenza, leggere isolatamente le disposizioni in essa contenute. Focalizzando la nostra attenzione sul procedimento di sorveglianza, l’art. 111 è forzatamente soggetto ad una lettura in combinato disposto con l’art. 27, terzo comma della Carta. In generale, un collegamento fra i due principi è ben prospettabile: «da un lato, l’art.

27 comma 3 Cost. riconosce nella rieducazione una finalità del sistema sanzionatorio; dall’altro, esistono strumenti imprescindibili per attuare tale obiettivo (le misure alternative alla detenzione e, in generale, i benefici penitenziari), che incidono sulla libertà personale; dall’altro ancora, esiste un metodo (la giurisdizione, che si attua «mediante il giusto processo penale») che occorre seguire per attivare tali strumenti

43 L. P. COMOGLIO, Valori etici e le ideologie del «giusto processo», cit. in Rivista

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e realizzar così lo scopo prefissato»44. Muovendosi in un sistema così strutturato si dovrà sempre compiere un bilanciamento tale da non pregiudicare nessuno dei due principi a discapito dell’altro. In quanto, sebbene la finalità rieducativa non possa essere perseguita se non all’interno di limiti tracciati dall’ordinamento, e non possa essere fondata che su un controllo di tipo giurisdizionale, per accertarne l’idoneità (specie dei mezzi), occorre, dall’altro lato, evitare

«un’interpretazione massimalista dell’art. 111 Cost., che, nell’ossessivo perseguimento del metodo a prescindere dalla finalità, ritenga applicabile ogni singola prescrizione della norma alla giurisdizione rieducativa, senza alcuna operazione di “ottimizzazione” (…) »45.

Accettato il procedimento di sorveglianza come istituto rientrante fra quelli d’interesse dell’art. 111 Cost., resta da chiedersi quali parti della disposizione siano del tutto compatibili con la giurisdizione rieducativa. Se volessimo rimanere su un piano prettamente letterale, gli stessi commi 1 e 2 si riferiscono alla fase processuale, collocata in un momento sicuramente antecedente rispetto a quello qua considerato. Tuttavia questo singolo elemento lessicale non può dissuaderci dal considerare questi due principi riferibili ad ogni tipo di procedimento all’interno dell’ordinamento nazionale. Una conferma la ritroviamo nel testo del terzo comma dello stesso articolo, che, laddove prevede, nel processo penale, per la persona accusata di un reato, di essere nel più breve tempo possibile informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico, si riferisce inevitabilmente ad una fase antecedente a quella del processo vero e proprio: le indagini preliminari. In ultima analisi, a sostegno di tale tesi, ormai universalmente accettata, possiamo addurre la struttura del procedimento di sorveglianza, che è connotato da una fase di trattazione sostanzialmente equipollente, per natura, a quella di un processo.

44 M. RUARO, La (diversificata) compatibilità dei canoni del giusto processo con la

giurisdizione rieducativa, in Dir. pen. proc., 2005, p. 501-502.

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Se dunque non troviamo difficoltà ad applicare la parte generale dell’art. 111 Cost. al procedimento di sorveglianza, vediamo se lo stesso possa dirsi di quelle norme che si riferiscono specificamente al processo penale.

La non insuperabilità della questione relativa al «processo», è appena stata affrontata, e poco sarebbe di ostacolo anche il carattere penalistico, in quanto stessa natura ha il thema decidendum del procedimento di sorveglianza. Ciò ci è di impedimento sono i due specifici dettati dei commi 3 e 4, laddove si parla di «persona accusata di un reato» (3° co.) per quanto concerne il soggetto nei cui confronti debba essere svolta l’indagine, e di «colpevolezza dell’imputato» (4°co.), in relazione all’oggetto di accertamento. Queste espressioni alludono inconfutabilmente al processo penale di tipo cognitivo. Una tale scelta può essere giustificata dal riconoscimento delle specificità insite nei diversi procedimenti, che rischierebbero di essere frustrate dalla creazione di un unico modello standard, con la necessità quindi di

«modelli differenziati di procedure nei quali il tasso delle predette garanzie sia variabile in ragione dell’oggetto e della funzionalità dell’accertamento»46. In un mosaico simile, ogni singolo tassello riuscirà ad adempiere la finalità per la quale è stato inserito.

Cercando di compiere un ulteriore passo avanti, forzando anche un pochino la lettera della disposizione, focalizziamo l’attenzione su quegli elementi che caratterizzano il processo penale, tale da renderlo destinatario delle ulteriori garanzie. Se ne rinvengono due in particolare: la commissione di un reato e il pregiudizio particolare che il soggetto subisce una volta conclusosi il processo a suo carico, nel caso di sentenza a lui sfavorevole. Dovendo combinare questi elementi, assieme alle peculiarità del procedimento di sorveglianza e alle prescrizioni dell’art. 111 comma 3, l’apertura pare essere una soltanto. Se difatti la norma costituzionale non limita espressamente l’oggetto dell’accertamento alla commissione del reato, né incarna la

46A. SCALFATI, Procedimento di sorveglianza tipo e art. 111 Cost, in Giurisdizione

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conseguenza di questa verifica nella pena, allora possiamo pensare ad una applicazione degli stessi principi per quel che attiene il procedimento di sorveglianza allorquando questo abbia ad oggetto la revoca delle misure alternative (che ha peraltro, a monte, proprio l’accertamento di una condotta del soggetto beneficiato tale da non renderlo più idoneo a godere di tale possibilità).

Più complicata è la ricostruzione per il quarto comma, laddove la previsione espressa e inconfutabile della «colpevolezza dell’imputato», impedisce l’estensione del ragionamento di cui sopra. Tuttavia, sebbene risulti inapplicabile la seconda parte del predetto comma, possiamo sicuramente rinvenire nella prima, circa il «contraddittorio nella formazione della prova», un principio estendibile ad ogni tipologia di processo avente materia penale. Accettando questa ricostruzione, seppur prevalentemente teorica, anche il procedimento di sorveglianza nella ottica concessiva di misure alternative, rientrerebbe sicuramente all’interno della categoria47.

Un ultimo nodo da sciogliere, per quel che concerne i rapporti tra l’art. 111 Cost. e la giurisdizione di sorveglianza, sta nel secondo comma della disposizione, laddove si prevede, tra i requisiti fondamentali del processo penale, il «giudice terzo e imparziale». Il problema sta nella lettura della formula in combinato disposto con l’art. 678, 1° co., del codice di procedura penale, laddove si legge che nelle materie di propria competenza il tribunale e il magistrato di sorveglianza «procedono, a richiesta del pubblico ministero, dell’interessato, del difensore o di ufficio a norma dell’art. 666».

Come conciliare le due previsioni? Il principio generale dell’ordinamento italiano vuole che «ne procedat judex ex officio», in quanto la stessa richiesta di instaurazione del procedimento necessita di una valutazione preliminare circa la sussistenza della fattispecie di fondo, che facilmente si scontrerebbe con l’imparzialità sancita nella

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Carta fondamentale, trovandosi il giudice in una posizione tutt’altro che di “verginità” delle opinioni, come invece si auspicherebbe.

Sul punto le tesi si dividono.

Tra i sostenitori dell’assenza di conflitto tra le disposizioni, vi è chi giustifica questa eccezione alla disciplina generale con la particolarità insita e caratterizzante il procedimento di sorveglianza, come un rito in cui il carattere contenzioso assume confini più labili rispetto a quelli del comune processo di cognizione. L’attivabilità d’ufficio troverebbe il suo fondamento nell’interesse comune di tutte le parti a realizzare un comune percorso rieducativo per il reo, che possa essere non statico, bensì dinamico, in continua evoluzione rispetto alle esigenze del caso concreto, per garantirne un’efficacia finale48 (si pensi all’art. 1 ord. penit.). Pertanto, l’iniziativa ope judicis risponderebbe a una logica di

«partecipazione attiva alla verifica e al potenziamento del processo rieducativo»49. Questo, sia per quanto riguarda la concessione che la

revoca delle misure. In quest’ultima ipotesi, in particolare, la scelta dell’attivazione del procedimento è successiva a una valutazione sui presupposti di merito per la revoca, compiuta dal soggetto richiedente. In questo caso lo scontro fra le norme parrebbe insanabile. È questa la tesi di un secondo filone di studiosi, parte dei quali si spingono oltre, ritenendo l’incompatibilità estensibile anche ai casi di procedimento astrattamente favorevole al condannato. È difatti in entrambi i casi che la legge prevede la sussistenza di presupposti oggettivi e soggettivi, da accertarsi nel corso del procedimento stesso, e in base ai quali vi sarà l’accoglimento o meno delle richieste delle parti. Non si vede quindi il motivo per cui il contraddittorio non dovrebbe essere pieno, ma potenzialmente viziato da una preliminare idea già formatasi nella mente del giudice. Ribattendo ai sostenitori del meccanismo, si dice che

«la presunta convergenza d’interessi dei soggetti processuali verso un

48 Cfr. G. DI CHIARA, Il procedimento di sorveglianza, in P. CONSO (a cura di),

Manuale della esecuzione penitenziaria, Bologna, 2006, p. 229, e, ancora, G.

GIOSTRA, op. cit., p. 241. 49 G. GIOSTRA, op. cit., p. 241.

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medesimo obiettivo (la finalità rieducativa della pena) (…) è un dato che concerne il fine del procedimento di sorveglianza e non anche il mezzo attraverso cui deve essere accertata la corrispondenza tra l’aspettativa del condannato e il medesimo fine»50.

A maggior ragione si dovrebbe propendere verso un’incompatibilità nelle ipotesi in cui il magistrato di sorveglianza abbia esaminato la vicenda del soggetto interessato dal punto di vista del fumus boni juris e del periculum libertatis o detentionis, caratteristici di interventi di stampo cautelare non estranei alla materia in esame51.

Concludendo, si ritiene che la terzietà e imparzialità del giudice debbano essere dei requisiti del processo, in ogni sua forma, aventi carattere oggettivo, e non legati a diritti delle parti, quindi calibrabili a seconda che le richieste, e soprattutto l’interesse ad un giudice che non abbia pregiudizi di sorta in relazione alla materia del contendere, provengano dall’interessato o dal pubblico ministero.

In senso risolutorio, si è tentato in passato di porre la questione di legittimità alla Corte Costituzionale52, ed in particolare si è prospettata

l’incostituzionalità dell’art. 70 co. 6 della legge del ’75, laddove non prevede che il magistrato, che abbia provveduto al rinvio immediato dell’esecuzione della pena detentiva ai sensi dell’art. 684, secondo comma c.p.p., non possa partecipare al collegio emanante la decisione definitiva. La Corte ha tuttavia giudicato infondata la questione, dal momento che ritiene che un accoglimento in tal senso implicherebbe una valutazione sui «presupposti previsti dal legislatore (…) che

rimane incentrata sulla necessità (…) di un provvedimento idonei a evitare che [risulti] irrimediabilmente pregiudicata (…) l’efficacia in concreto della decisione di merito (…). La natura del provvedimento e i limiti della deliberazione (…) consentono di ritenere che esso non implichi quell’anticipazione del giudizio di merito che, incidendo

50 A. PULVIRENTI, op. cit., p. 226.

51 In tal senso, A. SCALFATI, Giurisdizione di sorveglianza e tutela dei diritti, Padova, 2004, p. 9.

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sull’imparzialità del giudice, è idonea a determinare l’incompatibilità a garanzia del giusto processo».

1.4. L’incidenza del principio di rieducazione.

Partendo dal presupposto che la pena è un elemento costante all’interno di ogni ordinamento, in tutti i periodi storici, che si caratterizza per la sua intrinseca “afflittività”, nonché per essere uno strumento irrinunciabile di controllo sociale, vediamo con quali finalità è stata utilizzata nel corso delle epoche.

Le concezioni che si sono alternate e susseguite nel corso del tempo sono tre: la teoria della retribuzione (c.d. assoluta), la teoria della prevenzione generale e la teoria della prevenzione speciale.

Per capire la funzione attuale della stessa, è necessario soffermarci brevemente sui singoli aspetti che hanno contraddistinto la pena nel corso della storia.

La teoria della retribuzione si fonda su premesse metagiuridiche, e trova in Kant uno dei suoi massimi sostenitori: «Anche quando la società

civile si dissolvesse col consenso di tutti i suoi membri, l’ultimo assassino che si trovasse ancora in prigione dovrebbe prima venire giustiziato, affinché ciascuno porti la pena della sua condotta e il sangue versato non ricada sul popolo che no ha reclamato quella punizione»53.

Alla base del pensiero sta l’idea della punizione del colpevole come imperativo categorico, giustificato non in un’utilità sociale esterna, quanto più nella stessa coscienza umana. La pena è absoluta, giacché sciolta da scopi ulteriori, ed ha come unico scopo quello di far conseguire ad un’azione negativa una conseguenza altrettanto afflittiva:

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«Al bene deve seguire bene e a male deve seguire male»54, in una sorte di legge del taglione.

Se consideriamo l’uomo responsabile delle situazioni, pare dunque giusto che egli sia punito di fronte ad un comportamento antisociale. La pena è dunque applicata “quia peccatum est”. I caratteri di questa sono essenzialmente quattro, e, considerando l’epoca, possiamo considerarle vere e proprie conquiste: 1) la pena diviene personale, e quindi applicabile soltanto all’autore del fatto; 2) deve essere determinata; 3) deve essere proporzionata al male commesso, e questo attraverso una previsione di legge; 4) è inderogabile, ovvero deve essere scontata e non ci si può sottrarsi.

La teoria della prevenzione generale compie un passo ulteriore, allontanandosi da quella visione filosofica legata alla coscienza umana, e prendendo coscienza del fatto che il disvalore legato al male commesso non potesse essere solo del singolo, considerato come una monade isolata, ma di tutta la società. Lo scopo cambia, e la pena acquisisce il fondamento utilitaristico di distogliere l’intero gruppo dei consociati dalla commissione di futuri crimini. «Chi cerca di punire

secondo ragione, non punisce a motivo del delitto trascorso — infatti non potrebbe certo ottenere che ciò che è stato fatto non sia avvenuto — ma in considerazione del futuro, affinché non commetta ingiustizia né quello stesso che viene punito, né altri che veda costui punito»55.

Il modello della “coazione psicologica” vede tra i suoi maggiori sostenitori Bentham e Feuerbach, e aspira ad avere come effetti da una parte quello, appunto, intimidatorio, e, dall’altro, un effetto di moralizzazione ed educazione. Si tenta perciò, attraverso la creazione di standards morali, di orientare la società, inducendo nel giusto anche il soggetto che in primo luogo sarebbe portato a rifiutare il precetto normativo.

La terza teoria è quella special preventiva, che trova la sua genesi con la Scuola Positiva, che, prendendo spunto dalle precedenti, torna si a

54 G. BETTIOL, Diritto penale, 12a ed., Padova, 1986, pp. 782, 800. 55 PLATONE, Protagora, 324.

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focalizzarsi sul singolo, ma non più in ottica puramente retributiva, bensì di soggezione di questo alla minaccia della punizione. La prevenzione qua si ha con la creazione di un complesso di misure rieducative e “risocializzatrici”, per impedire che il singolo consociato sia indotto o ricada nella commissione di un reato. Nella nuova ottica, in base alla quale si punisce “ne peccetur”, si guarda al futuro, affinché il soggetto non ricada nell’errore.

Partendo da questa concezione si comprende tuttavia come quel concetto di proporzionalità della pena, voluta dai sostenitori della teoria retributiva, non possa più essere intesa nel senso assoluto di una proporzionalità fra commissione conseguenza universalmente intesa. Per ogni soggetto, difatti, la suscettibilità di fronte all’irrogazione di una sanzione sarà differente, pertanto i parametri per stabilire la pena non potranno più essere il grado di colpevolezza e la gravità del reato, ma dovranno fare i conti con la personalità del singolo. Viene poi messo in crisi anche il principio di determinatezza, in quanto non sarà possibile determinare a priori quando la risocializzazione del reo sarà avvenuta, ma la misura dovrà essere modificata nel corso del tempo adattandola alle esigenze concrete, e sarà passibile di mutamenti sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, e questo in corso di espiazione. Si parla allora di prevenzione speciale post delictum, con finalità preventiva e dissuasiva rispetto a reati futuri, e di prevenzione speciale

ante delictum per evitare che il soggetto naturalmente portato verso la

commissione di un illecito, cada nella tentazione.

Nessuna di queste teorie può sfortunatamente dirsi bastevole a soddisfare tutti i bisogni insiti nel sistema, né, tantomeno, a risolverne le problematiche.

Per una corretta applicazione della prevenzione speciale, che peraltro meglio parrebbe atteggiarsi nei confronti dei principi di rieducazione della pena prescritti dalla maggior parte degli ordinamenti, sarebbe necessaria una sentenza iniziale che verta sulla mera colpevolezza del reo. La stessa dovrebbe lasciare una delega agli operatori del sistema

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