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Limiti del sistema: possiamo considerarlo equipollente alla presenza?

Questa possibilità di utilizzare il collegamento audiovisivo da una postazione remota, in luogo della presenza personale di fronte al “proprio giudice”, ha destato alcune perplessità a cui è difficile trovare una soluzione, sia dal punto di vista della difesa formale, che di quella materiale.

Iniziando con il primo dei due profili. Al quarto comma dell’art 146bis disp. att., si statuisce una facoltà, in capo al difensore, consistente nella personale decisione di partecipare al processo fisicamente, restando dunque lontano dal proprio assistito, oppure, intervenire dalla postazione remota, non sedendo di fronte all’autorità giudiziaria e alla controparte. «Al difensore si presenta una “scelta tragica”»306. Nel

306 In questi termini, C. CONTI, Partecipazione e presenza dell’imputato nel processo

penale: questione terminologica o interessi contrapposti da bilanciare?, in Dir. pen. proc., 2000, p. 76, in cui l’autore sottolinea la differenza, dal punto di vista

terminologico, che vi è tra la “presenza” e la “partecipazione”. La prima, dal latino

primo caso si potrebbe configurare una situazione di criticità rispetto al diritto all’assistenza dell’interessato, escludendosi il contatto diretto con quest’ultimo, che ridurrebbe le garanzie difensive del soggetto ancor più di quanto non avvenga nel caso di ascolto mediante rogatoria interna, in cui, a pena di nullità, il difensore deve sempre affiancare il suo cliente307.

Per quanto concerna la seconda ipotesi, invece, la mancanza di un controllo diretto sull’andamento processuale da parte dell’avvocato rischierebbe di avere risvolti negativi sullo svolgimento del contraddittorio in condizione di parità tra le parti, di fronte all’organo giudicante.

In ognuno dei due casi è indubbio come si ponesse il problema di una lacuna difensiva. Per cercare di trovare una soluzione, il legislatore, ha inserito la «figura anomala» del sostituto, che, nominato dallo stesso difensore, interviene nel luogo non prescelto dal legale «titolare»308,

piuttosto che propendere per una doppia difesa che avrebbe comportato per l’interessato costi ben più gravosi e, talvolta, insostenibili. Questa soluzione pone tuttavia gravi problemi in ottica difensiva laddove il difensore sia impossibilitato a prendere parte al procedimento, in una delle due postazioni. Difatti, nonostante l’art 420ter sia stato adeguato al procedimento di sorveglianza, la disposizione prevede che non si possa rinviare l’udienza nell’ipotesi in cui «il difensore impedito ha designato un sostituto». Seppur innegabile che una designazione vi sia stata, non si può certo ritenere che la stessa fosse atta a colmare l’assenza del difensore tout court, bensì a risolvere una particolare condizione di lacuna difensiva legata all’inserimento di nuovi strumenti

presenti al dibattimento se ci si trova “fisicamente” nell’aula dell’udienza». Al

contrario, il termine “partecipare”, dal latino partem capere (“prendere parte”), «ben

può essere inteso in senso figurato: un soggetto prende parte se interviene attivamente in un determinato contesto a tutela della sua posizione sostanziale».

307 Cfr. Cass, Sez. I, 15 aprile 1997, Balistreri, in Cass. pen., 1998, p. 860.

308 V. G. P. VOENA, Atti, in Compendio di procedura penale, Padova, 2010, p. 227; e, nello stesso senso, D. CURTOTTI NAPPI, op.cit., p. 182, in cui l’autrice sottolinea come l’«anomalia» risieda nella circostanza che, diversamente da quanto avviene in applicazione dell’art. 102 c.p.p., la nomina del sostituto non presuppone l’impedimento del difensore ma «è funzionale al rafforzamento dell’esercizio della

tecnologici. La svista da parte del legislatore, non avendo previsto, nel rivedere la disciplina, la possibilità di una simile empasse, ha portato ad una pronuncia da parte della Corte costituzionale, per la prospettata violazione dell’art. 24, comma 2 Cost., a causa della mancata precisione del rinvio dell’udienza per le particolari ipotesi di partecipazione tramite teleconferenza309.

Partendo da una ricostruzione innanzitutto normativa, si vede come con il d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 si sia introdotta una deroga alla disciplina generale sul gratuito patrocinio a spese dello Stato, che, in linea con gli artt. 24 e 3 della Costituzione, ha consentito la possibilità, anche per i meno abbienti, di provvedere alla designazione di un secondo difensore di fiducia, nonostante la nomina del sostituto da parte dell’avvocato310.

Il contatto tra detenuto e difensore, deve essere, a norma di legge assicurato da strumenti tecnici che garantiscano un colloquio riservato, in quanto «la partecipazione a distanza non deve limitare in alcun modo

la possibilità di un dialogo efficace e continuativo» tra i soggetti, che

sarà inevitabilmente dipendente dalla qualità degli strumenti elettronici in dotazione nelle strutture, che dovranno essere sottoposti a controlli di idoneità311. A queste difficoltà se ne aggiungono altre, quali, da un lato, la necessaria e ineliminabile presenza, assieme all’interessato, nella postazione remota, dell’ausiliario del giudice (posto al controllo sull’effettivo funzionamento delle modalità tecniche utilizzate, nonché

«a verificare che non siano posti impedimenti o limitazioni all’esercizio dei diritti e delle facoltà spettanti all’imputato»312) o dell’ufficiale di polizia giudiziaria, e dall’altro lato, la concreta difficoltà per il difensore si seguire e concentrarsi contemporaneamente sullo svolgimento dell’udienza e sulle informazioni che gli arrivano dal collegamento col proprio assistito.

309 L. KALB, op.cit., p. 90.

310 Cfr. P. SECHI, Il patrocinio dei non abbienti nei procedimenti penali, Milano, 2006, p. 70.

311 Cfr. D. CURTOTTI NAPPI, op. cit., p. 186-187. 312 V. Corte cost., 14 luglio 1999, n. 342

Il terzo comma dell’art. 146bis disp. att., richiamato nell’art 45bis, comma 3, disp. att., nel descrivere la videoconferenza, evidenzia come essa debba svolgersi «con modalità tali da assicurare la contestuale, effettiva e reciproca visibilità delle persone presenti in entrambi i luoghi e la possibilità di udire quanto vi viene detto», realizzando così quel

«realismo partecipativo», prescritto dalla Consulta313. Nella sentenza costituzionale, infatti, il giudice delle leggi ha dichiarato che, non solo non deve considerarsi la sola presenza fisica del luogo del processo da parte del detenuto idonea al realizzarsi del suo diritto di difesa, bensì,

«ciò che occorre, sul piano costituzionale, è che sia garantita l’effettiva partecipazione personale e consapevole dell’imputato al dibattimento, e dunque che i mezzi tecnici, nel caso della partecipazione a distanza, siano del tutto idonei a realizzare quella partecipazione». Dunque,

nonostante l’assenza fisica, il sistema non incontra censure sotto il profilo costituzionale, sotto il profilo difensivo, laddove siano offerti strumenti tecnici efficienti e quindi conformi al «sistema dei risultati», consistenti nella contestualità, reciprocità ed effettività. A far apparire fondata la questione di legittimità non è servito neanche il richiamo fatto ai principi contenuti nella CEDU, giacché, se al centro della questione poniamo l’effettività e le concrete possibilità sul piano difensivo, esse non sembrano potersi dire lese.

Dello stesso avviso sarà, qualche anno dopo, anche la Corte Edu314, sostenendo, nella valutazione dell’art. 146bis disp. att. alla luce dell’art. 6 CEDU, che la norma non potesse ritenersi illegittima, in quanto la partecipazione a distanza può ritenersi conforme al diritto di difesa, dal momento che la teleconferenza consente una visione e un ascolto reciproci, nonché di compiere dichiarazioni ed avere colloqui privati con il proprio difensore, direttamente dal luogo della reclusione. In più, precisa la Corte Europea, che questa modalità di audizione è strumentale anche alla realizzazione di altri principi sanciti da diritto

313 Cfr. Corte cost., 14 luglio 1999, n. 342.

dell’Unione Europea, quali l’ordine e la sicurezza pubblica, oltre alla ragionevole durata del procedimento.

Nonostante le citate pronunce da parte delle autorevoli corti, è permane una differenza ineliminabile tra una partecipazione fisica e una “a distanza”315, una buona parte della dottrina ritiene infatti che si possano tutt’ora porre dei dubbi di legittimità costituzionale, rispetto al diritto all’autodifesa, dell’art. 146bis disp. att., e, conseguentemente dell’art. 45bis. Di conseguenza molte sono state le critiche rispetto alla pronuncia n. 342 del 1999 della Consulta, per cui qualcuno ha ritenuto che la videoconferenza fosse inidonea a realizzare la concreta partecipazione in quanto «ci sono casi in cui un fine può essere

perseguito con un mezzo unico». Presenza e partecipazione

costituiscono «i termini di una endiadi», in quanto «due parole tra loro

complementari, la cui unione esprime un unico concetto»316. La

legislazione in esame, parrebbe essere ancora una volta il risultato di un punto d’incontro fra le esigenze difensive e quelle di carattere economico-organizzativo e di sicurezza, considerazione che ha portato ad un’aspra critica da parte di una parte della dottrina in considerazione, ancora una volta, che a giustificazione della compressione di un diritto costituzionalmente tutelato stessero esigenze di carattere eminentemente pratico317.

Nonostante non si possa negare la ragione delle istanze sollevate da tali studiosi, occorre guardare all’intero sistema, con una visione d’insieme. In questo senso anche la partecipazione a distanza potrebbe risultare la soluzione più praticabile, o meglio, “il male minore”, di fronte all’alternativa della rogatoria interna ex art. 666, quarto comma. Da domandarsi se l’ordinamento più che scegliere uno strumento che “limiti i danni”, non dovrebbe piuttosto concentrarsi nello sforzo di

315 Cfr. G. P. VOENA, op. cit., p. 222.

316 Per questo orientamento, v. C. CONTI, op. cit., p. 76 ss.

317 Sul punto si vedano, per tutti: M. BARGIS, op. cit., p. 168; e D. CURTOTTI NAPPI, op. cit., p. 376 ss.

reperire modalità di realizzazione della partecipazione e del contraddittorio, che tutelino principalmente il diritto all’autodifesa

CONCLUSIONI.

La presenza dell’imputato all’interno dei riti camerali ed, in particolare, all’interno di quello di sorveglianza, come visto nel presente lavoro, ha da sempre suscitato opinioni contrastanti in dottrina e giurisprudenza. Se da un lato è innegabile come l’ordinamento debba sopportare dei costi spesso elevanti, e finanche eccessivi all’interno delle molte procedure che lo costituiscono, dall’altro dobbiamo capire su cosa si è disposti a risparmiare, o, meglio, a discapito di cosa. Nel bilanciamento tra esigenze ordinamentali e quelle del giusto processo, espressamente previsto e tutelato non solamente nella nostra Carta costituzionale ma anche in numerosi trattati internazionali di cui l’Italia è firmataria, più chiara, anche da parte del legislatore, dovrebbe essere la linea di tendenza rispetto ai sacrifici. Se i bisogni, come quello di sicurezza legato alla pericolosità di un individuo, ben possono sembrare idonei a scardinare talune garanzie difensive, certo non dello stesso avviso si può laddove in gioco rientrino necessità ben lungi dall’essere contemplate tra i diritti costituzionalmente garantiti. Forse sarebbe più corretto pensare ad altre modalità per ridurre i costi, come rivedere i molti casi di rinvii delle udienze che spesso trascinano i processi per tempi interminabili.

Inoltre, se veramente ci auspichiamo che il nostro sistema penitenziario possa essere efficace ai fini della rieducazione dei detenuti, uno sforzo maggiore dovrebbe essere fatto per migliorare il trattamento, inteso nel suo più ampio significato. La rieducazione deve iniziare in strutture idonee a garantire una permanenza dignitosa ai soggetti ivi reclusi, che possano non soltanto partecipare ad attività istruttive o professionalmente formative, ma che lo facciano in un contesto dove sono guidate ma lasciate autonome nel loro agire, in modo che al più presto possano accedere a misure alternative effettivamente idonee a provare il loro stato di avanzamento verso il rientro nella società. Tuttavia, la concessione di dette misure da parte del Tribunale di sorveglianza dovrà fondarsi su esperienze dirette del soggetto, su un

confronto che possa convincere l’organo giudicante che il momento sia effettivamente quello “giusto”. Concederle tout court sarebbe deleterio per colui che, impreparato a fronteggiare la vita con un nuovo spirito, e nuove possibilità, nonché competenze, sviluppate in carcere, incorrerebbe nuovamente nella commissione di un reato; al contrario, negarla oltre misura e far passare un tempo eccessivo, comporterebbe l’innescarsi di un meccanismo di frustrazione intollerabile per il soggetto, capace di portare, nella peggiore delle ipotesi, a tentativi di suicidio.

Non possiamo pretendere che il cambiamento avvenga da solo, dobbiamo essere disposti a prenderci cura di questi soggetti se vogliamo vedere in loro stessi una metamorfosi.

Gandhi disse: “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”, il legislatore per quella penitenziaria più che per ogni altra materia di diritto dovrebbe ispirarsi a queste parole nella delineazione di un sistema che possa dirsi in linea con i diritti umani anche nell’ambito in cui, per eccellenza, questi sembrano negati: il carcere.

Se l’introduzione di strumenti tecnologici, avrebbero potuto, per alcune ipotesi particolari, come quella dei detenuti extracircondario, per i quali neanche la giurisprudenza era riuscita a ricondurre ad unità la moltitudine di indirizzi, risolvere l’empasse, portando ad un sistema non certamente “ideale”, ma costituente quanto meno “il male minore”, in attesa di una legislazione più garantista, ampliamento ad libitum cui si è assistito non può che lasciare l’amaro in bocca.

Come sempre quando s’introducono nuovi congegni o meccanismi in un sistema, questi dovrebbero essere gestiti con raziocinio e non arrivare ad abusarne, superando un sistema incardinato su principi che fondano il nostro ordinamento. Inaccettabile è, ancora una volta, e forse stavolta più delle altre, che elementi costituenti il giusto processo, una conquista che il nostro paese ha raggiunto nel corso degli anni anche a seguito di una riforma costituzionale, venga sacrificato e svilito per ragioni di carattere organizzativo e di “utilità” amministrativo-burocratica,

laddove finanche la Relazione al progetto del codice di rito del 1987 inquadrava quel termine in ottica eminentemente indirizzata al rispetto del diritto difensivo dell’interessato. “Utile” sarebbe dovuta essere la presenza del soggetto ai fini della decisione, quindi una necessità del contraddittorio che superava anche le esigenze di carattere economico- organizzativo, ma che superava anche quei rischi legati a ragioni di sicurezza (la fuga, il contatto con l’ambiente di appartenenza etc..). Le pronunce della Corte costituzionale sulle quali si legittima un intervento tanto estensivo, assieme all’avanzamento della qualità degli strumenti oggi in dotazione, che potrebbero meglio attuare quel

«realismo partecipativo», non possiamo essere sicuri che siano idonei

alla tenuta costituzionale del nuovo art. 146bis delle disposizioni attuative del c.p.p.

Se il vaglio di legittimità della Consulta si fondava su un bilanciamento con esigenze eminentemente di sicurezza (soggetti reclusi in regime di carcere duro o le due particolari ipotesi del comma 1, lett. a e b, dell’art 146bis), possiamo veramente essere sicuri che di fronte ad una nuova richiesta a pronunciarsi la Suprema Corte continuerà a sostenere la posizione del legislatore?

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