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Le Sezioni Unite: il fallimento dello sforzo verso un sistema omogeneo.

2.2. L’autodifesa nell’ambito del procedimento di sorveglianza: la rogatoria interna e i conseguenti dubbi di legittimità costituzionale.

2.2.3. Le Sezioni Unite: il fallimento dello sforzo verso un sistema omogeneo.

All’inizio degli anni novanta, il proliferare di diversi di orientamenti aumentava l’instabilità di un ordinamento già di per sé in crisi. A seguito delle stragi di mafia le carceri italiane hanno dovuto fare i conti con nuove “tipologie” di criminali, per i quali è stata istituita una disciplina ad hoc: il carcere duro ex 41-bis ord. penit.. Allo stesso tempo, il numero degli ospitanti gli istituti penitenziari è cresciuto a dismisura, con nuove problematiche circa la vivibilità. Siamo di fronte

177 In G. CONSO, op. cit., p. 128.

178 Per un approfondimento si veda A. DI GIOVANNI, Processo di sorveglianza e

relative garanzie tra disciplina, normativa e prassi, in Quad. CSM, 1987, n. 15, p.

ad un periodo legislativo fortemente repressivo, che risponde alle problematiche contingenti optando per un sostanziale irrigidimento. In un tale contesto devono essere inserite due sentenze delle Sezioni Unite della Cassazione, in materia di presenza dell’imputato richiedente al procedimento del riesame, così da farne risaltare ancora di più la lungimiranza.

Tra i molti indirizzi del tempo la corte propende verso quella costituzionalmente orientata, compiendo quel passo in più che la Consulta non aveva avuto il coraggio di fare, pochi anni prima.

Siamo nel marzo del 1995, e dovendosi pronunciare in merito al regime di nullità da applicarsi all’udienza camerale celebrata in assenza dell’interessato, in seguito alla mancata esecuzione dell’ordine di traduzione, nonostante ne avesse fatto richiesta, le Sezioni Unite fanno alcune interessanti riflessioni in ordine proprio all’importanza e alla natura del diretto intervento dell’interessato nel procedimento. Giunta difatti di fronte alla sesta sezione della Cassazione, si era rilevato come ci fosse un contrasto sostanziale fra la giurisprudenza delle sezioni semplici del tribunale, circa la materia della nullità e, specificamente nel tipo di nullità applicabile in tal caso, questione che sarà peraltro oggetto di un successivo paragrafo.

Riprendendo la sentenza n. 45 del 1991 della Corte costituzionale, le Sezioni Unite hanno ritenuto che questa avesse parificato la condizione dei detenuti, a prescindere dal luogo di detenzione, in quanto «il giudice

del riesame [anche in caso di soggetto recluso fuori dalla circoscrizione] è tenuto ad assicurare la presenza dell’interessato dinanzi a sé qualora questi ne faccia specifica richiesta»179, difatti, «la relativa omissione viene a porsi, sotto il profilo della patologia processuale, sullo stesso piano di quella che si verifica in caso di omessa traduzione del detenuto ristretto nell’ambito territoriale del giudice».

Prendere una posizione, nel senso di nullità assoluta o relativa, significava dare un significato ed un peso diverso all’instaurazione del

contraddittorio all’interno del procedimento. Nel primo senso si sarebbe stabilita un’imprescindibilità dell’intervento del singolo, di fronte alla richiesta; nell’altro, una sanabilità che, ad esempio nel caso di specie, laddove i difensori di Carlutti Carlo (sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere) non eccependo il vizio e portando avanti le proprie difese in assenza del loro assistito, avrebbe condotto ad una lesione del diritto all’autodifesa.

Scegliendo di dare un ruolo preminente al contraddittorio, in linea con l’art. 111 Cost., le Sezioni Unite hanno statuito che si dovesse «ritenere

che la citazione dell’imputato, dell’indagato o del condannato realizza un’unica fattispecie complessa, costituita dall’avviso, dalla dichiarazione di volontà dell’interessato detenuto di comparire e dalla sua successiva traduzione, atti tutti da guardarsi, per il rapporto di stretta conseguenzialità che li caratterizza, in una visione unitaria in funzione dello scopo loro proprio, la vocatio in iudicium per la valida instaurazione del contraddittorio». L’orientamento è stato giustificato

in riferimento alla sentenza n. 98 del 1982 della Corte costituzionale, nella cui declaratoria di illegittimità le Sezioni Unite hanno scelto di leggere «l’inderogabile necessità della presenza» del soggetto interessato, come unico requisito in grado di «assicurare la pienezza del

contraddittorio, la quale sola può consentire l’esercizio del diritto di difesa previsto dalla Carta fondamentale, anche nella forma dell’autodifesa, che non può esplicarsi se non con il rapporto diretto con il giudice dell’esecuzione».

L’interpretazione delle sentenze della Consulta è stata dunque eseguita in due passaggi: in un primo momento definendo come equiparabili, dal punto di vista del diritto all’intervento, le condizioni dei soggetti detenuti nei cui confronti penda un procedimento; più avanti, definendo la stessa presenza come l’unico elemento che, instaurando il contraddittorio, consente l’effettiva realizzazione del diritto difensivo. Quel che si ricava dall’argomentazione della Corte è che senza presenza

non vi sia una completa realizzazione del diritto fondamentale sancito dall’art. 24 Cost., in tutte le sue forme.

Queste riflessioni, e decisioni, sul procedimento di cui all’art 309 c.p.p., seppur di grande interesse dal punto di vista teorico e dottrinale, purtroppo non sono direttamente applicabili al resto dei procedimenti con cui condividono la natura camerale, in quanto limitata al proprio specifico oggetto180. L’auspicio è quello di un’estensione della ratio anche al procedimento di sorveglianza, con successive pronunce della più autorevole giurisprudenza che possano spingere il legislatore verso una modifica più costituzionalmente orientata della disciplina. Purtroppo ad oggi siamo ancora molto lontani.

Tre anni dopo, le Sezioni Unite sono nuovamente chiamate ad esprimersi, con la sentenza del 30 giugno 1998181, in materia di riesame di misure cautelari personali dell’indagato. È il caso di D’Abramo Michele, sottoposto alla custodia cautelare in carcere, in quanto soggetto indagato per il reato di cui all’art. 416-bis c.p.

La decisione verteva su sette differenti motivi d’impugnazione, proposti dal difensore dell’imputato, ma, per motivi di specifico interesse, tratteremo solo il primo. La suddetta ragione di ricorso era la richiesta di nullità dell’ordinanza di riesame poiché l’udienza camerale si era tenuta in assenza dell’indagato, il quale, trovandosi in stato detentivo, non aveva ricevuto, nell’avviso di celebrazione della stessa, notificatogli, nessuna informazione circa la possibilità di richiedere la traduzione al fine di parteciparvi. Circa questa doglianza le Sezioni Unite si sono espresse definendola «palesemente, priva di fondamento».

Tornando ancora sulla sentenza n. 45 del 1991, e partendo proprio da questa, la corte rinveniva un diritto a presenziare in capo all’interessato, laddove vi fosse stata da parte sua una formale richiesta (mancante nel caso di specie), come previsto dal combinato disposto degli artt. 309, comma ottavo e 127, terzo comma c.p.p. Sottolineavano però i giudici come la previsione di una specificazione in tal senso all’interno

180 Sul punto cfr. A. PUVIRENTI, op. cit., p. 252.

dell’avviso non fosse in alcun modo prevista dalla normativa , e, di conseguenza, come tale omissione non potesse andare a costituire ipotesi di nullità, in quanto non si aveva violazione del principio di tassatività rispetto al contenuto delle stesse informazioni, espressamente stabilito per gli atti del procedimento ex art. 177 c.p.p. Riguardo alla medesima situazione si era peraltro insinuato il dubbio di legittimità costituzionale, rispetto agli articoli 3 e 24 Cost., in quanto, non prevedendo l’ottavo comma nella norma procedurale l’obbligo di questa informazione, si sarebbe venuta a creare una disparità di trattamento tra «ignoranti e non ignoranti», per cui solo questi ultimi avrebbero avuto la possibilità di presentare quella richiesta che, sola, consente un loro accesso al diritto di traduzione. Secondo le Sezioni Unite tale questione non era di alcun pregio.

A giustificazione del proprio rifiuto, il giudice di ultimo grado portava il vecchio brocardo dell’«ignorantia legis non excusat». Se, infatti, ogni legge ha come requisito imprescindibile e sufficiente per la sua entrata in vigore la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (ex art. 73 comma terzo della Costituzione), ogni individuo è, per questo solo motivo, messo nelle condizioni di conoscere la normativa. Aggiungeva la Corte che

«l’inescusabilità dell’errore derivante da violazione degli obblighi di informazione giuridica (…) sono alla base di ogni convivenza civile»182. Per tali ragioni le Sezioni Unite hanno che essendo tutti i

cittadini posti, potenzialmente, nella medesima condizione, «lo stato di

ignoranza o di conoscenza da parte del singolo non è differenza di cui l’ordinamento debba farsi carico con l’onere di suppletive indicazioni».

La ragione per cui si è ritenuto opportuno presentare la sentenza di cui sopra, è per il presupposto da cui partono le Sezioni Unite: un vero e proprio diritto alla presenza. Su questo poi s’innesta la limitazione dell’impulso su richiesta dell’interessato, che, non solo dimostra il suo interesse al singolo procedimento che lo vede protagonista, ma anche una sua attiva partecipazione all’intero percorso processuale, in cui

182 Cosi decretato in Corte cost., 20 marzo 1975, n. 76; e Corte cost., 23 marzo 1988, n. 364.

l’individuo non può essere considerato un oggetto in balia della volontà altrui.

Ulteriore considerazione interessante viene fatta dalle Sezioni Unite in merito alla definizione di «detenzione», che può essere particolarmente importante laddove sorgessero dei dubbi, in applicazione della disciplina comune dei riti camerali, circa la «detenzione in luogo posto fuori della circoscrizione del giudice». Essendo il termine «luogo» particolarmente vago, appare evidente come lo stesso non possa essere fatto coincidere con quello di «carcere». Dunque detenuto non è solo colui che si trova recluso all’interno di un istituto penitenziario. Per «stato di detenzione», infatti, s’intende «la condizione materiale di

restrizione, per causa di pena, per applicazione di misure cautelari o per provvedimenti custodiali temporanei, in un istituto di custodia o di pena o in un luogo di cura esterno ad esso e, ove eccezionalmente consentita, negli uffici di polizia giudiziaria, nonché la condizione di internamento conseguente all’applicazione di misure di sicurezza, provvisorie o definitive, ma non lo stato della persona soggetta agli arresti domiciliari».

Nonostante la decisa posizione delle Sezioni Unite, la strada verso la risoluzione dei contrasti in giurisprudenza sembrava ancora lunga. Lascia perplessi che, malgrado l’autorevolezza delle sentenze, persistessero due diversi orientamenti in materia di comparizione del detenuto: da un lato coloro che riconoscevano un diritto alla comparizione, tanto da arrivare a negare la sussistenza in capo al giudice di un potere di valutazione circa l’istanza presentata dall’interessato, per cui nonostante il luogo detentivo in cui si trovi ristretto il soggetto, laddove questo «manifesti tempestivamente la

volontà di comparire nel giudizio camerale di riesame (…) ne deve essere disposta la traduzione ed assicurata la possibilità di presenziare all’udienza (…) a pena di nullità insanabile».183 Indubbiamente tale

183 In tal senso Cass., Sez. II, 16 dicembre 2002, Bello, in Cass. pen., 2003, p. 3129. Si deve inoltre aggiungere che, secondo la Corte, non è consentito neanche: «introdurre

indirizzo rappresentava, e rappresenta tutt’ora,, nel percorso evolutivo giurisprudenziale, uno dei massimi momenti di garantismo per l’interessato, che in alcune sentenze si declina fino ad arrivare a prevedere che non debba essere richiesta neppure la motivazione184. In senso contrario, un secondo orientamento che, seppur ammettesse ampie possibilità di presenza dell’interessato all’udienza 185 , presupponendo l’assenza di un diritto pieno e indiscutibile alla comparizione, riconosceva al giudice «la facoltà di disattendere

richieste di audizione formulate genericamente»186.

Si potrebbe, forse, interrogarsi sulle concrete possibilità, nel senso stretto di capacità, in talune, e neanche troppo residuali ipotesi, per alcuni detenuti, di realizzare atti contenenti una ricca ed articolata motivazione. Nell’eventualità di redazione dell’atto non assistita dal proprio difensore, questo potrebbe divenire una difficoltà oggettiva e insormontabile, non solo per gli stranieri, ma anche per coloro che si trovano in condizione di analfabetismo, o scarso livello d’istruzione (soggetti che purtroppo molto spesso si trovano in stato di detenzione).

dell’art. 309 c.p.p., nel senso che, nell’ipotesi di impugnazione presentata dal solo difensore (…) all’indagato sarebbe preclusa detta facoltà sicché ne potrebbe essere legittimamente inibita la partecipazione all’udienza. A prescindere, infatti, dalla considerazione che, come affermato dalla (…) sentenza costituzionale, sussiste sempre e comunque l’interesse dell’indagato a comparire personalmente per contrastare, se lo voglia, le risultanze probatorie a suo carico, l’interpretazione della disposizione predetta (…) non può essere restrittiva dovendosi l’espressione legislativa riferire alla parte istante nel suo complesso e dunque all’interessato ed ai suoi difensori che costituiscono un unico soggetto processuale al quale sono congiuntamente attribuiti diritti e facoltà». Analogamente Cass., Sez. VI, 1 aprile

1998, Caggia, in Cass. pen. 1999, p. 1551.

184 Cass., Sez. I,10 dicembre 2001, Schiavone, in Cass. pen., 2003, p. 2021, in cui si stabilisce che, in applicazione dei principi sanciti nella sentenza n. 45 del 1991 della Corte costituzionale, nonché di quelli generali dell’ordinamento italiano: «allorché si

tratti di procedimenti incidentali concernenti istanze di riesame, poiché la disposizione di cui al comma 6 dell’art. 309 c.p.p., prescrive che «chi ha proposto la richiesta ha, inoltre, facoltà di enunciare nuovi motivi davanti al giudice del riesame facendone dare atto verbale prima dell’inizio della discussione», (tant’è la domanda di riesame può essere del tutto immotivata), ove l’indagato (detenuto in luogo diverso) ne abbia fatto espressa richiesta, se ne deve ordinare la traduzione o l’audizione diretta a distanza per i fini di cui sopra (…) ».

185 Cfr. Cass., Sez. VI, 3 aprile 2003, Leontino, in Cass. pen., 2004, p. 3710, che risulta particolarmente garantista, specie nelle ipotesi in cui «sono prese in esame

questioni di fatto concernenti la condotta dell’interessato, ovvero quando costui voglia contestare le risultanze probatorie es indicare eventualmente circostanze a lui favorevoli».

La conseguenza è la privazione, in partenza, della possibilità di creare un atto che venga effettivamente accettato dal giudice a fondamento della richiesta di traduzione.

In linea con il secondo indirizzo della Corte di Cassazione, troviamo anche un’altra sentenza187, i cui presupposti consentono lo spunto per una più ampia riflessione sul nodo centrale della problematica del bilanciamento fra i due interessi in gioco, quello della difesa e quello delle esigenze processuali organizzative.

Nella sentenza richiamata, la Sezione quarta della Cassazione, si trova a doversi esprimere circa un ricorso con cui si chiedeva la nullità dell’udienza camerale, laddove l’interessato Chakhsi Lebdaoui, nonostante sua espressa richiesta, non era stato tradotto in aula, nulla potendo rilevare il suo conseguente rifiuto ad essere sentito dal magistrato di sorveglianza. Si noti che il rifiuto alla traduzione è stato determinato da un trasferimento del detenuto in un’altra struttura penitenziaria.

La Corte utilizza, come punto di partenza per la propria motivazione, proprio l’ambiguo sviluppo della recente giurisprudenza, che non ha trovato unificazione neppure a seguito delle pronunce delle Sezioni Unite. Per questa ragione la stessa decide, compiendo un inesorabile passo indietro dal punto di vista delle garanzie difensive, di fondare la propria decisione sulla massima del 1991 della Corte costituzionale, laddove, nonostante la previsione generale dell’art. 309, questo non

187 Cass., Sez. IV, 13 gennaio 2005, Chakhsi, in Dir. pen. e proc., 2005, p. 1130, in cui la Corte, ribadendo l’importanza del principio di ragionevole durata del processo, e, dunque prediligendo le necessità di speditezza e celerità del procedimento, nonostante affermi la sussistenza del «diritto della persona sottoposta a misura cautelare di

esporre le proprie ragioni», consente l’effettiva esplicazione dello stesso solo «qualora il giudice (…) abbia valutato utile tale presenza, non apparendo sufficiente all’espletamento di una difesa “completa” l’audizione da parte del magistrato di sorveglianza del luogo di detenzione». Si torna essenzialmente all’impostazione che

verteva sulla dicotomia tra l’accertamento delle questioni di mero diritto e, di fatto, con il potere discrezionale rilasciato al giudice. La possibilità di una traduzione è stata, infatti, vista dalla Suprema Corte come una deroga alla procedura ex art. 127 c.p.p., e, pertanto «deve derivare dalla tutela del diritto di difesa e non da un’imposizione

immotivata, e di conseguenza arbitraria, da parte dell’imputato o indagato». Tale

diritto persisterà soltanto a fronte della presentazione, da parte dell’individuo, di adeguate esigenze difensive tali da legittimare la sua richiesta d’intervento diretto.

escludesse in toto la comparizione dell’imputato, rimessa alla valutazione del giudice. Dunque, sull’assunto che «il rinvio dell’art 127

non consente interpretazioni alternative a quella che, nelle procedure camerali l’interessato, detenuto fuori dal circondario, se ne fa richiesta, è sentito dal magistrato di sorveglianza del luogo di detenzione», il

collegio respinge la richiesta di nullità. Concordare con tale affermazione comporta necessariamente “ingessare” il sistema, impedendone una qualsivoglia evoluzione. La possibilità, al contrario, di un’apertura, come emerso dalle sentenze della metà degli anni ’90 delle Sezioni Unite, fondandosi sulla consapevolezza che la diversificazione dei mezzi per l’esercizio dell’autodifesa possa essere effettivamente pregiudizievole per il detenuto188 permette una lettura della norma in senso costituzionalmente orientato189.

Prosegue la quarta Sezione, ritenendo che, «né tale valutazione può

essere insidiata dal valore costituzionale del contraddittorio, particolarmente rivalutato dall’art 111, 2 comma, Cost», giacché

questo è solo uno dei valori costituzionale cui deve ispirarsi il processo. Concorre, infatti con il diritto difensivo dell’art. 24, ma anche con quello della ragionevole durata, «che, in tema di misure coercitive, deve

essere ridotto al massimo», come si rinviene nella disciplina sui termini

per la decisione, la cui inosservanza comporta la nullità della misura applicata (art. 309, comma 10, c.p.p.). Tutti questi sono principi che il legislatore «ha ben dosati e conciliati fra loro», specialmente, parrebbe, attraverso la realizzazione dei vari meccanismi di audizione del soggetto. Pertanto, nonostante la soluzione “suggerita” dalla Consulta, il bilanciamento sembrerebbe propendere verso un’insussistenza del pieno diritto all’intervento da parte dell’interessato.

188 Cfr. K. LA REGINA, op. cit., p. 1137.

189 Per tale ragione, il Supremo Collegio ha reputato che la Corte costituzionale avesse

«ritenuto che rientrava nei poteri del giudice di merito disporre la partecipazione della persona sottoposta a misura coercitiva all’udienza camerale, e quindi la sua traduzione, per esprimere direttamente al collegio argomenti a lui favorevoli, nell’ipotesi che sia fatta richiesta di comparizione ed il tribunale l’abbia ritenuta opportuna ai fini di un esercizio assolutamente non limitabile della difesa». Questo,

come già sottolineato, laddove l’interessato presentasse esigenze difensive meritevoli. Così, Cass., Sez. IV, 13 gennaio 2005, Chakhsi, cit.

Criticabile sembra la conclusione, fondandosi semplicemente sul riscontro dell’esistenza di un conflitto tra interessi, e non, piuttosto, su un bilanciamento concreto delle esigenze del caso concreto190. Il giudice al momento della valutazione, non ha compiuto un esame sulla situazione del signor Chakhsi, e dunque motivando la necessità di rogatoria con l’inconvenienza generale, rispetto ai costi e rischi di traduzione, della sua presenza fisica in udienza. È questo il meccanismo che, alla luce non solo della normativa, ma anche delle sentenze della Corte costituzionale dovrebbe essere compiuto. Dove, altrimenti, possiamo rinvenire la valutazione circa la tanto rinomata «utilità»? Purtroppo il rischio iniziale, che si è drammaticamente tramutato in realtà, è che l’apprezzamento che il giudice avrebbe dovuto compiere, si trasformasse in un freddo automatismo per cui, una volta appurata l’estraneità rispetto alla circoscrizione del giudice, lo stesso predispone la rogatoria.

Il principio della ragionevole durata del processo dovrebbe essere indubbiamente una garanzia per l’imputato (a prescindere dal luogo di detenzione), affinché gli fosse assicurata «una decisione tempestiva

sull’istanza de libertate»191, ma non in senso assoluto, dovendo essere

«integrata con quella di l’effettività della difesa».

Di questo bilanciamento il legislatore ha indubbiamente tenuto conto, nel momento in cui, scrivendo l’art. 127, comma 4, ha previsto che, in caso di legittimo impedimento dell’imputato che abbia richiesto di essere sentito, l’udienza possa essere rinviata, con conseguente nuovo decorso dei termini per la decisione (ex art. 101, comma 1, disp. att. c.p.p.). Da sottolinearsi è tuttavia che questa previsione è concessa solo nel caso in cui l’interessato «non sia detenuto o internato in un luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice» (art 127, comma quarto, c.p.p.). Dunque, laddove il soggetto si trovi all’interno del circondario,