• Non ci sono risultati.

Gli orientamenti giurisprudenziali consolidati in Italia: l’evoluzione fino alla sentenza N 45/1991 della Corte

2.2. L’autodifesa nell’ambito del procedimento di sorveglianza: la rogatoria interna e i conseguenti dubbi di legittimità costituzionale.

2.2.1. Gli orientamenti giurisprudenziali consolidati in Italia: l’evoluzione fino alla sentenza N 45/1991 della Corte

Costituzionale.

Le numerose perplessità, specie dal punto di vista della legittimità costituzionale, che la legge ha fin da subito sollevato, hanno portato non solo a una serie di critiche da parte della dottrina, ma, soprattutto a interventi della Corte Costituzionale.

Tre sono le “pronunce chiavi”, con le quali la Consulta ha nel tempo delineato i principi e, talvolta, censurato disposizioni, imponendo al legislatore un cambio di rotta. Il maggior dubbio consisteva nel fatto che fossero ragioni pratiche, quali i presunti pericoli in stato di detenzione, o legate a motivazioni economiche (costi della traduzione), a limitare la piena esplicazione del diritto difensivo del soggetto in

vinculis. Il bilanciamento tra i vari principi e bisogni appariva, se pur

delicato, decisamente a favore delle esigenze amministrative. Cerchiamo tuttavia di procedere con ordine nella ricostruzione.

Uno dei primi interventi-chiave in tal senso della Consulta, risale al 1970140. Con la sentenza numero 5 dello stesso anno, la Corte è chiamata a esprimersi, all’interno del procedimento per incidente di esecuzione sollevato da Zanetto Giuseppe, sulla legittimità dell’art. 630, secondo comma, c.p.p., rispetto agli artt. 3, comma primo, e 24, comma secondo, della Costituzione.

Ciò che si riteneva non essere in linea con le disposizioni della carta fondamentale, era la previsione per cui, laddove il soggetto fosse detenuto in luogo diverso rispetto a quello del giudice dell’incidente di esecuzione, si vedeva sacrificare del tutto il proprio diritto alla partecipazione all’intero del procedimento stesso, con l’unica contropartita di un’audizione davanti al giudice di sorveglianza o al pretore del luogo della reclusione («[gli interessati] sono previamente uditi a loro domanda dal giudice di sorveglianza o dal pretore del luogo

[di detenzione] all’uopo delegato»). Il contrasto sorgeva anche in relazione alla disciplina generale applicabile agli interessati non detenuti, o detenuti nel luogo del giudice, che, se comparivano, «sono uditi personalmente (…) in camera di consiglio».

La questione di legittimità viene sollevata con ordinanza di rinvio141, proprio a seguito della richiesta del detenuto di poter prendere parte all’udienza dell’incidente di esecuzione, prevista nel tribunale di Milano, nel cui circondario peraltro lo stesso ha trascorso un lungo periodo di detenzione, prima di un trasferimento a Genova. In particolare, con riferimento all’art. 3, 1° co., Cost., si sottolinea la disparità di trattamento a cui sono sottoposti i detenuti; in relazione all’art. 24, 2° co., invece, per la lesione del diritto di difesa del detenuto, privato della possibilità di essere sentito dal giudice che di lui dovrà giudicare, a cui non possono essere equiparati, né il magistrato di sorveglianza, né, tantomeno, il pretore del luogo in cui egli si trova. A maggior ragione appare iniqua la disciplina, se si considera che il solo criterio distintivo è il locus detentionis, peraltro del tutto estraneo e sfuggente dalla volontà degli stessi interessati, condizione che non richiesta nel processo cognitivo, laddove all’imputato, sebbene detenuto, viene data la possibilità la possibilità di presentarsi di fronte al proprio giudice naturale per rendere dichiarazioni.

In passato la Consulta si era già espressa in materia di difesa nel procedimento incidentale, ma solo riguardo al particolare aspetto della difesa tecnica142. In tale occasione, tuttavia, la Corte, aveva ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art 630, 1° co., Cost., rispetto al diritto di difesa ex art. 24 Cost., secondo comma, nella parte in cui, in caso di procedura incidentale di esecuzione, si limitava l’obbligatorietà dell’assistenza tecnica ai soli casi di gratuito

141 Pret. Camposanpietro, 27 maggio 1968, in Giur. cost.1968, p. 1847.

142 Corte cost., sent. 27 marzo 1962, n. 29, in Giur. cost., 1962, p. 225, con nota di G. GIANZI, Particolari aspetti del diritto di difesa giudiziaria e del principio di

patrocinio143. Con un’inversione di tendenza, appena sei anni dopo, con la sentenza del 29 maggio 1968, n. 53144, il giudice delle leggi definiva la natura «obbligatoria» dell’assistenza tecnica ai fini della corretta esplicazione del diritto di difesa, ribadendo, nel 1970, l’illegittimità costituzionale dell’art 630, comma primo, c.p.p.: «nella parte in cui non

prevede che all’interessato nel procedimento per incidenti d’esecuzione, anche se non ammesso al gratuito patrocinio, sia nominato d’ufficio un difensore, ove egli non provveda a nominarne uno di fiducia»145, nonché «nella parte in cui non prevede che l’avviso

del giorno della deliberazione dell’incidente vada notificato anche al difensore dell’interessato».

La richiesta che ha condotto alla sentenza 5/1970, si focalizzava al contrario, su un aspetto dell’autodifesa dell’interessato all’interno di questo tipo di procedimento: la sua partecipazione.

A cercare di mitigare la critica visione del Pretore di Camposanpiero, si è costituita in giudizio l’Avvocatura generale dello Stato, sostenendo l’assenza di una violazione del diritto di difesa, poiché, comunicato obbligatoriamente al detenuto il giorno per la decisione dell’incidente, a costui, anche se impossibilitato a presentarsi ex art. 630, primo comma, era concessa la possibilità di presentare memorie, farsi udire personalmente o a mezzo di difensore, del quale poteva munirsi.

Analizziamo adesso le ragioni e il percorso argomentativo che essa ha sviluppato, e che ha condotto ad una pronuncia di infondatezza, e nei riguardi dell’art. 3, e in quelli dell’art. 24 Cost.

Partendo dai dubbi su quest’ultimo, pareva evidente come la Consulta

«si sia sforzata con vari accorgimento dialettici, di minimizzare il limite derivante dall’art. 630 comma 2 c.p.p. al diritto di difesa dell’interessato detenuto in altro luogo rispetto alla sede del giudice

143 Sul punto v. anche, M. PISANI, Ricchi e poveri di fronte al processo e di fronte

alla pena (appunti in margine ad una sentenza della Corte Costituzionale), in Riv. it. dir. e proc. pen., 1962, pp. 569 ss.

144 Corte cost., 29 maggio 1963, n. 53, in Giur. cost., 1968, pp. 802 ss. 145 Corte cost., 6 maggio 1970, n. 69, in Giur. cost. Suppl., 1970, I, p. 290.

dell’esecuzione»146. Difatti, il giudice delle leggi, ha ritenuto che

«questa così vasta possibilità di difese orali e scritte [subisca] una appena apprezzabile variazione» in senso negativo, per il solo fatto che

il soggetto non possa presentarsi in udienza. All’interessato, sottolineava la Corte, veniva riconosciuta la possibilità di utilizzare ogni altro mezzo che gli fosse utile e, pertanto «le sue possibilità di difesa [rimanevano] quindi integre».

Da ultimo il ragionamento, in senso giustificativo dell’art 630 c.p.p., si spostava sulla ratio dell’incidente di esecuzione, che, a differenza del processo cognitivo, non prevedeva la presenza dell’interessato come di un soggetto fondamentale al fine dell’acquisizione di elementi probatori, e dunque convocato dal giudice per aumentare il numero degli elementi su cui si fonderà il suo convincimento. In questo procedimento, l’intervento del soggetto, non era servente all’ordinamento, bensì «rappresenta[va] soltanto un mezzo di difesa a

lui offerto, congiunto ai vari altri mezzi di difesa orali e scritti a lui spettanti» e pareva dunque essere una sorta di benevola concessione che

la legge faceva al condannato, e, pertanto, che poteva allo stesso sottrarre. Conseguentemente l’alternativa forma di audizione di fronte al magistrato di sorveglianza o al pretore, se delegato dal giudice, non avrebbe scalfito il diritto di difesa, risultando giuridicamente poco significativa.

In realtà è stato proprio questo passaggio a far “scricchiolare” il ragionamento della Consulta, che, riconoscendo la funzione eminentemente difensiva147 dell’audizione dell’interessato ex art. 630, secondo comma, c.p.p., non era chiaro come potesse la stessa non consistere in un elemento fondamentale della prerogativa difensiva. Non considerava per dipiù la Corte, la lesione dei principi d’immediatezza e oralità148, imprescindibili per una corretta formazione

146 V. V. GREVI, Incidenti di esecuzione e autodifesa del detenuto, in Giur. cost. 1970, I, p. 49.

147 Cfr. G. GIANZI, L’incidente nella esecuzione penale, Napoli, 1965, p.169 ss. 148 Sul punto v. V. GREVI, op. cit., p. 52.

del convincimento dell’organo giudicante, che richiedevano «il costante

contatto immediato del giudice con tutti gli elementi utili per la decisione»149. Difatti, nonostante la dottrina riferisse tale principio prevalentemente alla fase del dibattimento, appariva evidente come il procedimento degli incidenti di esecuzione presentasse «caratteristiche

molto più prossime al giudizio che all’istruzione» 150 specie

considerando che «il rapporto processuale controverso che forma

oggetto dell’incidente viene definito dal provvedimento che chiude l’incidente stesso», ragion per cui venne decretata «l’immutabilità del giudice», come espressione dell’immediatezza.

Tuttavia, nonostante le critiche della dottrina, questa sentenza era incardinata in un consolidato indirizzo della Corte costituzionale, in base al quale, il diritto di difesa avrebbe dovuto modellarsi e articolarsi, adattandosi alle «speciali caratteristiche della struttura dei singoli

procedimenti»151. Solo in una tale ottica che il diritto di difesa non doveva considerarsi leso, per le specificità del procedimento incidentale d’esecuzione152. In questo senso propendeva l’Avvocatura generale

dello Stato, sostenendo che «la quesitone da risolvere [fosse] già

cristallizzata e le posizioni delle parti (…) chiaramente delineate e reciprocamente conosciute». Questo non si poteva considerare vero, dal

momento che in molte occasioni la sola fissazione dei punti in diritto, circa le richieste delle parti, non era soddisfacente ai fini della decisione in sede di udienza camerale, mentre determinante diveniva la risoluzione e determinazione di questioni di fatto, da farsi da parte dello stesso giudice. Nella stessa sentenza ci cercava di accogliere tale orientamento, facendo leva sul «carattere del procedimento», che si definiva come «ristretto a questioni ordinariamente di solo diritto, ben

149 Cfr. G. BELLAVISTA, Lezioni di dir. proc. pen., 3a ed., Milano, 1965, p. 294. 150 Cass., 14 settembre 1951, Morra, in Giust. pen. 1952, III, p. 272 ss., con nota adesiva di GIUS. SABATINI.

151 Corte cost., 18 marzo 1957, n. 46 in Giur. cost. 1957, p. 587, a cui ne sono seguite molte altre (v. Id. 22 giugno 1963, n. 108, ivi 1963; Id., 23 dicembre 1963, n. 170, ivi 1963, p. 1686; Id. 23 maro 1964, n. 25, ivi 1964, p. 223).

152 In questo senso cfr. Corte cost. 27 marzo 1962, n. 29, cit., nella quale la Consulta ha ritenuto il diritto di difesa dell’interessato (ex art. 630 c.p.p.).

circoscritte e determinate», forzandone la stessa natura, a

giustificazione della scelta d’infondatezza della questione di legittimità153. Infine, per confermare l’inidoneità delle «specifiche caratteristiche» del procedimento, a fungere da scriminante, la dottrina del tempo sottolineò come in realtà il meccanismo in esame fosse assolutamente compatibile con l’intervento diretto del soggetto interessato, e a conferma di questo lo stesso art. 630 ne prevede la possibilità, come regola generale, cui il comma 2, nell’ipotesi del detenuto recluso fuori dalla circoscrizione del giudice, è solo un’eccezione.

Per cercare di comprendere le ragioni a fondamento della sentenza e della sua mancata censura verso una simile discriminazione, ma anche una sorte di schizofrenia della medesima Corte, che dieci anni prima, aveva sancito che il diritto di difesa dovesse «trovare attuazione uguale

per tutti indipendentemente da ogni differenza di condizioni personali e sociali»154, occorre dunque passare a una lettura in combinato disposto

degli artt. 3 e 24, comma 2, Cost.

La sostanziale differenza che si veniva a creare fra gli stessi detenuti, sulla base del locus detentionis, è stata minimizzata dalla Corte, che ritenuto «appena ravvisabile» la differenza tra la comparizione in udienza e l’audizione antecedente “per rogatoria”. Per compiere il giudizio in relazione all’art. 3, il giudice delle leggi ha difatti usato uno schema ormai standardizzato per le questioni aventi ad oggetto il principio di uguaglianza. Ed invero, come aveva stabilito la stesa nel 1968155 , lo stesso art 3 «postula non solo che a situazioni

oggettivamente eguali debba corrispondere un eguale trattamento, ma anche che a situazioni oggettivamente diverse debba corrispondere un trattamento differenziato», precisando in seguito che «accertare l’eguaglianza o la diversità delle situazioni, ai fini del trattamento da applicare, è compito del legislatore, il quale vi provvede nell’esercizio

153 In questo senso, V. GREVI, op. cit., p. 54.

154 Corte cost., 29 novembre 1960, n. 67, in Giur. cost. 1960, p. 1195. 155 Corte cost., 16 luglio 1968, n. 104, in Giur. cost., 1968, p. 1648.

di una discrezionalità che trova limite soltanto nella ragionevolezza delle situazioni». Quindi la riflessione della Consulta circa la non

irragionevolezza della disposizione del secondo comma dell’art 630 c.p.p., verteva sulla considerazione che le condizioni pratiche e concrete dei soggetti detenuti in luoghi diversi fosse, non solo diversa in sé e per sé, ma comportava sforzi diversi da parte dello Stato, per l’annosa questione del trasporto nella sede di celebrazione dell’udienza, difficoltà che è stata giudicata eccessiva rispetto all’«irrilevanza che il beneficio

di essere ascoltato di persona dal giudice competente a decidere rappresenta per il detenuto». Con il termine «irrilevanza» la Corte

finiva per smentire quanto detto nel corso della sentenza, e circa la natura di strumento difensivo dell’intervento, e, a maggior ragione, laddove riconosce «un qualche rilievo» alla differenza tra le due modalità di audizione.

L’aspetto che più è stato criticato, e guardato con perplessità, da parte di un’autorevole dottrina è stato il bilanciamento fatto in questa circostanza dal iudice delle leggi, che ha fatto prevalere esigenze di carattere prettamente organizzativo, priva di un qualunque rilievo costituzionale, rispetto ad altre, quali il diritto alla difesa, espressamente protette all’interno della Carta, e di molti trattati internazionali cui l’Italia ha aderito156.

Quindi nonostante non si mettesse in dubbio che il trasferimento di un detenuto potesse realmente comportare delle complicazioni, nonché il rischio di un prolungamento delle tempistiche processuali, non si riteneva possibile che questo venisse addotto come giustificazione, in termini di «razionalità», della diversità di trattamento dei soggetti in base allo status di detenuto, e ancor meno, a seconda della sede dell’istituto penitenziario. Tale conclusione infatti ben sarebbe stata

156 Cfr. V. GREVI, op. cit., p. 57. In merito alla distinzione da farsi fra la necessità del

«retto svolgimento dei giudizi» e le «esigenze pratiche di funzionamento degli organi giudiziari», facendo prevalere quest’ultimo elemento sulla precedente, v. in

giurisprudenza Corte cost., 3 luglio 1962 n. 88, in Giur. cost., 1962, p. 959; per la dottrina G. CONSO, Limiti inerenti al principio delle certezza del giudice e rimessione

del procedimento per legittimo sospetto o gravi motivi di ordine pubblico, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1963, p. 46 ss.

accettabile nel caso in cui questo elemento di «razionalità» avesse portato ad un livellamento delle condizioni, con una negazione per chiunque del diritto alla partecipazione, cosa che non era così.

Il rigetto della questione di legittimità, fortificò la convinzione della correttezza della disciplina, e del meccanismo della rogatoria interna come di uno strumento che, non lesivo del diritto alla difesa, potesse al contrario divenire prezioso per la raccolta delle dichiarazioni di quanti non potevano partecipare alle udienze. La conseguenza fu la trasposizione all’interno del nuovo codice di procedura penale, ed, in particolare, negli articoli regolanti i vari riti camerali, fra i quali, appunto, il procedimento di sorveglianza.

Una scelta forse più oculata, avrebbe spinto il legislatore, nel senso di una distinzione differente all’interno della disciplina, che, prescindendo dal locus detentionis, al contrario si fondasse su quell’elemento individuato dalla Consulta, nella sentenza appena esaminata, e tale da rendere effettivamente «irrilevante» il beneficio della presenza: il giudizio «ristretto a questioni ordinariamente di solo diritto, ben

circoscritte e determinate»157. Questo tipo di circostanze, come sopra

visto, consentono di mantenere un alto grado difensivo, anche in assenza dell’interessato, laddove, facendosi rappresentare da un difensore, quest’ultimo è perfettamente in grado di porre in essere tutti gli strumenti necessari per convincere il giudice in favore del proprio assistito.

Non passò dunque molto tempo prima che la Corte dovesse nuovamente pronunciarsi in merito all’art. 630, secondo comma, c.p.p., ed, in parte, tornando sui suoi passi.

La sentenza in esame è la n. 98 del 7 maggio 1982158, e ha ad oggetto la legittimità della normativa che, in tema di incidente di esecuzione e riti equiparabili, non prevede la possibilità del rinvio dell’udienza laddove il soggetto, che abbia correttamente fatto richiesta di partecipare ed

157 In linea con questa tesi cfr. A. PULVIRENTI, op. cit., p. 251.

158 Corte cost., 7 maggio 1982, n. 98, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1984, p. 392, con nota di S. SAU.

essere sentito personalmente, si trovi in condizione di legittimo impedimento. Nel caso di specie il soggetto, Cappelletti Alberto, era degente in ospedale, come documentato dalla documentazione della struttura. La questione è sollevata rispetto all’art. 24, primo comma, Cost.

Il tribunale di Ferrara, la cui ordinanza ha promosso l’instaurazione del giudizio, porta a sostegno della propria richiesta la sentenza del 6 maggio 1970 , n. 69, della stessa Corte, in cui si sanciva l’illegittimità costituzionale dell’art. 630, in relazione al diritto al difensore d’ufficio159.

Inoltre, si aggiunge, che la stessa disposizione del codice di rito prevede, al comma terzo, per quanto riguarda la regolamentazione dell’intervento dell’interessato, la nullità in caso di inosservanza della disciplina. Tuttavia la giurisprudenza prevalente si è stabilizzata su un orientamento in base al quale, in caso di legittimo impedimento, sarà il giudice a compiere una valutazione circa la necessità di rinvio dell’udienza, in modo discrezionale.

La prima osservazione compiuta dalla Consulta riguarda la norma parametro sulla quale si chiede di esprimersi: il primo comma dell’art. 24 Cost.. Tale riferimento pare essere erroneo, in quanto la violazione che si lamenta riguarda il diritto di difesa, ascrivibile al secondo comma dello stesso articolo, in cui è garantito, come diritto inviolabile, in ogni stato e grado del procedimento. Constatando l’impossibilità di esprimersi nel senso dell’inammissibilità, la Corte interpretando l’ordinanza di rimessione, individua come norma parametro per il giudizio di legittimità il comma 1160.

Partendo dal presupposto della natura certamente giurisdizionale del procedimento di esecuzione, da attuarsi, di conseguenza, nel rispetto di tutte le garanzie della difesa e del «giusto processo», il giudice delle

159 V. infra, Cap 2, § 2.2.1., p. 61.

160 Sul potere della Corte costituzionale, interpretando l’ordinanza di rimessione, di modificare il parametro in base al quale compiere il giudizio di legittimità costituzionale cfr. oltre alla sentenza in esame, Id. sent. n. 63 del 1961; Id. n. 40 del 1964; Id. n. 153 del 1969).

leggi le rinviene nella disciplina degli artt. 630 e 631 c.p.p., specie come interpretate dalle sentenze costituzionali succedutesi nel tempo (presenza dell’interessato, difensore d’ufficio, notifiche a tutti i soggetti interessati ecc..).

In particolare, l’attenzione si sofferma sulla sentenza n. 9 del 1982, in cui la stessa Corte ha rilevato che la scelta dell’imputato circa la sua presenza al dibattimento, e il concreto realizzarsi di questo intervento, non possano che dipendere dalla sua libera e insostituibile volontà, senza essere aprioristicamente esclusi, neppure per impossibilità assoluta in cui lo stesso dovesse trovarsi. In caso contrario, si prospetterebbe una «compressione del diritto di difesa che non può

ritenersi giustificata dall’esigenza che il processo – al fine di garantire un’ordinata amministrazione della giustizia – possa progredire verso la decisione finale e se ne impedisca l’indefinito protrarsi». Si è dunque

concluso con la necessità di un obbligo di rinvio della trattazione dell’incidente di esecuzione nei casi di provato legittimo impedimento di colui che, interessato, aveva legittimamente richiesto di intervenire, ed essere sentito dal giudice cui spetterà decidere questioni di immediata e sensibile incidenza sulla libertà personale del singolo. Un’ultima questione riguarda proprio la necessità della presenza in relazione all’oggetto del procedimento. Come già visto, laddove le questioni fossero esclusivamente di diritto, si ribadisce l’evitabilità dell’intervento in udienza, e quindi, nel caso di specie, del rinvio della medesima. Tuttavia la Corte evidenzia come «sussistono varie ipotesi di

incidenti di esecuzione nei quali sono prese in esame questioni di fatto»,

nelle quali «si impone la diretta audizione del medesimo [interessato]

affinché il giudice stesso possa formarsi il convincimento nel modo più diretto e completo».

Per queste ragioni è stata dichiara l’illegittimità del comma secondo dell’art. 630 c.p.p..

In questo quadro s’inseriscono i lavori e, successivamente, l’entrata in vigore del nuovo codice di rito, con l’art. 666 che è andato a sostituire,

contenutisticamente parlando, il precedente 630. Sulle scelte del riformatore e sulle sue motivazioni, contenute nella Relazione al Progetto ci siamo già soffermati precedentemente161.

Le precedenti indicazioni sono confermate anche dalla Relazione al testo definivo del codice, che, sulla scorta del mancato giudizio d’illegittimità costituzionale della previgente disciplina, si dichiara che: «la disciplina assicura all’interessato la possibilità di far sentire comunque le sue ragioni al giudice; e a quest’ultimo è, comunque, rimessa la valutazione dell’opportunità di una presenza fisica nei casi in