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Partendo dal presupposto che la pena è un elemento costante all’interno di ogni ordinamento, in tutti i periodi storici, che si caratterizza per la sua intrinseca “afflittività”, nonché per essere uno strumento irrinunciabile di controllo sociale, vediamo con quali finalità è stata utilizzata nel corso delle epoche.

Le concezioni che si sono alternate e susseguite nel corso del tempo sono tre: la teoria della retribuzione (c.d. assoluta), la teoria della prevenzione generale e la teoria della prevenzione speciale.

Per capire la funzione attuale della stessa, è necessario soffermarci brevemente sui singoli aspetti che hanno contraddistinto la pena nel corso della storia.

La teoria della retribuzione si fonda su premesse metagiuridiche, e trova in Kant uno dei suoi massimi sostenitori: «Anche quando la società

civile si dissolvesse col consenso di tutti i suoi membri, l’ultimo assassino che si trovasse ancora in prigione dovrebbe prima venire giustiziato, affinché ciascuno porti la pena della sua condotta e il sangue versato non ricada sul popolo che no ha reclamato quella punizione»53.

Alla base del pensiero sta l’idea della punizione del colpevole come imperativo categorico, giustificato non in un’utilità sociale esterna, quanto più nella stessa coscienza umana. La pena è absoluta, giacché sciolta da scopi ulteriori, ed ha come unico scopo quello di far conseguire ad un’azione negativa una conseguenza altrettanto afflittiva:

«Al bene deve seguire bene e a male deve seguire male»54, in una sorte di legge del taglione.

Se consideriamo l’uomo responsabile delle situazioni, pare dunque giusto che egli sia punito di fronte ad un comportamento antisociale. La pena è dunque applicata “quia peccatum est”. I caratteri di questa sono essenzialmente quattro, e, considerando l’epoca, possiamo considerarle vere e proprie conquiste: 1) la pena diviene personale, e quindi applicabile soltanto all’autore del fatto; 2) deve essere determinata; 3) deve essere proporzionata al male commesso, e questo attraverso una previsione di legge; 4) è inderogabile, ovvero deve essere scontata e non ci si può sottrarsi.

La teoria della prevenzione generale compie un passo ulteriore, allontanandosi da quella visione filosofica legata alla coscienza umana, e prendendo coscienza del fatto che il disvalore legato al male commesso non potesse essere solo del singolo, considerato come una monade isolata, ma di tutta la società. Lo scopo cambia, e la pena acquisisce il fondamento utilitaristico di distogliere l’intero gruppo dei consociati dalla commissione di futuri crimini. «Chi cerca di punire

secondo ragione, non punisce a motivo del delitto trascorso — infatti non potrebbe certo ottenere che ciò che è stato fatto non sia avvenuto — ma in considerazione del futuro, affinché non commetta ingiustizia né quello stesso che viene punito, né altri che veda costui punito»55.

Il modello della “coazione psicologica” vede tra i suoi maggiori sostenitori Bentham e Feuerbach, e aspira ad avere come effetti da una parte quello, appunto, intimidatorio, e, dall’altro, un effetto di moralizzazione ed educazione. Si tenta perciò, attraverso la creazione di standards morali, di orientare la società, inducendo nel giusto anche il soggetto che in primo luogo sarebbe portato a rifiutare il precetto normativo.

La terza teoria è quella special preventiva, che trova la sua genesi con la Scuola Positiva, che, prendendo spunto dalle precedenti, torna si a

54 G. BETTIOL, Diritto penale, 12a ed., Padova, 1986, pp. 782, 800. 55 PLATONE, Protagora, 324.

focalizzarsi sul singolo, ma non più in ottica puramente retributiva, bensì di soggezione di questo alla minaccia della punizione. La prevenzione qua si ha con la creazione di un complesso di misure rieducative e “risocializzatrici”, per impedire che il singolo consociato sia indotto o ricada nella commissione di un reato. Nella nuova ottica, in base alla quale si punisce “ne peccetur”, si guarda al futuro, affinché il soggetto non ricada nell’errore.

Partendo da questa concezione si comprende tuttavia come quel concetto di proporzionalità della pena, voluta dai sostenitori della teoria retributiva, non possa più essere intesa nel senso assoluto di una proporzionalità fra commissione conseguenza universalmente intesa. Per ogni soggetto, difatti, la suscettibilità di fronte all’irrogazione di una sanzione sarà differente, pertanto i parametri per stabilire la pena non potranno più essere il grado di colpevolezza e la gravità del reato, ma dovranno fare i conti con la personalità del singolo. Viene poi messo in crisi anche il principio di determinatezza, in quanto non sarà possibile determinare a priori quando la risocializzazione del reo sarà avvenuta, ma la misura dovrà essere modificata nel corso del tempo adattandola alle esigenze concrete, e sarà passibile di mutamenti sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, e questo in corso di espiazione. Si parla allora di prevenzione speciale post delictum, con finalità preventiva e dissuasiva rispetto a reati futuri, e di prevenzione speciale

ante delictum per evitare che il soggetto naturalmente portato verso la

commissione di un illecito, cada nella tentazione.

Nessuna di queste teorie può sfortunatamente dirsi bastevole a soddisfare tutti i bisogni insiti nel sistema, né, tantomeno, a risolverne le problematiche.

Per una corretta applicazione della prevenzione speciale, che peraltro meglio parrebbe atteggiarsi nei confronti dei principi di rieducazione della pena prescritti dalla maggior parte degli ordinamenti, sarebbe necessaria una sentenza iniziale che verta sulla mera colpevolezza del reo. La stessa dovrebbe lasciare una delega agli operatori del sistema

esecutivo (in Italia amministrazione penitenziaria e magistratura di sorveglianza), che, più a contatto con le singole realtà, si trovano in una posizione di maggiore idoneità nella valutazione di un percorso rieducativo che possa portare, anche in vista di future recidive, ad un’efficienza ed efficacia del sistema, individuando il singolo trattamento per il singolo condannato. Una pena che quindi possa essere utile non solo al singolo, ma all’intera comunità, che si fondi sulla legge e che trovi nel sistema giudiziario l’irrogazione ma non anche la cristallizzazione.

La stessa Costituzione non è andata a scardinare dal sistema quella concezione di pena come espressione di giustizia sostanziale, come interesse generale, nazionale e di sicurezza sociale, ma ha posto sull’altro piatto della bilancia un diritto del detenuto a una sanzione che, potendo evolversi, abbia come scopo ultimo e principe la sua risocializzazione. Si passa a una teoria nuova, di pluridimensionalità

della pena, che, facendo tesoro delle esperienze passate, è

omnicomprensiva dei vari aspetti, e aggiungendone di nuovi, sceglie di non privilegiarne alcuno in particolare, ma di lasciare il legislatore libero di agire nella creazione delle specifiche norme penali.

In questo senso un passo avanti lo hanno compiuto i padri costituenti inserendo nella Carta fondamentale la previsione per cui «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» (art. 27, 3°co, Cost.), con la «rieducazione» come nuova possibile funzione della pena. Questa dicitura sembrava, da sola, bastevole ad orientare l’intero sistema, se non fosse che il concetto di rieducazione appariva, e appare a tratti oggi, molto vago, cosa che ha creato un’indeterminatezza in tutto l’ordinamento.

Il nostro attuale sistema sanzionatorio tuttavia, restando perlopiù incentrato sulla massima sanzione, la detentiva, mal si pone riguardo a questa visione. L’auspicio, è di un’evoluzione verso una pena che effettivamente riesca ad abbandonare la vecchia ottica della mera

retribuzione, assurgendo al ruolo di effettivo promotore sociale, facendo leva sugli istituti alternativi.

Per capire come si sia arrivati all’ordinamento odierno è necessario guardare all’evoluzione storica delle norme, ed in particolare ai lavori dell’Assemblea costituente e all’evoluzione che il testo dell’art. 27 ha seguito per giungere alla formulazione attuale.

Tra il 18 e il 19 settembre del 1946 la prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione approva il testo che verrà in seguito posto al vaglio dell’adunanza plenaria, e che troverà la sua ultima modifica, nelle parole che oggi conosciamo, il 20 Dicembre 1947: «Nessuno può essere sottoposto a processo, né punito, se non in virtù di una legge entrata in vigore anteriormente al fatto commesso e con la pena da essa prevista.

La responsabilità penale è personale.

Le sanzioni penali devono tendere alla rieducazione del condannato. La pena di morte non è ammessa. Possono fare eccezione i Codici penali militari di guerra»56.

In seno alla Sottocommissione, composta da 15 membri e presieduta da Umberto Tupini, varie sono state le questioni dibattute, e le singole parole sono state scelte con cura e soppesate. Lo scopo era la statuizione di principi indiscutibili e non scontati, dato che «l’esperienza amara [ammoniva] di trincerarli nella Costituzione»57, soprattutto per la volontà di scongiurare nel futuro, la riproposizione di un sistema simile a quello brutale della dittatura appena trascorsa, circa un tema così delicato come il processo penale e la sottrazione della libertà personale. In seguito saranno riportate le riflessioni più importanti ai fini del presente lavoro.

Sebbene il concetto di rieducazione non sia mai stato messo in dubbio, una volta inserito nel Progetto, due sono state le perplessità:

56 Lavori preparatori della prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione, 1946.

57 Dalla relazione del Presidente della Commissione per la Costituzione Meuccio Ruini, che accompagna il Progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

l’appellativo da attribuire al soggetto di riferimento e il senso del verbo «tendere», anche riguardo alla parte che vieta quelli che oggi sono definiti come «trattamenti contrari al senso di umanità», la cui stessa formulazione è stata più volte rivista.

Per quanto riguarda la prima questione, la norma iniziale voleva, al posto del termine «condannato», quello di reo, che, preferita all’originaria proposta di «colpevole», lascia un barlume di “speranza”, in quanto, nella parole del commissario Marchesi, sta ad indicare: «il

colpito da una condanna penale e nello stesso tempo per lasciar posto ad una possibilità di innocenza che la parola «colpevole» rimuoverebbe interamente»58. Sebbene questo termine indichi inequivocabilmente il violatore, o presunto violatore, di una norma, nel corso della storia il termine reus ha subito un’evoluzione, e, da essere «il giudicabile» è divenuta «il giudicato». Per questa ragione secondo Marchesi il termine non è consono in quanto, nell’ottica comune, difficilmente si discosta dal «colpevole». La proposta è quindi quella di un termine il cui significato non sia mutato nel corso del tempo: condemnatus, che resta, dal Codice decemvirale ad oggi, mantiene la stessa accezione di condannato.

La proposta è approvata col voto favorevole di tutti, eccezion fatta per l’On. Moro, che considera il termine troppo legato alla procedura. Le due successive problematiche meritano di essere trattate assieme, in quanto strettamente connesse.

Nonostante la rimozione della formula «Non possono istituirsi pene crudeli né irrogarsi sanzioni collettive», avvenuta durante la discussione del 19 settembre 1946, era innegabile la necessità di un’indicazione in senso limitativo verso un tipo di pene non più ammissibili in un ordinamento democratico civile. La sola abolizione della pena di morte non era bastevole. Pertanto, all’interno dell’Assemblea ad adunanza plenaria del 25 gennaio 1947 si è discusso nuovamente, in particolare sul bene da proteggere. La formula posta all’attenzione dei costituenti

58 Dalla discussione all’interno della Sottocommissione circa la “rieducazione del reo”, 19 settembre 1946.

era la seguente: «Le pene devono tendere alla rieducazione del

condannato e non possono ricorrere a trattamenti crudeli e disumani».

Gli onorevoli Nobile e Terracini proposero due cambiamenti: da una parte le pene non sarebbero dovute essere lesive della dignità umana (non se ne aveva più una caratterizzazione specifica, aggettivandole, ma l’attenzione si spostava solo sull’oggetto); inoltre eliminavano il verbo «tendere», chiedendo piuttosto che dovessero «avere come fine

precipuo la rieducazione del condannato allo scopo di farne un elemento utile per la società».

Circa la prima proposta, questa venne accolta da alcuni e respinta da altri, alla quale preferirono la formula dell’On. Leone «..e non possono

consistere in trattamenti contrari al senso di umanità». Sostenne, in

disaccordo, Nobile che parlare di trattamenti crudeli e disumani desse quasi un pretesto per usarli, e perciò vedeva una garanzia più effettiva all’interno della formula generale, più elevata, incentrata sulla dignità umana. In linea l’opinione di Bulloni, secondo cui, la norma costituzionale avrebbe dovuto ispirare il legislatore futuro anche riguardo al trattamento del detenuto in corso di espiazione della pena,

«non solo, infatti, la pena può in sé stessa offendere la dignità umana, ma anche, qualche volta, il modo come il detenuto è trattato». La

mozione non passerà ai voti, e la disposizione preferita sarà quella che tutt’oggi conosciamo per cui le pene «non possono consistere in

trattamenti contrari al senso di umanità», giustificata dallo stesso

Presidente secondo cui nell’espressione «senso di umanità» (peraltro già usata in materia di diritti dell’uomo), sia da ricomprendervi anche la dignità umana.

Miglior fortuna non trovò neppure la seconda modifica proposta da Nobile e Terracini. Seguì, infatti, un chiarimento dell’On. Cevolotto circa la scelta fatta in seno alla prima Sottocommissione, all’interno della quale non si era voluto risolvere il dilemma sulla finalità della pena, oscillante tra un’ideologia intimidatoria, una preventiva ed una rieducativa. La ragione di tale esitazione risiede nella natura della

materia, di competenza del Codice penale. La volontà dei commissari era di stabilire che, nonostante le tendenze dei periodi storici avvenire, e l’orientamento del legislatore, l’unico punto fermo dovesse rimanere la rieducazione, che, accompagnata o meno da altre, doveva restare una finalità della pena. A sostegno Rossi Paolo, per il quale «è bene che la

Costituzione sia ottimista; ma non bisogna che sia ingenua». Lo scopo

primario della pena è scientificamente e indefettibilmente la difesa sociale, cui si affianca un’oggettiva difficoltà nella rieducazione di particolari soggetti, quali, ad esempio, i condannati a lunghe pene (fino all’ergastolo). L’ordinamento dovrà pertanto tendere a rieducare il condannato, se vi sono le possibilità oggettivo-soggettive.

Chiude il cerchio nel 1966 la Corte Costituzionale, sostenendo che: «la

rieducazione del condannato pur nell’importanza che assume in virtù del precetto costituzionale, rimane sempre inserita nel trattamento penale vero e proprio, poiché è soltanto a questo che il legislatore, con evidente implicito richiamo alle pene detentive, poteva logicamente riferirsi nel disporre che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”: proposizione quest’ultima che altrimenti non avrebbe senso (…). Il principio rieducativo dovendo agire in concorso con le altre funzioni della pena, non può essere interpretato in senso esclusivo e assoluto, ma nell’ambito della pena, umanamente intesa e applicata (…). Con la norma di cui l’art. 27 della Costituzione si volle che il principio della rieducazione del condannato, per il suo alto significato sociale e morale, fosse elevato al rango di precetto costituzionale, ma senza con ciò negare l’esistenza e la legittimità della pena là dove essa non contenga, o contenga minimamente, le condizioni idonee a realizzare tale finalità: e ciò, evidentemente, in considerazione delle altre funzioni della pena che, al di là della prospettiva del miglioramento del reo, sono essenziali alla tutela dei cittadini e dell’ordine giuridico contro la delinquenza e da cui dipende l’esistenza stessa della vita sociale»59.

La rieducazione passa attraverso tutti questi punti: un soggetto che non deve essere stigmatizzato, né considerato perso ed irrecuperabile; la pena deve essere, al momento dell’irrogazione e per tutto il corso del trattamento, rispettosa del condannato come essere umano dotato di una propria dignità, e questo affinché sia possibile una sua effettiva rieducazione.

Per questa ragione il trattamento rieducativo da quel momento ha subito continue variazioni, e ha preso sempre più piede una disciplina ad hoc, con lo scopo di connettere la psicologia ai problemi della giustizia: la psicologia giuridica, una delle cui branche specifiche è la psicologia penitenziaria60. La specifica denominazione serve, da un lato, per

prendere le distanze da una concezione prettamente rieducativa e, dall’altro, per sottolineare l’ambito applicativo ristretto al contesto carcerario con le sue particolari esigenze.

Si fa largo una legislazione sempre più improntata (almeno sul piano teorico) verso un’umanizzazione della pena, che si distacca totalmente dal vecchio regime fascista in cui, le finalità curative del sistema erano attuate attraverso la piena afflittività della pena, e della qualità della vita nelle carceri, in cui la progressione delle forma di trattamento più favorevoli al condannato erano possibili solo a seguito di una valutazione della sua «elevazione morale», in un’ottica moralizzante, e repressiva della libertà di autodeterminazione del singolo, da parte dell’ordinamento61. Le sanzioni disciplinari erano inoltre previste e calibrate al solo scopo punitivo ed intimidatorio. L’emenda era, in sostanza, finalizzata all’assoggettamento, e la rieducazione, intesa in senso moderno, completamente esclusa.

60 P. PATRIZI, Psicologia giuridica penale. Storia, attualità e prospettive, Milano, 1996.

61 Dalla Relazione al Regolamento per gli istituti di prevenzione e pena, approvato con R.d. 18 giugno 1931, n. 787: «l’Italia (…) ha consacrato nel suo codice penale un sistema dell’esecuzione delle pene detentive (…) che (…) segna altresì la necessità che il regime carcerario serva alla rigenerazione del condannato (…)»; «a questa finalità di emenda del condannato, che è tra le più nobili aspirazioni della coscienza moderna, sono preordinati i capisaldi della riforma».

Per delineare i confini del nuovo sistema, fondamentali sono state anche le indicazioni e i dibattiti internazionali degli anni ’50. In particolare il Congresso Internazionale di Diritto Penale dell’Aja, del 1950, in cui venne definitivamente sancita l’importanza di uno studio della personalità del singolo, al fine di permettere un trattamento in carcere che sia effettivamente personalizzato e finalizzato al suo reinserimento nella società. Ancora, nel 1955, sono approvate dal Congresso dell’O.N.U., tenutosi a Ginevra, le Regole Minime per il trattamento dei detenuti, che riaffermano l’importanza della rieducazione nel trattamento in un’ottica di risocializzazione.

Il primo esempio di tentativo di predisposizione di un sistema rieducativo, nell’esperienza italiana, si ha a Rebibbia (Roma), nel 1953. Viene difatti aperto il Centro di Osservazione, con il compito di compiere da prima, una diagnosi sui soggetti reclusi, ed in seguito di smistarli presso altre carceri, in base alle specifiche esigenze trattamentale-rieducative. In seguito, con un provvedimento della Direzione generale degli istituti di prevenzione e pena, agli operatori del centro sarà aperta la possibilità di collaborare direttamente con l’Ufficio del giudice di sorveglianza, in particolare per l’accertamento della pericolosità sociale62 e la conseguente possibilità di applicazione di misure di sicurezza. Si crea finalmente quel trait d’union fra l’organo giurisdizionale e quello atto all’esecuzione quotidiana del trattamento penitenziario.

Una pietra miliare del sistema è certamente l’apertura della legge sull’ordinamento penitenziario del 1975, laddove si prevede, all’art. 1, 1° co., che: «Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona», ma, soprattutto, «(…) è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e

62 Intendendo per persona socialmente pericolosa colei che, «anche se non imputabile

o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell’articolo precedente, quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati» (art.

sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose» (2° co.). Dopo aver riallineato il sistema penitenziario con i diritti fondamentali dell’uomo quali l’uguaglianza e il rispetto della sua dignità63, il legislatore del ’75 passa all’attuazione del terzo comma dell’art. 27 Cost., cercando in particolare di dar forma a quel «tendere» che tanto aveva fatto discutere i costituenti. Il Capo III del Titolo primo della legge si apre con l’art. 13 rubricato: «Individualizzazione del trattamento», e prevede che «Il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto», e, ancora, al secondo comma, «Nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l’osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze fisiopsichiche e le