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Dinamogrammi nella ricerca teatrale di Ejzenstejn

VI. 1 «Paradigma» del montaggio

VI. 3 Dinamogrammi nella ricerca teatrale di Ejzenstejn

“Una parola commossa trabocca di intonazione. L’intonazione si amplifica nella mimica e nel gesto. Il gesto e la mimica esplodono nello spostamento spaziale del loro portatore - nel comportamento spaziale: il prototipo della messa in scena”388

Ejzenstejn ebbe una precoce formazione cosmopolitica; imparò inglese, francese e tedesco che gli aprirono un mondo di letture389. A Parigi vide i primi film della sua vita, tra gli altri sicuramente Meliès. Dopo la prima formazione sui classici russi ed europei, si iscrisse ad ingegneria civile, ma continuò a coltivare i suoi interessi artistici. La Rivoluzione d’Ottobre interruppe i suoi studi. Entrò a far parte dell’Armata rossa come geniere che costruiva trincee e ponti. C’è un passo della sua autobiografia che racconta come scoprì la bellezza del montaggio dei movimenti durante la costruzione di un ponte:

“Il tempo rigorosamente calcolato per la costruzione, diviso nei secondi delle singole operazioni, lente e rapide, intrecciatesi e intersecatesi. Ed è come stampata una volta per tutte la mappa della rete ritmica del tempo, solcata dalle linee dei percorsi per l’adempimento delle singole operazioni, che si compongono nel lavoro comune”390. Sembra quasi Taylor, a cui peraltro il suo maestro Mejerchold farà esplicitamente riferimento. La passione per il calcolo esatto, quasi matematico dei gesti resterà una costante del suo lavoro391.

Ejzenstejn aveva sempre amato disegnare e mosse i suoi primi passi in campo artistico prima come caricaturista, poi come disegnatore di manifesti per la propaganda. Dopo aver aderito nel 1920 al Proletkul’t di Mosca, cominciò a lavorare come scenografo e regista

 388

Id., Teoria generale del montaggio (d’ora in poi TGM), tr. it. Marsilio, Venezia 2004, p. 414.

389

Scrive Sklovskij: “Prima della rivoluzione Ejzenstejn era un giovane di diciotto anni cresciuto in una serra. Immerso nei suoi volumi, conduceva un’esistenza da segnalibro”, Viktor Sklovskij, Il leone di Riga. Sergej M. Ejzenstejn, tr. it. di L. Termine, Testo&Immagine, Torino 1998, p.73.

390

Ibidem, p. 77.

391

A proposito della passione di Ejzenstejn per la matematica, in particolare per la teoria dei limiti, si veda quanto dice Aumont, op.cit., p. 7.

teatrale. Amante degli spettacoli circensi, della clownerie, del music-hall392, egli fin dalle sue prime prove cercò di combinarli con le suggestioni che gli provenivano dalle avanguardie, in particolare dal futurismo, dal suprematismo e dal costruttivismo, in uno spettacolo che colpisse intellettualmente e fisicamente lo spettatore.

Nella messa in scena della commedia di Ostrovskij Anche il più saggio ci casca, si raccolgono quegli elementi che poi diventeranno parte centrale del suo cinema, in particolare della sua pratica del montaggio: si trattava, dice Ejzenstejn, di “spingere fino al paradosso tutti gli elementi e i tratti propri del teatro e degli artifici della messa in scena teatrale. Una peculiare reductio ad absurdum della concezione del teatro: il trattamento comico si trasformava in bouffonnade, il testo in acrobazia, la collera in un salto mortale, la gioia in un capitombolo”393.

L’insieme del metodo di questa messa in scena, Ejzenstejn lo definisce «montaggio delle attrazioni», di cui, come sempre, cerca un parallelismo nelle altre arti e che rappresenta una delle tappe essenziali nelle teorizzazioni e nella pratica del montaggio cinematografico. Scrive efficacemente Ripellino:

“con l’irruenza di un dinamitardo Ejzenstejn disintegrò il testo di Ostrovskij in un catalogo di martellanti attrazioni, che assumevano il valore di geroglifici. Lo studio degli ideogrammi giapponesi influì sull’ordito dello spettacolo: ognuna di queste «unità molecolari del teatro» serviva ad esprimere, come segno di una scrittura figurata, un passaggio o una situazione dell’intreccio. Perché, contrariamente a quel che si crede, questo spettacolo possedeva un intreccio, anche se divergente da quello di Ostrovskij”394.

 392

“All’epoca questo elemento del music-hall fu evidentemente quello che alimentò in modo più determinante la nascita di un pensiero artistico fondato sul montaggio”, Ejzenstejn, Il periodo di mezzo, in Il movimento espressivo. Scritti sul teatro, cit., p. 71.

393

Ejzenstejn, Il movimento espressivo. Scritti sul teatro, tr. it. Marsilio, Venezia 1998, p.64.

394

Angelo Maria Ripellino, Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia, Einaudi, Torino 1959, p. 151.

Il problema del contrasto tra attrazione e narrazione395, ma anche tra intreccio e fabula, secondo la distinzione elaborata dai formalisti russi396, fu oggetto di riflessione del regista sovietico che, in una sorta di autocritica retrospettiva, salvando il salvabile, nel suo saggio Il periodo di mezzo del 1934, scriveva che l’iniziale impulso distruttivo di fabula e intreccio andava visto come una sorta di «malattia infantile dell’estremismo»397 e che esse dovevano tornare ad avere il loro posto. Bisognava però al contempo costruire una nuova cultura dell’intreccio, nel teatro come nel cinema, facendo tesoro e per così dire trasfigurando la tradizione letteraria, in funzione di una corretta visione marxista-leninista.

“Nei giorni in cui celebriamo il quindicesimo anno della nostra cinematografia non si tratta certo di tornare al passato (…) si tratta di mettere mano alla sintesi di quanto di meglio è stato fatto in quei periodi lottando per l’identità del cinema sovietico, a una sintesi che tenga conto delle innovazioni di oggi e della nuova domanda di intreccio e di fabula in un senso capace di approfondire l’ideologia marxista-leninista”398. Non era certo un compito facile e di fatto tanti furono i fallimenti nel tentativo impossibile di riconciliare sperimentazione formale e il dogma del realismo socialista che si andava imponendo.

Da Mejerchol’d, l’idolatrato Maestro399, aveva appreso non solo i principi del teatro delle attrazioni, ma anche la pratica della biomeccanica: come lavorare sul corpo dell’attore,

 395

“La contraddizione apparente tra attrazione e narrazione non è altro che la risorgiva di ciò che potremmo considerare la contraddizione essenziale del cinema come dispositivo: contraddizione ineluttabile che attanaglia il cinematografo, costantemente diviso tra puntuale e vettoriale. Il puntuale è l’attrazione, inevitabilmente e costantemente rimessa in questione dalla contaminazione con la vettorializzazione narrativa, dal ribaltamento del puntuale sul vettoriale, “ André Gaudreault, Cinema delle origini o della «cinematografia- attrazione», tr. it. Editrice Il castoro, Milano 2004, p.40.

396

A proposito del rapporto tra Ejzenstejn e i formalisti russi si veda l’intervento di Pietro Montani in a cura di P. Mechini e R. Salvadori, Il cinema di S. M. Ejzenstejn, Guaraldi editore, Firenze 1975.

397

L’autocritica per Sciopero parla ad esempio di «malattia infantile del sinistrismo», Ejzenstejn, Il periodo di mezzo, in Il movimento espressivo, cit., p. 74. E’ molto difficile distinguere nettamente nelle sue opere tra riconsiderazione libera e autocritica imposta dal regime.

398

Ibidem, p. 79.

399

Si veda il bellissimo e struggente ritratto che Ejzenstejn gli dedica, montato a scatti: Il Maestro, in Memorie, cit., p. 187-191.

plasmarlo per mezzo di una ginnastica rigorosa fino a farlo diventare il perfetto ingranaggio di un meccanismo più generale, della messa in scena. Bisognava superare l’opposizione borghese tra lavoro e arte, tra fatica e creatività, ma per far ciò l’arte doveva mutare radicalmente in accordo con il cambiamento imposto alla società dall’industrializzazione.

In una conferenza del 1922 Mejerchol’d era piuttosto esplicito:

“Nella misura in cui il compito dell’attore è la realizzazione di un obiettivo specifico, i suoi mezzi di espressione devono essere usati economicamente perché si possa assicurare quella precisione di movimento che faciliterà il raggiungimento più rapido possibile dell’obiettivo. I metodi del Taylorismo possono essere applicati al lavoro dell’attore come si applicano a qualsiasi altro lavoro per ottenere il massimo della produttività”400.

Il corpo dell’attore, per essere trasformato in un meccanismo ad alta produttività e riuscire a incanalare produttivamente la sua forza vitale, doveva sottoporsi a un duro esercizio: ginnastica, acrobatica, danza, pugilato, scherma, qualsiasi attività fisica purché utilizzata per gli scopi della biomeccanica.

Un altro punto è rilevante nell’insegnamento della biomeccanica e riguarda le emozioni. Finora, dice Mejerchol’d gli attori sono stati formati in un modo che non consente loro di padroneggiare le emozioni che invece devono essere in un certo modo costruite come riflessi a stimoli fisiologici e punti di eccitazione: “da una sequenza di posizioni e situazioni fisiche sorgono quei «punti di eccitazione» che sono permeati da una particolare emozione”401. E la questione dell’emozione, o meglio del rapporto tra emozione e conoscenza intellettuale nell’arte, è veramente al cuore della ricerca del regista sovietico. Ejzenstejn impara dunque dalle prime esperienze teatrali che l’attore e la scena devono essere studiati a partire da leggi meccaniche, come campi di forze che producono effetti sugli spettatori. Le attrazioni sono prodotto di questa dinamiche di intensificazione e di

 400

Meyerhold, Biomechanics, in Edward Braun (ed.). Meyerhold on Theatre, Hill and Wang, New York 1969, p. 198.

401

Ibidem, p. 199. Per quanto concerne il teatro, non si può fare a meno di citare Stanislavskij e la sua ricerca sulla riviviscenza dell’emozione nell’attore. Cfr. Konstantin S. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, tr.it. Laterza, Roma-Bari1985

connessione meccanica, ma anche dello spettacolo, con i suoi aspetti di clownerie e music- hall. In tutto questo si riassumeva qualcosa che era nello spirito del tempo402.

Ejzenstejn che disegnava bene (e che considerava, come Leonardo, il disegno anche come uno strumento euristico403) non si stanca di illustrare le sue idee con schizzi che tracciano le linee di forza all’interno del campo del visibile. Attraverso un lungo percorso che parte da Diderot e arriva in Cina, per poi tornare in Occidente, egli arriva a definire il segno grafico come prodotto della curvatura di due forze: “raffigurare la rappresentazione generalizzata dell’evento e contemporaneamente l’atteggiamento verso l’evento in quanto quest’ultimo è messo in forma proprio da tale atteggiamento”404.

analisi della barricata405

O, per fare un altro esempio, ecco come cerca graficamente di tradurre il ritmo di una frase di Puskin:

 402

Come ha scritto Ripellino: “Ogni spettacolo dell’avanguardia, in quegli anni si convertiva in un «Merz» di sconnessi frantumi, in una sequenza asintattica di eterogenee trovate. «Attrazioni», «attrazioni». Precorrendo le dottrine di Artaud, quei registi propugnavano un teatro irritante, spasmodico: tutto sobbalzi, sferzate, trappolerie: vertigine da ottovolante, «ritmica percussione sui nervi»”, Angelo Maria Ripellino, Il trucco e l’anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento, Einaudi, Torino, p. 295. Il libro ricostruisce quel clima con impareggiabile maestria e passione.

403

Affascinante e forse ancora da esplorare è l’idea presentata da Ejzenstejn del «foglio di montaggio» a partire dai disegni di Leonardo, in Ejzenstejn, Montaggio 1938, in Id, Il montaggio, tr. it Marsilio Venezia 1986, p. 101s.

404

Ejzenstejn, TGM, p. 45.

405

«Stenogrammi visuali» definiva Ejzenstejn i suoi disegni406, ma si potrebbe anche chiamarli dinamogrammi407 delle forze e dei conflitti.

La sua curiosità insaziabile e la sua ricerca di connessioni lo portava a spaziare oltre la tradizione occidentale e a guardare anche all’Oriente, rispetto al quale doveva precariamente tenersi in equilibrio tra passione e critica ideologica. Nel teatro kabuki, che lo affascinava, ad esempio vede la realizzazione di ciò che il cinema rivoluzionario si sforza di fare: una stimolazione plurisensoriale che converge verso un risultato finale unitario attraverso il montaggio, e in cui i sensi sono in fondo secondari, in cui cioè ancora c’è un’indifferenziazione delle percezioni, perché si possono udire la luce e vedere i suoni, a patto di toccare qualcosa che sta al di là come una sorta di sensus communis408, schema o denominatore comune, in una zona di interscambio tra i sensi e che al tempo stesso è preliminare alla formazione del senso. Ciò che i giapponesi, dice Ejzenstejn, in virtù di una sorta di arcaismo, a causa della loro storia, hanno potuto conservare, un arcaismo che ci riporta a un panteismo originario, in cui le percezioni sono ancora indifferenziate, il

 406

Ripellino, op. cit., p. 168.

407

Il termine è usato da Warburg in un senso diverso: come grafo che illustra una forma di energia storica, una forma del tempo. Cfr. Georges Didi- Huberman, L’image survivante. Histoire de l’art et temps des fantomes selon Aby Warburg, Éditions de Minuit, Paris 2002, p. 169s.

408

Cfr. in proposito l’elaborazione di Pietro Montani, Bioestetica, Carocci, Roma 2009, p. 41s.

cinema rivoluzionario deve raggiungerlo con un sistema agli antipodi, apparentemente opposto, attraverso il «pensiero del montaggio».

“Il pensiero del montaggio – culmine della percezione differenziata di un mondo organicamente scomposto – si ricompone in uno strumento che opera senza errori e in modo matematico: in una macchina”409. Macchina e organismo non si escludono, anzi la macchina è in grado di ricomporre in un’unità organica, attraverso il montaggio, ciò che la modernità aveva scomposto.