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VI. 1 «Paradigma» del montaggio

VI. 6 Montage-roi e disseminazione del senso

“C’è stata una fase nella storia del nostro cinema in cui si affermava che il montaggio è «tutto». Sta adesso per concludersi un periodo durante il quale il montaggio è stato considerato «nulla». A me pare che oggi sia necessario riflettere sul fatto che il montaggio non è un «niente» e non è un «tutto», ma una parte integrante della costruzione del film al pari di tutti gli altri elementi che concorrono a costituire l’efficacia del cinema”448

La storia delle concezioni del montaggio449, nella cornice storico-culturale all’interno del quale si afferma la centralità del montaggio tra gli anni Venti e gli anni Trenta450, può essere considerata anche come insieme di soluzioni a quei problemi che Ejzenstejn ha affrontato nelle sue riflessioni teoriche e che abbiamo cercato di esporre nelle pagine precedenti.

Fin dai primi saggi teorici era chiaro che Ejzenstejn non accettava nessuna gabbia disciplinare, che voleva muoversi liberamente tra le diverse arti proprio per mostrare che al fondo di ciascuna di esse opera il principio del montaggio, un principio «transmediale»451. Si resta ogni volta stupefatti non solo dalla sua curiosità e dalla sua erudizione

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Ejzenstejn, Montaggio 1938, in Id., Il montaggio, tr.it. Marsilio, Venezia 1986, p. 89.

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Non riproporremo qui la storia delle teorie del montaggio che Ejzenstejn sviluppa nel corso della sua febbrile attività critico-teorica, cosa che è già stata fatta in modo eccellente nel già citato Aumont, Montage Eisenstein; cfr. anche Somaini, Ejzenstejn, cit.

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A proposito del montaggio nel cinema, scrive Boschi: “La pretesa sovranità del montaggio nel periodo del muto è, almeno sul piano teorico, una sovranità limitata (nello spazio e nel tempo). Non esistono infatti, a eccezione dei primi interventi di Kuleshov, teorizzazioni su questo procedimento anteriori agli anni Venti, così come non ne esistono o quasi, per tutti gli anni Venti, fuori dei confini dell’Unione sovietica” in Teorie del cinema, cit., p. 204. Questo giudizio un po’ perentorio si stempera se si considera il fatto, in primo luogo, che cerca di offrire un contraltare alle assolutizzazioni del montaggio, come se esso fosse tutto il cinema; in secondo luogo che si riferisce a vere e proprie teorizzazioni sistematiche, mentre come ammette subito dopo diverse idee del montaggio emergono già dagli anni Dieci. Solo negli anni Trenta si può parlare di una vera e propria diffusione oltre i confini sovietici. Tuttavia c’è ancor prima una sorta di guerra fredda ante litteram che verrà combattuta sul terreno del cinema: cinema americano vs cinema sovietico, borghesia e capitalismo vs proletariato rivoluzionario, e così via.

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straordinaria, ma anche dalla sua libertà di movimento tra i diversi campi dell’arte e più in generale della cultura. Così, per fare solo uno fra mille esempi possibili, possiamo trovarci in qualche paragrafo trasportati vorticosamente da Stanislavskij a Loyola, da James a Lessing, accostamenti che fanno di alcuni dei suoi testi i migliori esempi di un montaggio intellettuale che, invece di produrre senso in modo convergente, apre sempre nuove strade attraverso comparazioni virtualmente infinite, nuovi percorsi di senso, proprio in contrasto con quelle catene associative convergenti su un significato univoco di cui abbiamo appena parlato.

Ne è un esempio Dickens, Griffith e noi, un saggio tardo scritto tra il 1941 e il 1942, una sorta di ricapitolazione che è al tempo stesso un memento per i futuri registi, un atto d’amore e di riconoscenza verso Griffith e Dickens452, una rivendicazione del posto di primo piano nel mondo del cinema sovietico, un breve saggio di storia della tecnica cinematografica, e di nuovo un’elaborazione sulla questione del montaggio come principio che travalica l’ambito cinematografico, per rivelare le sue origini extracinematografiche. Si tratta in questo caso soprattutto di mostrare il montaggio parallelo in Dickens e in Griffith, ma anche di riaffermare che

“Dickens e tutta la galleria di antenati, che risalgono ai greci e a Shakespeare, servono a ricordarci una volta di più che tanto Griffith quanto il nostro cinema non traggono le loro origini unicamente da Edison e dai suoi colleghi inventori, ma si fondano su un grande passato culturale delle epoche trascorse. Solo chi sia superficiale e presuntuoso può prescrivere leggi ed estetica per il cinema partendo dalle premesse di un’inverosimile verginità di quest’arte!”453.

Bisogna notare come Ejzenstejn, senza mettere mai in discussione la sua fedeltà alla rivoluzione e al marxismo-leninismo, sia andato per la maggior parte della sua vita controcorrente, in contrattempo, per così dire. Era piuttosto difficile conciliare la sua

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Nel commovente Album Ejzenstejn premesso al saggio di Sklovskij dedicato al grande regista sovietico, si vede una foto del 1902 in cui il piccolo Sergej ha quattro anni, con un cappello di paglia e un’espressione sconfinatamene triste. Ejzenstejn commenta: “Ognuno si vede come qualcuno, come qualcosa… Quando io mi guardo da solo a solo, al punto che non mi importa più di niente, mi dipinto in David Copperfield”, Album Ejzenstejn in Viktor Sklovskij, Il leone di Riga, tr. it. Testo&Immagine, Torino 1998,., p. 14.

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libertà di pensiero e movimento con la disciplina del Partito e con l’ortodossia estetica e infatti si trovò a essere spesso bersaglio di pesanti attacchi, dal principio alla fine della sua carriera artistica, attacchi che però utilizzò per rielaborare continuamente le sue posizioni: se esteriormente faceva atti di contrizione e autocritica, in realtà e ben più significativamente rimetteva continuamente in discussione i propri punti di partenza. Talvolta certo ci si trova di fronte a dichiarazioni affettate e semplicistiche che poco hanno a che fare con la raffinatezza di Ejzenstejn, ma continuando la lettura, si dispiega davanti agli occhi del lettore una proliferazione sorprendente di nuovi punti di vista e connessioni, ma soprattutto una forma vitale in mutazione continua. Si tratta per lui di affermare, con mille variazioni, che il montaggio non riguarda solo il cinema, come l’immagine non ha a che fare solo con le arti visive.

Consideriamo ad esempio il campo della letteratura, tra tutti Dickens e Flaubert. Proprio da Dickens, afferma Ejzenstejn, dal romanzo vittoriano “nascono i primi elementi dell’estetica cinematografica americana, legata per sempre al nome di David Wark Griffith”454. A prima vista l’accostamento può sorprendere: che cosa hanno a che vedere i romanzi di Dickens con il cinema di Griffith? Ejzenstejn non si limita ad accostamenti superficiali o meramente contenutistici, vuol mostrare che entrambi sono maghi del ritmo e del montaggio narrativo in letteratura e nel cinema.

Griffith arrivò al montaggio attraverso il metodo dell’azione parallela che ricavò proprio da Dickens:

“con quello sguardo d’indagatore, fermo come l’acciaio, che notai in lui quando ci incontrammo, con la sua capacità di cogliere en passant i particolari o i segni chiave distintivi del personaggio, Griffith sapeva vedere tutto con nettezza e chiarezza dickensiana, così come Dickens, dal canto suo, possedeva qualità cinematografiche, come capacità visiva, senso compositivo dell’inquadratura, primo piano e alterazione dell’accento attraverso l’uso di obiettivi speciali”455.

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Ibidem, p. 204.

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Lo stesso vale per Flaubert, di cui Ejzenstejn analizza un lungo brano tratto da Madame Bovary per mostrare la sua tecnica di montaggio incrociato dei dialoghi456.

Questi scambi culturali valgono anche tra culture diverse e lontane. In particolare Ejzenstejn dedica un’attenzione particolare alle forme artistiche del Giappone, come abbiamo già detto al teatro Kabuki, ma anche al disegno, a quelle particolari forme di poesia che sono i tanka e gli haiku457.

Gli esempi continuano poi spaziando tra le stampe di Sharaku (il Daumier giapponese), le maschere del teatro No, per tornare alla «scrittura geroglifica» di Joyce.

Insomma il montaggio è ovunque, per Ejzenstejn, per cui a un certo punto bisogna chiedersi che cosa ci sia al fondo di questa onnipresenza.