VI. 1 «Paradigma» del montaggio
VI. 8 Logica affettiva del senso: (un’emozione non indifferente)
La questione del pathos, come si è visto, attraversa tutto il lavoro di Ejzenstejn, dai primi lavori teatrali, al montaggio delle attrazioni, fino alle riflessioni sull’estasi negli ultimi scritti teorici, in particolare La natura non indifferente. In quest’opera, una delle più sistematiche, per un autore che ha cominciato moltissimi progetti ma ne ha condotti a compimento pochi, è dedicata un’attenzione e una trattazione specifica alla costruzione del patetico nel cinema, ma più in generale nell’arte.
Cos’è e come si costruisce il pathos? Ejzenstejn considera la questione dal punto di vista non dell’essenza ma degli effetti: la questione non è tanto che cosa è, ma cosa può il pathos, in questo caso sullo spettatore. “Il pathos si definisce come qualcosa che costringe lo spettatore a balzare in piedi dalla sua sedia. Qualcosa che lo spinge a spostarsi, a gridare, ad applaudire. Qualcosa che gli fa brillare gli occhi di gioia prima di spargere lacrime di entusiasmo. In una parola: tutto ciò che costringe lo spettatore a «uscire da se stesso»”472. Non proprio una semplice e-mozione (anche se l’aspetto del movimento è importante), ma qualcosa che travolge e stravolge lo spettatore facendolo uscire dalla propria condizione abituale in una sorta di ex-stasis. Ciò che si diceva prima dello choc, che forza al pensiero, si ri-articola ora nell’esperienza patetica dell’estasi. Si ritrovano qui le considerazioni svolte da Ejzenstejn in Teoria generale del montaggio a proposito del principio dionisiaco come cuore del montaggio, come Urphänomen.
Il montaggio, anche del patetico, è proprio l’analogo artificiale di ciò che avviene naturalmente nei fenomeni patetici riconducibili in fondo al movimento ritmico della
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Ejzenstejn, Prospettive, citato in Pietro Montani, Introduzione, in Ejzenstejn, La natura non indifferente, cit. p. XXIV.
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sistole e della diastole, allo smembramento e alla nuova ricomposizione propri del principio dionisiaco. Difficile in effetti tener insieme questo principio e l’umanesimo del realismo socialista.
“L’estasi conosce una sola formula di conquista dell’uomo. Che sia da Dio o dal diavolo, l’ebbrezza dell’ossessione è un unico sobbalzo ritmico.
Il pathos è unico.
E il pathos nella sua essenza è sovratemico.
Per sua natura è al di fuori del soggetto e del contenuto”473.
Eppure Ejzenstejn pensa che sia possibile riportare questo movimento patetico ed estatico sotto il controllo dell’uomo, in qualche modo ri-costruirlo ed è ciò che le arti cercano di realizzare. Come si costruisce dunque il patetico?
A diversi livelli di complessità: al livello più semplice si patetizza il personaggio: “un personaggio dominato dal pathos che, in un modo o nell’altro, «esce da se stesso»”474. C’è poi un modo che ha a che fare con il ritmo. Ejzenstejn segue i numerosi esempi in letteratura da Shakespeare a Zola, ma anche nei suoi film, in particolare qui il Potemkin: l’esempio della scalinata mostra bene come si costruisca in patetico attraverso l’intensificazione e il ritmo475.
Alla base della costruzione patetica, però indipendentemente dai materiali utilizzati e montati, è “un’incessante «estasi», un incessante «uscire fuori da sé»: un salto continuo da una qualità all’altra, che interessa ciascun singolo elemento e livello dell’opera a misura che il contenuto emozionale della sequenza, dell’episodio, della scena, dell’opera aumenta progressivamente fino a raggiungere un massimo di intensità”476.
Questa intensificazione richiede un’organizzazione di salti, di intervalli, di differenze di potenziali nell’opera, perché sia organicamente patetica ed estatica477. Nell’attimo
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Ejzenstejn, Il Maestro, in Memorie, cit., p. 189.
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Ejzenstejn, La natura non indifferente, cit., p. 34.
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L’analisi è in particolare in ibidem, p. 38s.
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Ibidem, p. 45.
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Montani cerca di sintetizzare così: “un’opera d’arte può dirsi pienamente organica quando il suo ordinamento strutturale è tale da predisporre al suo interno un sistema motivato di salti qualitativi, ovvero un sistema di passaggi e commutazioni da un registro espressivo a un altro (…) ma questi passaggi resi possibili dalla coerenza compositiva
dell’emozione estatica, dice Ejzenstejn, si intuisce l’unità nella molteplicità, si ha l’esperienza “di un’unica e fondamentale legalità presente nella multiformità dei fenomeni particolari e (apparentemente) casuali della natura, della realtà, della storia, della scienza”478.
Trovare la Urform sottesa alla molteplicità delle manifestazioni della natura: in questo è possibile vedere all’opera il principio morfologico goethiano che si riconnette alla questione del montaggio, perché ciò che morfologicamente appare connesso in idea, nel montaggio viene ricongiunto in pratica, conservando però viva e operante la molteplicità. Perché bisogna in ogni caso conservare insieme nell’opera i due movimenti, dall’uno ai molti e dai molti all’uno, dal caotico alla legge e dalla legge alla dispersione, dal multiforme alla forma comune e da questa alla molteplicità delle manifestazioni.
Al centro di questo movimento, c’è la «formula del pathos»479 che è “interamente
contenuta nel principio dell’unità dei contrari”480. Certo si tratta di un’unità organica, per cui i contrari non si giustappongono semplicemente, ma talora si trasmutano l’uno nell’altro, come nello yin/yang cinese: “la fusione degli opposti in un tutto unico e la loro reciproca commutabilità è, come stiamo osservando, passo dopo passo, il connotato
dell’opera dipendono a loro volta da un modello che non è più statico e spaziale, ma dinamico e temporale: E definisce questo modello con il termine estasi inteso letteralmente come uscita fuori di sé”, in Introduzione a La natura non indifferente, cit. p. XIII.
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Ibidem, p. 97. C’è un accento kantiano in questa come in altre affermazioni del regista. Sicuramente Ejzenstejn conosceva Kant e lo si trova citato un po’ riduttivamente come filosofo metafisico.
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Il rapporto tra Ejzenstejn e Warburg, non solo per il modo di considerare la divina frenesia dionisiaca e le sue incarnazioni, le formule patetiche, il problema dei contrattempi dell’immagine, resta ancora da esplorare in profondità. Somaini ricorda che Ejzenstejn usa un termine molto simile alla Pathosformel di Warburg, formula pàfosa (in russo), e scrive: “Nel montaggio, in quella che Ejzenstejn considerava come un’«attività comparativa» e Warburg una «considerazione comparativa» [vergleichende Betrachtung], entrambi ritenevano di aver trovato lo strumento euristico e morfologico con cui mettere in relazione le forme e cartografarne le migrazioni”, Ejzenstejn, cit. p. 365.
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Ejzenstejn, La natura non indifferente, p. 93. Più avanti Ejzenstejn, preoccupato per le accuse di formalismo e astoricità, si preoccupa di aggiungere che la formula del pathos, con le dovute virgolette, “non va assunta in senso primitivo, banale, statico e meccanico, bensì nel senso dinamico che abbiamo cercato di illustrare nelle pagine di quest’opera: come un principio attivo ed efficace”, ibidem, p. 187.
fondamentale del metodo patetico, l’elemento essenziale della scrittura patetica in generale”481.
In diverse epoche e in diverse culture è possibile trovare esempi di questi principi patetici nell’opera d’arte, dai Greci a Dostoevskij, da Shakespeare all’amato Puskin e questa stessa duplicità dinamica si ritrova ai diversi livelli, dalla costruzione di un personaggio contraddittorio (e qui Ejzenstejn fa riferimento al suo Ivan), alla costruzione di una struttura globale dell’opera in cui queste forze contraddittorie si integrino.
Non sempre Ejzenstejn riesce a tener a freno questa di proliferazione caotica che lo trasporta violentemente da un tempo all’altro, dalle vetrate della cattedrale di Chartres alle Carceri di Piranesi fino a Picasso, ma in fondo, di nuovo, è come se volesse far intravedere dietro a una molteplicità virtualmente infinita, un principio unitario, come, per usare il suo esempio, tra la varietà cromatica e il bianco che li comprende tutti.
A un certo punto Ejzenstejn pone la questione di come sia possibile questo principio, questa formula patetica che sembra universale, sovrastorico, al di là del tempo, dello spazio, delle diverse arti e risponde che si tratta di un principio operativo formale, come la metafora che per quanto ne sia diverso il contenuto in Omero e Majakovskij, continua a funzionare nello stesso modo. Ma per dare una risposta adeguata a questo problema, Ejzenstejn deve trovare un ancoraggio del suo principio sul piano materialistico e lo trova nelle leggi psichiche:
“un certo grado di ossessione, di completo assoggettamento alla forza del tema, produce quel «particolare» stato psichico che permette alle leggi di percezione, di visione e di espressione immaginativa che conosciamo di entrare in azione e di elaborare il materiale tematico nella forma che ritroveremo nell’opera compiuta”482. C’è però una precondizione, ossia per dirla altrimenti, una certa temperatura psichica, che Ejzenstejn si sforza di distinguere dalla borghese «ispirazione», una soglia sotto la quale il
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Ibidem, p. 114. Ejzenstejn stabilisce un rapporto e contrappone due diversi trattamenti dell’estasi: uno che definisce quietistico, dissolve gli opposti uno nell’altro, mentre l’estasi a cui il regista mira agisce “esasperando oltre misura ciascuno dei termini contrapposti, si sforza nel momento in cui questa esasperazione raggiunge il suo apice, di indurli a trafiggersi l’un l’altro, portando in tal modo all’estremo il loro dinamismo costruttivo”, ibidem, p. 170.
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processo di configurazione patetica non si innesca, uno stato-soglia che è quello della “partecipazione alle leggi che regolano il corso della natura”483.
Si tratta di quel momento in cui l’attività dell’artista si trasforma in passività proprio per conformarsi alla legalità naturale, momento di fuoriuscita da sé in uno stato patetico di estasi: in questo modo ciò potrebbe essere puro soggettivismo si trasforma in «sovraoggettività»484 e si può raggiungere “il dominio estatico della potenza del pathos sull’uomo”485. Non si tratta, horribile dictu, di uno stato mistico, ma di qualcosa che è perfettamente riconducibile alle leggi naturali, anzi che è il prodotto proprio dell’identificazione con le leggi naturali che non sono più viste come qualcosa di estraneo rispetto all’uomo. Anzi, Ejzenstejn parla proprio di «comunione», affrettandosi a distinguere questo concetto da quello religioso: comunione “con il sentimento delle leggi dell’essere della materia intesa come incessante movimento”486.
Come si arriva a questi stati di estasi? In tre modi: 1. ritmico-motorio (si pensi ai dervisci), 2. attraverso esercizi spirituali (si pensi a Loyola), 3. attraverso narcosi di vario genere.
E’ chiaro che qui Ejzenstejn si sta muovendo con cautela sul fragile pavimento di vetro del Diamat e infatti deve dire alla fine del capitolo sul pathos, ripetendo Engels, che il processo dell’estasi, la formula del pathos “non è nient’altro che il momento (l’istante) in cui viene a compimento la legge dialettica del passaggio dalla quantità alla qualità”487. Ora, questa comunione presuppone una sorta di stato psichico puro, di puro divenire emozionale prima del concetto, della rappresentazione, dell’immagine che è puro sentirsi essere, in cui ci si sente affetti dall’essere, stato naturale che la credenza religiosa strumentalizza per i suoi fini.
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Come già detto Ejzenstejn cita Kant solo per metterne in luce gli aspetti metafisici, mentre soprattutto la Critica del giudizio si presta a un confronto molto fruttuoso con le sue idee, per quel che riguarda l’immaginazione produttiva, la conformità tra volontà e natura, in particolare lo schematismo come luogo di interscambio tra immagine e concetto. In proposito si veda l’introduzione di Emilio Garroni alla Critica della facoltà del giudizio, Einaudi, Torino 1999.
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Ejzenstejn, La natura non indifferente, cit., p. 189.
485 Ibidem, p. 224. 486 Ibidem, p. 195. 487 Ibidem, p. 224.
“Abbiamo effettivamente a che fare con uno stato «particolare» che è caratterizzato da una parte da un superamento dei limiti dell’immagine, della rappresentazione, dell’oggetto e dall’altra dalla capacità di proiettare la propria intensità dinamica su un’immagine qualsiasi con cui entri in contatto”488.
Ovviamente questi procedimenti di “patetizzazione” si applicano a tutti livelli e interagiscono nel cinema audio-visivo, cosicché si arriva a una sorta di sinestesizzazione dell’estasi nel montaggio verticale ad esempio in Ivan il terribile.
“La polifonia audiovisiva di uno stile sempre più omogeneo è possibile solo nella più rigorosa «sinestesia» delle singole sfere dell’espressività sonora e visiva”489.
Ejzenstejn ricorda che nei suoi primi esperimenti teatrali sul principio delle attrazioni era già in opera questa sinestesia che aveva come centro lo spettatore, anzi proprio l’attrazione in se stessa era unità sinestesica. E nell’analizzare la scena di Ivan intorno al catafalco della zarina Anastasija, egli scrive: “la cosa più importante è che tutto, dalla recitazione dell’attore al gioco delle pieghe nei suoi abiti, sia in egual misura integrato nel risuonare dell’unità determinante dell’emozione che è posta alla base della polifonia di una composizione a più livelli”490.
L’emozione è il centro della costruzione patetica, quel luogo prima della parola e della rappresentazione del suono, che tiene insieme i distinti. In questo caso il nucleo è la disperazione di Ivan che è preso da dubbi: da qui si sviluppano due voci che costituiscono un canto antifonico, la lettura dei Salmi e quella dei rapporti sui boiardi che arrivano a un punto culminante a partire da cui avviene un cambiamento in senso contrario. Quello che qui, come altrove, Ejzenstejn mette in scena in modo davvero mirabile è l’esposizione del mito del controllo totale sul film491: le analisi cui sottopone inquadrature e sequenze dei suoi film sono vere e proprie minuziose dissezioni anatomiche492.
488 Ibidem, p. 204. 489 Ibidem, p. 339. 490 Ibidem, p. 342. 491
Sarebbe interessante mettere in relazione questo punto con la questione del caso. Burch ha abbozzato una storia dei primi decenni del cinema a partire dalla considerazione della lotta tra il caso e la volontà dell’autore, tema centrale come si è visto per le avanguardie, in particolare dada e surrealismo, in Prassi del cinema, tr.it. Pratiche editrice, Parma 1980.
Non c’è posto per il caso e gli errori (relativi ad elementi temporali o plastici) che vengono prontamente individuati, stigmatizzati e rimossi, perché anche una frazione di secondo può trasformare una scena drammatica in una scena comica, dato che gli spettatori si accorgono del procedimento493. Così nel Potemkin la sequenza del compianto di Vakulincuk è costruita in modo che ogni volto che appare per un istante porti con sé “non solo un accordo o una nota di dolore perfettamente definiti, ma anche il segno dell’appartenenza sociale, delle abitudini di vita ecc.”494.
Se nella Teoria generale del montaggio era il mito dionisiaco il principio formale alla base dell’operare artistico, ne La natura non indifferente, Ejzenstejn cerca altrove la possibilità di un’unificazione formale dell’attività artistica, ossia nel contrappunto e nella polifonia spazio-temporale.
“Non è forse naturale chiedersi su che cosa si basi il fascino (nel senso di «capacità di attrarre e di influire») di questi metodi legati alla ricorrenza di un motivo, al suo proseguire attraverso altri motivi, all’intrecciarsi e allo sciogliersi delle differenti voci che agiscono come ramificazioni di un insieme unitario?”495.
O detto in altri termini, che cosa spinge gli uomini a manifestare un’attività formativa, in tempi e culture assai diverse, che si attua attraverso il principio del montaggio, orizzontale e verticale (ma anche simultaneo)?
Ejzenstejn cerca il fondamento antropologico (in realtà animale) che sta alla base del contrappunto nell’attività dell’intrecciare canestri e nella caccia496.
“Sin dal 1920 almeno, si trovano cineasti che non cercano affatto di vincere il caso, ma che invece vogliono subordinare in larga misura le loro macchine da presa a quel mondo aleatorio che chiamano realtà. Si tratta naturalmente dei primi grandi documentaristi: Dziga Vertov, Joris Ivens, Ruttman, Cavalcanti e altri”, in Noël Burch, op.cit., p. 108.
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Si veda ad esempio l’analisi di una sequenza di Ivan il terribile, ibidem, p. 348- 358, con una sorta di schema finale a quadrato che cerca di mostrare l’incrocio nel montaggio audio e video.
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Ejzenstejn racconta un esempio relativo a una proiezione a Londra del Potemkin, ibidem, p. 352. 494 Ibidem, p. 384. 495 Ibidem, p. 303. 496
In questo caso potrebbe anche essere utile un confronto con il paradigma indiziario di Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in Miti Emblemi Spie, Einaudi, Torino 1986, p. 158-238.
“Il fascino delle strutture contrappuntistiche risiede, senza dubbio, nel fatto che esse fanno rivivere in noi gli istinti più profondi e, proprio in quanto agiscono precisamente su di essi, esercitano una presa così profonda”497.
Di nuovo, attraverso una fuga vertiginosa che inanella Hogarth, i romanzi gialli, Dante, Leonardo, i libri sui nodi, Houdini, egli si sforza di mostrare come il principio formativo che sta alla base di diverse opere d’arte si possa riportare a quelle due operazioni primarie che rendono ragione delle strutture dell’intreccio. La questione di fondo, già esposta, è quella dell’unità della molteplicità: principio dell’intreccio e dello scioglimento, il doppio movimento che va dalla forma complessa organica alle sue linee e viceversa. “Essi (come del resto anche i fondamenti dell’estetica del montaggio multilaterale) si sforzano di realizzare nell’opera d’arte quel principio dell’unità nella diversità che in natura non solo regola i fenomeni di un unico e medesimo ordine, ma collega tra loro i fenomeni più svariati”498.
D’altra parte Ejzenstejn, ponendo l’accento sulle attività dell’intreccio e della caccia non fa che amplificare le proprie passioni; infatti descrive se stesso in modo non diverso quando spiega la sua passione incontrollabile per le comparazioni, la ricerca di regolarità nell’apparente caos come un investigatore, la caccia di particolari che si connettono ad altri particolari secondo uno stile indiziario.
Dunque l’anima di quel paradigma del montaggio in Ejzenstejn, sta proprio in questo principio dell’unità nella differenza che è il cuore pulsante dell’attività formativa artistica. Il cinema, nel suo pieno sviluppo di mezzo audio-visivo, è in grado di dar vita a una compiuta sintesi organica che riflette le leggi della vita e della natura in generale, attraverso la potenza del montaggio verticale, armonico, ritmico.
“Dinanzi al nostro cinema, la più avanzata delle arti, sta questo grande compito: rivelare con tutte le sue opere tutta la profondità dell’unità e dell’armonia, tutta la profondità della concezione del mondo con cui la nostra era socialista contribuisce alla storia dell’umanità”499.
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Ejzenstejn, La natura non indifferente, cit., p. 304.
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Ibidem, p. 320.
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Non c’è più vera opposizione, ma contraddizione dialettica tra i diversi elementi che fanno parte del film audio-visivo. “La polifonia audiovisiva deve accuratamente evitare quel grado di fusione in cui completamente e definitivamente scompaiono tutti i contorni dei suoi tratti costitutivi”500. Bisogna insomma evitare quell’estasi sinestesica che ci annullerebbe nel tutto e risolverebbe le parti nel tutto. E proprio per questo è necessario conservare l’intervallo contro la fusione delle parti.
A mano a mano che la teoria del montaggio diventa più totalizzante, includendo montaggio metrico, intellettuale, sovratonale, il concetto di intervallo diviene ancora più importante. Nell’unione tra toni diversi, sonori e visuali, si mantiene l’intervallo, che resta però non più solo udibile e visibile: il percetto si apre all’affetto per cui non basta più dire vedo e odo, ma bisogna dire io sento. Ed è forse questo spazio dell’intervallo in cui si gioca tra un’immedesimazione totale e il vuoto ad essere il cuore segreto di una teoria del senso.