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Il diritto di proprietà, il principio di libertà e l’accertamento tributario

Si tratta di principi costituzionali che vengono messi in discus­ sione dalle norme tributarie. Da un lato perché le prestazioni impo­ ste violano sempre il diritto di proprietà dal momento che sottrag­ gono al contribuente una parte dei suoi beni. Dall’altro perché il principio di libertà confligge, come si è visto, con il principio della necessità del prelievo che permette al legislatore di assumere i provvedimenti che ritenga necessari per opporsi all’evasione fiscale.

In particolare, proprio l’accertamento compiuto daU’ammini- strazione costituisce l’occasione per conciliare i diversi principi, an­ che se in maniera diversa a seconda che la norma fiscale limiti il di­ ritto di proprietà o violi le libertà individuali.

a) Diritto di proprietà ed accertamento tributario.

N el 1981 alcuni parlamentari avevano ritenuto che uno degli articoli della legge finanziaria per il 1982 — che autorizzava l’am­ ministrazione finanziaria a sottoporre a controllo le procedure di elaborazione automatizzata della contabilità — fosse incostituziona­ le. Dal momento che non aveva previsto un indennizzo per la sot­ trazione dell’uso del materiale dell’impresa, giudicavano questa di­ sposizione contraria all’art. 17 della dichiarazione del 1789 secondo il quale « la proprietà è un diritto inviolabile e sacro del quale nes­ suno può essere privato se non per un’esigenza pubblica legalmen­ te riconosciuta e sempre con una giusta e preliminare indennità ».

Il consiglio costituzionale ha respinto questo ricorso, sostenen­ do che « non vi è nessun principio costituzionale che imponga di in­ dennizzare l’impresa per i vincoli imposti in occasione dell’accerta­ mento tributario ». Il giudice deve limitarsi semplicemente a con­ trollare che questa limitazione non sia eccessiva o arbitraria. In oc­ casioni successive la corte affermerà che il diritto di proprietà deve interpretarsi secondo l’evoluzione intervenuta dal 1789 e conside­ rando i limiti imposti dall’interesse generale.

b) Libertà individuale ed accertamento tributario.

Il problema si pone in maniera diversa quando vengono viola­ te le libertà individuali e precisamente quelle relative alla sicurez­ za, all’inviolabilità del domicilio, al rispetto della vita privata. Si

tratta di diritti che meritano una tutela maggiore di quella del dirit­ to di proprietà.

Nel 1983 alcuni parlamentari misero in discussione un articolo della legge finanziaria del 1984 che autorizzava l’amministrazione finanziaria ad effettuare perquisizioni e sequestri. Volevano far va­ lere una precedente sentenza della corte costituzionale che aveva riconosciuto il diritto della polizia ad effettuare perquisizioni nei veicoli e si lamentavano che le disposizioni violassero quel diritto alla libertà individuale la cui tutela è affidata dall’art. 66 della co­ stituzione all’autorità giudiziaria. Giudicavano infatti che le perqui­ sizioni a fini fiscali fossero soggette a condizioni troppo ampie e generiche.

Il consiglio ha fatto propria la tesi sostenuta dai parlamentari. Ha giudicato l ’articolo contestato non conforme alla costituzione proprio perché il potere di effettuare le perquisizioni veniva rico­ nosciuto all’amministrazione finanziaria senza che fossero previste condizioni sufficientemente precise. Ha ritenuto che secondo l’art. 66 della costituzione, l’autorità giudiziaria debba salvaguardare la libertà individuale sotto tutti gli aspetti ed in particolare per quel che riguarda 1 inviolabilità del domicilio il cui valore costituzionale viene espressamente riconosciuto.

Nel caso, il principio della necessità del prelievo — che legitti­ ma l’accertamento tributario — da un lato e la tutela della libertà personale dall’altro, possono essere conciliati in maniera relativa­ mente facile. I controlli dell’amministrazione finanziaria possono essere considerati costituzionalmente legittimi solo se sono effettua­ ti sotto la responsabilità e sotto il controllo effettivo dell’autorità giudiziaria. Ed in quel caso il consiglio ritenne che non fosse avve­ nuto. Sollecitò pertanto il legislatore a cambiare la norma ed indicò in modo particolarmente dettagliato i punti che avrebbero dovuto essere emendati. Richiese: che le ipotesi di violazione fossero pre­ cisate per circoscrivere in maniera efficace l’ambito di controllo; che fosse esplicitamente previsto l’intervento del giudice incaricato di dirigere i controlli; che non fosse trascurato il potere dell’autorità giudiziaria di intervenire e di controllare nel corso delle ispezioni; infine che la nuova formulazione normativa impedisse ogni inter­ pretazione che limitasse l’efficacia dell’autorizzazione specifica ai soli locali adibiti ad abitazione, consentendo che le ispezioni com­ piute negli altri locali potessero essere effettuate anche solo con au­ torizzazioni di carattere generale.

In questo caso aver dichiarato che la norma della legge finan­ ziaria riguardante le ispezioni fiscali non è conforme alla costituzio­ ne non costituisce propriamente una censura fatta al legislatore: può essere considerata piuttosto come un invito al legislatore a me­ glio redigere il testo di legge. D ’altra parte la censura è indirizzata non tanto verso l’opera del legislatore quanto nei confronti di un progetto di legge di iniziativa governativa ma predisposto dall’am- ministrazione. Tra l’altro, nel corso del dibattito, i parlamentari avevano già modificato numerosi punti del progetto, proprio per garantire una migliore tutela dei diritti del contribuente. Il giudice costituzionale si è spinto oltre, ma sempre seguendo lo stesso orien­ tamento che aveva ispirato gli emendamenti presentati dai parla­ mentari.

Questo sta a dimostrare che ben può compiersi un controllo parlamentare sulla costituzionalità delle leggi, che si sviluppa in margine a quello compiuto dal consiglio. N el timore di essere cen­ surato dal giudice costituzionale, il parlamento utilizza un sistema di autocontrollo. D ’altra parte, di fronte alle minacce di ricorso provenienti da parte di una minoranza di parlamentari, il governo è ben più disposto ad accettare emendamenti che meglio rispettino i principi costituzionali. Questo controllo parlamentare non giuri­ sdizionale diventa in pratica sempre più efficace e si traduce in una diminuzione del numero delle dichiarazioni d’incostituzionalità pro­ nunciate dal consiglio costituzionale.

Dopo l’annullamento dell’articolo relativo alle ispezioni fiscali, una nuova disposizione della successiva legge finanziaria riprese le previgente formulazione, modificandola quanto bastava per tener conto delle esigenze manifestate dal giudice costituzionale nella sua decisione del 1983.

Anche la nuova formulazione non ha però completamente sod­ disfatto alcuni parlamentari dell’opposizione che si sono di nuovo rivolti al consiglio costituzionale. Nella loro richiesta sottolineano che ad una lettura attenta il nuovo testo non solo non garantisce a sufficienza il rispetto delle libertà individuali, ma attribuisce al­ l’amministrazione un diritto di controllo occulto che potrebbe esse­ re esercitato senza tener conto delle garanzie che normalmente ac­ compagnano la verifica della posizione fiscale individuale e della contabilità.

Il consiglio costituzionale ha respinto questo secondo ricorso. In primo luogo ha ritenuto che l’articolo criticato non violasse que­

sta volta nessuna di quelle esigenze costituzionali che conciliano la tutela della libertà individuale e la necessità della lotta all’evasione fiscale. In secondo luogo ha considerato rispettati i diritti alla dife­ sa. Da una parte sostiene che il principio del contraddittorio non debba essere garantito nella fase dei controlli ma solo successiva­ mente, quando l ’amministrazione vorrà utilizzare i risultati delle proprie verifiche. D ’altra parte non individua alcun principio costi­ tuzionale che impedisca di utilizzare per un interesse fiscale docu­ menti ed informazioni acquisiti in una regolare verifica quando non ne sia seguita alcuna denuncia penale.

Nel 1989 il consiglio è stato di nuovo investito dello stesso pro­ blema dopo che un articolo della legge finanziaria del 1990 ha mo­ dificato le norme, autorizzando i dipendenti dell’amministrazione fiscale e doganale ad effettuare perquisizioni e sequestri alla ricer­ ca di violazioni ed in particolare ha permesso di aprire bagagli. Il giudice costituzionale ha ritenuto però che neppure le nuove dispo­ sizioni violassero né quelle esigenze costituzionali che permettono di conciliare la tutela della libertà individuale e le necessità della lotta all’evasione fiscale, né i diritti che avevano il loro fondamento in sentenze passate in giudicato, né il principio che vieta la retroat­ tività delle leggi penali più sfavorevoli.

Nel 1991 infine il consiglio ha esaminato una disposizione della legge finanziaria che riguardava i poteri di accertamento degli ad­ detti al controllo del canone audiovisivo. I ricorrenti ritenevano in­ fatti che le modalità di accertamento potessero violare sia la libertà di comunicazione, sia le libertà individuali. Tale disposizione è sta­ ta giudicata sì contraria alla costituzione, ma per un motivo proce­ durale: non poteva essere inserita in una legge finanziaria. Il giudi­ ce costituzionale non si è quindi pronunciato sul fondamento della contestazione.

La giurisprudenza costituzionale in materia di accessi e verifi­ che fiscali ha effettivamente influenzato sia gli organi giudicanti, sia il legislatore.

La corte di cassazione ha infatti in diverse occasioni richiesto all’amministrazione di rispettare rigorosamente quelle garanzie che il consiglio costituzionale aveva indicato nella sua decisione del 1983. In quattro sentenze del 1988 ha sollecitato i presidenti dei tri­ bunali di grande istanza ad esaminare con maggior rigore le richie­ ste di perquisizioni domiciliari presentate dall’amministrazione fi­ nanziaria. D ’altra parte il legislatore è stato spinto ad estendere in

seguito alle imposte indirette ed ai dazi doganali lo stesso controllo giudiziario sulle perquisizioni, dimostrando così di valorizzare quel­ le esigenze che il consiglio costituzionale aveva espresso nella sua decisione del 1983.

4. Il principio di eguaglianza e l’accertamento tributario.

La prima volta che il consiglio costituzionale ha ritenuto che fosse stato violato il principio di uguaglianza è stato, come si è vi­ sto, nella decisione del 27 dicembre 1973 su quell’articolo della leg­ ge finanziaria per il 1974 che intendeva rendere più elastico il regi­ me della tassazione d’ufficio. Per altro il legislatore aveva previsto che il nuovo e più favorevole regime non potesse essere applicato ai contribuenti maggiori.

Il consiglio ha ritenuto che questa scelta violasse il principio di eguaglianza davanti alla legge contenuto nella dichiarazione dei di­ ritti dell’uomo del 1789 ed ha pertanto dichiarato incostituzionale l’intero articolo.

Anche se non si riferisce, nella sua decisione, a nessun articolo della dichiarazione, sembra che il consiglio abbia voluto applicare l’art. 6 secondo il quale: « la legge deve essere uguale per tutti, sia se tutela, sia se reprime ». La scelta può sorprendere perché l’im­ posta non può essere considerata come una forma né di protezione, né di punizione, perché sarebbe in quest’ultimo caso difficilmente compatibile con quell’assenso aU’imposta contenuto nell’art. 14 del­ la stessa dichiarazione.

Prima di questa decisione del 1973 l’art. 6 della dichiarazione del 1789 era stato interpretato dalla dottrina come una disposizione che stabiliva il principio dell’uguaglianza davanti alla legge e non certo come un principio che introduceva un’uguaglianza nella leg­ ge. In sostanza secondo tale principio la legge (fosse essa di tutela o di repressione) avrebbe dovuto essere applicata a tutti nella stessa maniera, ma il legislatore non sarebbe stato tenuto a stabilire per tutti lo stesso regime. Al contrario, si riteneva allora che fosse com­ pletamente libero di prevedere regimi diversi, in particolare in ma­ teria fiscale, in considerazione di specifiche situazioni. Il principio di eguaglianza imponeva semplicemente di applicare le norme nel­ lo stesso modo a tutti coloro cui erano destinate, una volta che fos­ sero state stabilite dal legislatore. In altre parole, il principio inten­ deva limitare il potere del governo e dell’amministrazione

nell’ap-plicare la legge, ma non quello del legislatore nel formulare la legge.

La decisione del 27 dicembre 1973, attribuendo un’ampia effi­ cacia all’art. 6 della dichiarazione dei diritti dell’uomo, ha concorso di fatto e creare un nuovo principio: quello dell’eguaglianza nelle scelte normative, che si rivolge direttamente al legislatore. Da quel momento ci si è chiesti quali fossero i limiti che questo principio di efficacia costituzionale poneva alla libertà del legislatore.

Nella sua decisione del 1973 il consiglio costituzionale ha rite­ nuto che il legislatore non potesse applicare una diversa disciplina ad alcuni contribuenti solo in considerazione dell’entità dei loro redditi. Il regime di tassazione d’ufficio sulla base delle spese avrebbe dovuto applicarsi a tutti i contribuenti, in particolare di fronte alla possibilità, per ogni contribuente, di fornire al giudice la prova contraria alle pretese delFamministrazione.

Gradatamente il consiglio costituzionale ha precisato l’efficacia del principio di eguaglianza. Secondo una formula oggi consolidata, questo principio non confligge « né con la scelta di regolare in ma­ niera diversa situazioni diverse, né con quella di derogare all’egua­ glianza per ragioni d’interesse generale, purché nell’uno e nell’al­ tro caso la differenza di disciplina sia coerente con l’oggetto della legge ».

Come il giudice costituzionale ha dato applicazione a queste differenti disposizioni in materia fiscale? Può esistere una differen­ za tra l’eguaglianza davanti alla legge e quella davanti all’imposta?

Per un certo periodo il consiglio si è limitato ad utilizzare le espressioni « principio di eguaglianza » o « principio di eguaglianza dei cittadini avanti la legge ». Da una dozzina d’anni a questa parte però utilizza più frequentemente l’espressione « di eguaglianza da­ vanti all’imposta ». Si precisa in questo caso che il legislatore può violare il principio di eguaglianza davanti all’imposta solo per moti­ vi d’interesse generale e sulla base di criteri oggettivi e razionali.

Dopo la decisione del 1973 sulla procedura di tassazione d ’uffi­ cio, è stato necessario attendere il 1986 perché il consiglio giudicas­ se di nuovo una disposizione fiscale in contrasto con il principio di eguaglianza. Si trattava di un articolo della legge finanziaria inte­ grativa per il 1986 che riduceva da quattro a due anni il periodo durante il quale l’amministrazione avrebbe potuto effettuare accer­ tamenti sulle dichiarazioni di contribuenti che avessero esclusiva- mente redditi formati da stipendi o da pensioni. Per gli altri, questo periodo è stato ridotto solo da quattro a tre anni. Secondo il consi­

glio era stato violato il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge dal momento che non potevano avvalersi dell’agevolazio­ ne contribuenti che pur in condizioni pressoché identiche, erano ti­ tolari, anche in percentuale minima, di redditi diversi da stipendi o da pensioni.

Va sottolineato che in quest’occasione l’intervento del giudice costituzionale ha contribuito non a rafforzare le garanzie per il con­ tribuente, ma a sopprimere la disposizione più favorevole. Infatti in questi due casi, per effetto della sua decisione, è stato ristabilito un regime fiscale più. rigoroso, nella considerazione che alcuni con­ tribuenti sarebbero stati esclusi arbitrariamente dal regime più fa­ vorevole introdotto dal legislatore.

D ’altra parte, fino al 1989, sono stati sempre rigettati i ricorsi che invocavano il rispetto del principio di eguaglianza quando fos­ sero state introdotte nuove imposte, soppressi benefici fiscali o pro­ cedure che rafforzassero l’accertamento tributario.

È stato necessario attendere il 1989 perché il consiglio ricono­ scesse una violazione del principio di eguaglianza inteso nel senso di rafforzare le garanzie del contribuente. L ’art. 102 della legge fi­ nanziaria per il 1990 consentiva all’amministrazione di richiedere al giudice tributario di poter correggere un proprio errore quando non avesse carattere sostanziale. Una possibilità offerta in qualun­ que momento, anche se fosse trascorso il termine di prescrizione. Il consiglio ha riconosciuto la violazione del principio di eguaglianza dal momento che « l’amministrazione avrebbe potuto, con una semplice richiesta e per correggere un errore proprio, impedire al­ l’altra parte di potersi avvalere di una prescrizione già legalmente maturata mentre la stessa avrebbe potuto avvalersene, al pari di ogni altro contribuente ».

5. I principi dell’art. 8 della dichiarazione dei diritti dell’uomo, il

rispetto dei diritti di difesa e l’accertamento tributario.

L ’art. 8 della dichiarazione dei diritti dell’uomo stabilisce i principi costituzionali fondamentali in diritto penale: « La legge de­ ve prevedere solo le pene che siano strettamente e manifestamente necessarie e nessuno può essere punito se non in forza di una legge approvata e promulgata prima del delitto e che sia legittimamente applicata ».

Secondo il consiglio costituzionale da queste disposizioni, così come dai principi fondamentali riconosciuti dalla legge, si desume che una pena non possa essere applicata se non quando siano os­ servati i principi di legalità sia delle violazioni, sia delle sanzioni, il principio di necessità delle pene, quello di non retroattività della legge penale più severa, oltre che naturalmente quello di rispetto dei diritti di difesa. In particolare il suddetto consiglio ha esteso l’efficacia di questi principi all’ambito fiscale, ritenendo che non ri­ guardino solo le pene applicate dal giudice penale, ma qualunque sanzione con carattere repressivo, anche se applicabile da un orga­ no non giurisdizionale. In tal modo si crea un vero e proprio statuto costituzionale delle sanzioni fiscali che impone al legislatore di ri­ spettare, in occasione dell’approvazione di ogni nuova disposizione sull’accertamento tributario, i principi di proporzionalità, di non re­ troattività e di rispetto dei diritti di difesa.

a) Il principio di proporzionalità.

N el 1987 alcuni parlamentari hanno presentato ricorso al con­ siglio costituzionale contro un articolo della legge finanziaria del 1988 che sanzionava, con una somma corrispondente all’imponibi­ le, la pubblicazione o la divulgazione dei redditi di un contribuente.

La stessa sanzione si applicava già per la divulgazione dell’am- montare dell’imposta. Il consiglio ha però ritenuto che la sanzione avrebbe potuto essere in numerosi casi manifestamente sproporzio­ nata, ponendosi in conflitto con l’art. 8 della dichiarazione dei dirit­ ti dell’uomo, secondo il quale la legge deve prevedere solo pene che siano strettamente ed evidentemente necessarie.

b) Il principio di non retroattività.

Le leggi tributarie sono spesso retroattive con diverse forme: quando si fanno retroagire al primo gennaio la base e le aliquote dell imposta sul reddito e di quella sulle società, quando interviene una legge di ratifica, ovvero una legge interpretativa o integrativa di ratifica. Già nel 1986 un rapporto che per migliorare i rapporti tra cittadini e l’amministrazione fiscale e doganale (rapporto Aicar- di) aveva condannato, in maniera severa, l’abuso della retroattività in materia fiscale. Se il rapporto non ha trovato applicazione sul piano legislativo, la giurisprudenza costituzionale è stata indotta a limitare questa pratica retroattiva.

Nel 1980 il consiglio costituzionale aveva limitato l’efficacia dell’art. 8 della dichiarazione del 1789 sulla non retroattività delle leggi al solo ambito penale. Già però nel 1982 ha esteso lo stesso principio anche alle sanzioni fiscali.

Con il 1986 stabilisce i limiti alla retroattività in materia tribu­ taria: « Il potere che in deroga all’art. 2 del codice civile consente al legislatore di modificare con effetto retroattivo per ragioni d’in­ teresse generale le norme che dovranno essere applicate dall’am- ministrazione finanziaria e dal giudice tributario, incontra un dupli­ ce limite: da un lato la retroattività non può essere efficace nei con­ fronti di comportamenti che, anteriori alla pubblicazione delle nuo­ ve disposizioni, non erano soggetti nemmeno alla legge previgente; dall’altro non può far venir meno i diritti che siano stati riconosciuti da una sentenza passata in giudicato ».

Dopo due anni il consiglio aggiunge che, come corollario del principio di non retroattività delle sanzioni fiscali, non è possibile applicare sanzioni ad una situazione legalmente prescritta.

Secondo questa giurisprudenza, quindi, da un lato non si con­ sente alla legge retroattiva d’intervenire in materia sanzionatoria (nei confronti quindi di ogni maggiorazione che non possa essere considerata un accessorio dell’imposta, come gli interessi di mora) e dall’altro si esclude l’applicabilità di disposizioni retroattive nei confronti di sentenze passate in giudicato (più precisamente quelle considerate definitive, anche se pende ricorso in cassazione). Ne deriva una differenza a seconda che sia coinvolto nella controversia tributaria il giudice ordinario o quello amministrativo. N el primo caso la decisione diviene definitiva, già dopo il primo grado, men­ tre nel secondo è necessario attendere la decisione della corte am­ ministrativa d’appello.

N el caso di controversia avanti il giudice amministrativo, que­