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I distretti industriali : un « modello » da esportare ?

Data la « vocazione predatrice » delle multinazionali e la volatilità dei loro insediamenti, i distretti industriali italiani sono stati spesso indicati come un possibile modello alternativo di espansione capitalista. La forte interazione fra variabili socio-culturali e fattori strettamente economici che caratterizza il distretto industriale, il suo radicamento nel « territorio » locale e l’importanza dei valori etico-morali condivisi come base della sua vita economica, ne hanno fatto un modello : quello di un capitalismo « dal volto umano », non dominato dalle logiche concorrenziali esacerbate cui sono sottoposte le grandi multinazionali, ma pervaso di un mix di concorrenza e di cooperazione i cui protagonisti principali sono imprese di piccola e media dimensione (a dire il vero, sempre più « media » e sempre meno « piccola », globalizzazione

oblige).

A parte le contraddizioni intrinseche di questo modello e la sua indissociabilità dalla logica di sviluppo del capitalismo (dati i rapporti di interdipendenza che legano il sistema distrettuale

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È però attualmente in corso un processo di riduzione della partecipazione azionaria di Sea, che intende restare soltanto con una quota del 10%. Il 26% restante verrebbe acquisito da Grupo Corporación América. Cf.

<http://www.aa2000.com.ar/aa2000_i_socios.aspx> (consultato il 23/10/2009).

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Gli IDE effettuati da soggetti esteri in Cile nel 2008 riguardano principalmente il settore minerario (45% del totale), il settore dell’energia/gas/acqua (26%) e quello dei trasporti (8,1%). Le imprese italiane, fra cui in particolare (ma non solo) Enel, sono presenti soprattutto nel settore dell’energia elettrica e in quello delle infrastrutture (autostrade). Cf. MINISTERO DEGLI AFFARI

ESTERI, « Cile », op. cit., p. 15, p. 18-19.

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Il trickle down (gocciolamento verso il basso) sarebbe quell’effetto positivo di ricaduta degli investimenti esteri in un dato settore di un paese arretrato. Lo sviluppo di tale settore, dovuto per esempio a un trasferimento di tecnologia, ricadrebbe poi « a cascata » su altri settori, dando così impulso a un processo di sviluppo locale endogeno. Per una critica di tale teoria, alla luce dei risultati effettivamente ottenuti, vedasi ad esempio STIGLITZ, J., La globalizzazione e i suoi oppositori, Turin, Einaudi, 2002.

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Qualunque sia la natura del settore ove avviene l’investimento estero, ci sembra impossibile non constatare il sorgere di situazioni paradossali come quella di Benetton in Argentina. Dall’inizio degli anni 90, in seguito all’acquisto di più di 900.000 ettari in Patagonia e all’assorbimento dell’impresa agropecuaria Compañía Tierra Sud Argentino S.A., la multinazionale italiana è diventata il maggior proprietario terriero dell’Argentina. È peraltro ben noto il lungo differendo che ha opposto Benetton ai rappresentanti delle popolazioni locali Mapuche, le quali rivendicano il diritto di insediarsi liberamente nelle loro terre di origine.

alla competizione selvaggia delle multinazionali), vale la pena soffermarsi criticamente sull’idea che si tratti di un modello da imitare e da riprodurre in altre zone, segnatamente quelle meno sviluppate. Durante gli ultimi anni, tale idea si è diffusa con particolare intensità in alcuni paesi latino-americani, come il Cile, l’Argentina e il Brasile, dove sono presenti conglomerazioni di piccole e medie imprese settorialmente specializzate che si avvicinano più o meno all’idealtipo del distretto italiano. Si consideri ad esempio il caso cileno :

L’espansione di un sistema di PMI – e di distretti industriali (che rientra tra gli obiettivi del nuovo Governo [cileno]) – apre inoltre un grande spazio di inserimento agli imprenditori italiani interessati ad investire in Cile e all’internazionalizzazione delle nostre PMI. L’Esecutivo cileno ha più volte manifestato il proprio interesse a studiare e, con gli opportuni aggiustamenti, a “riprodurre” in loco il sistema italiano delle PMI (legislazione di appoggio alle PMI, sistema di credito, distretti industriali, consorzi all’esportazione)129.

In realtà, la possibilità di riprodurre sul posto il modello distrettuale ci pare assai limitata e del resto l’idea stessa di tale riproducibilità sembra essere funzionale alla consolidazione dei rapporti di forza già esistenti fra area « forte » (la quale « esporta » un concetto che le è proprio) e area « debole » (che sarà comunque in ritardo nella metabolizzazione di un modello innestato dall’esterno).

La caratteristica essenziale di un distretto, almeno nella sua forma ideale, è la fortissima compenetrazione di fattori economico-produttivi e di variabili extra-economiche (la cultura locale, il sistema di valori condivisi, il sistema di norme comportamentali non scritte) : ciò costituisce l’humus da cui sorgono meccanismi cooperativi spontanei fra gli operatori economici locali; meccanismi che stimolano l’innovazione e la competitività delle PMI del « luogo », la cui prosperità economica consolida a sua volta il substrato socio-culturale. Ma tale humus è difficile da creare laddove – per ragioni storiche, istituzionali o di altra narura – non ve ne sono le precondizioni, come si è potuto constatare nelle zone più arretrate del Mezzogiorno italiano, ove è emersa chiaramente la difficoltà di riprodurre il modello distrettuale della Terza Italia.

Come detto, le concentrazioni di PMI specializzate non sono una novità nell’America centro- meridionale. Si pensi al cluster calzaturiero di Guadalajara, in Messico, a quello del tessile- abbigliamento nell’area di Medellín, in Colombia, oppure a quelli del tessile, dell’elettromeccanica, dell’alimentare, delle piastrelle e dei mobili dello Stato di Santa Catarina, nel sud del Brasile. Ciò che distingue l’idealtipo distrettuale da una mera conglomerazione territoriale di imprese, però, è la densità del tessuto di relazioni sociali locali, le quali permettono di andare oltre una pura cooperazione spontanea per sfociare in accordi territoriali espliciti, deliberati e, in quanto tali, « strategici »130. Molti ritengono d’altronde che gli stessi distretti italiani siano oggi a un bivio : o prendono coscienza della necessità di tali strategie di cooperazione esplicita e pianificata, o rischiano di perdere competitività. Se il compito è già arduo nel loro caso, potrebbe esserlo a maggior ragione per le aree emergenti, dove – come mostrano certi studi – le esternalità « spontanee » distrettuali tendono a essere meno presenti. Ma come dicevamo poc’anzi, al di là della reale fattibilità del progetto, al di là dell’effettiva riproducibilità del modello distrettuale, ci resta il dubbio della « bontà » del progetto stesso : è giusto voler esportare un tipo di sistema economico e instaurarlo in un’altra area ? È giusto considerarlo, appunto, un « modello » ? Chi è destinato a guadagnarci veramente, alla fin fine ? È davvero realistico pensare che possa esistere un

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MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI, « Cile », op. cit., p. 19.

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giorno un sistema di distretti in Cile, capace di esportare i suoi prodotti made in Chile con la stessa autonomia e con lo stesso successo con cui i distretti italiani esportano oggi il loro

made in Italy ? Nelle logiche economiche e geopolitiche mondiali, ci sarà veramente spazio

per le PMI cilene, argentine e brasiliane e per i loro made in ? Ci sembra lecito nutrire dei dubbi. E ciò per sfiducia non nelle capacità degli operatori sudamericani, di cui non ci sarebbe ragione di dubitare, ma nella reale disponibilità dei paesi ricchi a modificare sostanzialemente i rapporti di forza esistenti.

Ovviamente, il discorso ufficiale e istituzionale è ottimista e lascia intendere il contrario, enfatizzando i sempre più numerosi progetti di cooperazione fra economie avanzate ed emergenti, la cui « complementarietà » costituirebbe appunto la base di detti progetti. In effetti, nel caso dei rapporti fra Italia e Sudamerica si assiste da tempo alla proliferazione di accordi di cooperazione che vengono stipulati fra consorzi pubblico-privati situati da ambo i lati dell’Atlantico, con speciale attenzione al futuro dei distretti industriali. Per esempio, il Cosmob (società consortile per azioni pubblico-privata, la cui missione è lo sviluppo del settore mobiliero delle Marche)131 ha avviato il Progetto America Latina, al fine di stimolare la cooperazione fra le aziende marchigiane della filiera legno-arredo e quelle sudamericane, in particolare in Argentina e in Brasile. Un progetto più specifico, infatti, è la « Partnership strategica-Filiera del mobile in Brasile », i cui partecipanti sono il Cosmob, il Sebrae (il servizio brasiliano di supporto alla micro e piccola impresa) e l’Inter American Development Bank (nata nel 1959 per iniziativa dei paesi latino-americani per stimolarne lo sviluppo economico e sociale)132.

Un altro esempio emblematico del fenomeno in esame è fornito dalla RIAL (Rete Italia America Latina), associazione non profit nata nel 2004 per facilitare i rapporti istituzionali fra gli operatori lombardi (Regione, Comune di Milano, Camera di Commercio di Milano, Fondazione Fiera Milano, imprenditoria lombarda) e i loro equivalenti latino-americani, insistendo sul territorio quale base della crescita economica e dello sviluppo sociale :

La nostra missione è quella di promuovere spazi nuovi di iniziativa e dialogo con interlocutori pubblici e privati dei paesi dell’America Latina allo scopo di dar vita a forme innovative di partnership e di dialogo fra “territori” soprattutto nel settore delle PMI (piccole e medie imprese). In questa prospettiva la RIAL si propone di : A) Favorire i rapporti istituzionali e il dialogo politico fra le istituzioni lombarde e le analoghe controparti latino- americane, sia a livello nazionale che regionale, attraverso l’organizzazione di seminari, conferenze, missioni e eventi culturali […] ; B) Promuovere l’internazionalizzazione del sistema lombardo delle PMI, dei distretti industriali e reti di imprese attraverso il trasferimento delle “migliori pratiche” e della “cultura dell’integrazione”. L’America Latina che ha sul proprio territorio aggregazioni settoriali di imprese, chiede un maggior grado di coordinamento e sinergia fra loro e con le istituzioni locali (municipalità, banche, scuole, università) per creare e capitalizzare le “economie esterne” presenti sul territorio ; C) Far conoscere gli aspetti meno noti dello sviluppo locale italiano e lombardo (accesso al credito, sistemi di finanziamento per le PMI, servizi per l’internazionalizzazione delle PMI), su cui la RIAL intende coinvolgere la partecipazione di istituzioni finanziarie per trasferire le conoscenze, in particolare per l’accesso al credito delle PMI (come i Consorzi Fidi, i fondi fiduciari e le Banche di credito cooperativo), che possono essere adattate al contesto dei paesi latinoamericani133.

131

Fra i soci del Cosmob vi sono l’Amministrazione Provinciale di Pesaro e Urbino, i Comuni di Pesaro e di Fano e più di 200 imprese del settore del mobile e del legno. Cf. <http://www.cosmob.it> (consultato il 24/10/2009).

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Cf. <http://brasile.cosmob.it> (consultato il 24/10/2009).

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L’oggetto della discussione e della nostra critica non è la buona fede di tali iniziative. Quand’anche ne dubitassimo, non avremmo infatti i mezzi per verificarne la veridicità. La fonte delle nostre perplessità, in realtà, sta altrove ed è ben più profonda.

Si suole affermare che, per garantire sbocchi di mercato al made in Italy (e, più in generale, al

made in dei paesi avanzati), è necessario un solido sviluppo economico delle aree emergenti

come il Sudamerica. Ma al tempo stesso le logiche della globalizzazione e del neoliberismo, espressione attuale delle logiche di accumulazione del capitale, si nutrono, proprio in quanto tali, degli squilibri fra centro e periferia, fra Nord e Sud. Credere in un solido sviluppo delle zone emergenti – ci sembra – equivarrebbe a sperare che le logiche del capitalismo possano essere sostanzialmente corrette e modificate, ma senza uscire dai meccanismi di moltiplicazione e di accumulazione dei profitti che del capitalismo sono intima essenza. Questo, a nostro avviso, è una contraddizione in termini.

L’ideologia dominante promuove i meccanismi del mercato e della governance, basati sulla pura negoziazione e sulla contrattazione, come sostituti del governo e della Legge per soddisfare i bisogni e le aspirazioni degli individui, abbandonando il perseguimento di un disegno comune per la società (che non è riducibile a una mera sommatoria di individui) e lasciando credere ingenuamente che la definizione di regole del gioco valide per tutti sia sinonimo di uguaglianza. Al contrario, le logiche di mercato sono per loro natura logiche di dominazione, subordinazione e sfruttamento. Sul « mercato » ciascuno arriva con una sua propria dotazione iniziale di risorse – senza che la presenza di forti disparità fra i partecipanti abbia la minima importanza – e la regola del gioco vuole che vinca il « migliore », cioè il più svelto, il più abile o il più fortunato (e tanto peggio per i deboli o i meno abili). I processi di globalizzazione seguono la stessa logica. Non promuovono la complementarietà e il multilateralismo fra paesi e sistemi economici aventi diverse posizioni di partenza nella competizione (e nella presunta « cooperazione »), ma tendono piuttosto a consolidare i rapporti di forza esistenti :

Una conseguenza dei fenomeni della globalizzazione e della regionalizzazione è il sorgere e il dispiegarsi di nuovi meccanismi in virtù dei quali […] le potenze centrali sviluppano attualmente un’integrazione selettiva – e non totale – della periferia del sistema […]. Come si è segnalato anteriormente, la globalizzazione è un termine che crea confusione e malintesi. Tale termine suppone che le azioni dei principali attori internazionali siano dirette a una maggior integrazione di tutte le parti del sistema mondiale. Tuttavia, nella realtà è dato verificare che questa globalizzazione si accompagna all’esclusione o all’emarginazione di molti paesi, regioni e individui dai benefici dello sviluppo mondiale […]. Le nazioni sottosviluppate vengono così integrate solo nella misura in cui ciò conviene ai principali centri del potere mondiale, cioè come aree per svolgere la produzione e collocarvi beni, servizi e investimenti. Però queste stesse nazioni sovrane non vengono prese in considerazione al momento di prendere le decisioni, [come sarebbe invece necessario] per ottenere una piena integrazione economica nazionale che permetta il loro sviluppo134.

Naturalmente, siamo ben coscienti che problematiche così complesse non possono essere trattate esaustivamente in due o tre righe, né è nostra intenzione risolverle precipitosamente liquidandole in poche battute. L’idea qui proposta, piuttosto, è di riflettere su come le questioni di più grande portata – le contraddizioni intrinseche del capitalismo, la forza del modello neoliberista e della sua ideologia, il tono e il contenuto del discorso dominante – possano fornire un valido quadro analitico in cui vengono a iscriversi temi più specifici, come quello dei rapporti economici fra Italia e Sudamerica affrontato in queste pagine.

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BARÓ HERRERA, S., Globalización y desarrollo mundial, La Havane, Editorial de Ciencias Sociales, 1997, p. 50, p. 71, (traduzione mia).

Riassunto - Résumé

Gli scambi commerciali Italia-America Latina : dati statistici e temi di riflessione

Quest’articolo propone alcuni spunti di riflessione sui meccanismi che consolidano i rapporti di forza tra i paesi più ricchi e le cosiddette aree emergenti. In tale prospettiva, i flussi commerciali fra Italia e America Latina, così come gli investimenti italiani in questo continente – soprattutto quelli realizzati nei settori dei servizi pubblici – sembrano confermare che la « cooperazione » e la « complementarietà » tra le economie « avanzate » e quella sudamericana contribuiscono di fatto a cristallizzare un rapporto di subordinazione della seconda rispetto alle prime. Allo stesso modo, la questione della riproducibilità del modello dei distretti industriali italiani in Sudamerica rinvia alla difficoltà di stabilire relazioni di cooperazione realmente paritarie fra paesi ricchi e paesi emergenti, date le contraddizioni intrinseche del processo di globalizzazione neoliberista e del capitalismo stesso, di cui tale processo è espressione.

Les échanges commerciaux entre l’Italie et l’Amérique latine : données statistiques et sujets de réflexion

Cet article propose une réflexion sur les mécanismes qui consolident les rapports de forces entre les pays les plus riches et les zones dites « émergentes ». Dans cette perspective, les flux commerciaux entre l’Italie et l’Amérique latine ainsi que les investissements des multinationales italiennes dans cette région du monde, notamment dans les secteurs des services publics, semblent confirmer que la « coopération » et la prétendue « complémentarité » entre les économies « avancées » et l’économie sud-américaine contribuent en réalité à la cristallisation d’un rapport de subordination de la seconde vis-à-vis des premières. De même, la question de la reproductibilité du modèle des districts industriels italiens en Amérique latine nous renvoie à la difficulté d’établir des relations de coopération réellement égalitaires entre pays riches et pays émergents, compte tenu des contradictions inhérentes au processus de mondialisation néolibérale et au capitalisme lui-même.