VeraLúcia DE OLIVEIRA
Università degli Studi di Perugia
Il bisogno intrinseco di ogni essere umano di appartenere a un luogo, reale o immaginario che sia, porta gli individui nomadi e migranti a cercare nuove rappresentazioni simboliche per il concetto di patria, identificata, di volta in volta, con la terra di origine, con il paese in cui vivono, con una lingua, con una religione, con una valigia piena di ricordi, con il passato o con un futuro in cui sognano di realizzarsi159.
Minha pátria não é a língua portuguesa La mia patria non è la lingua portoghese. Nenhuma língua é a pátria. Nessuna lingua è patria.
Minha pátria é a terra mole / La mia patria è la terra molle / e peganhenta onde nasci e appiccicosa dove sono nato e o vento que sopra em Maceió160. e il vento che soffia a Maceió.]
Parto da questi incisivi versi del poeta brasiliano Lêdo Ivo che instaurano un dialogo intertestuale con Fernando Pessoa per il quale la patria era la lingua portoghese, per una riflessione sulla poesia e sul mio percorso fra due lingue e due culture diverse, quella brasiliana e quella italiana, che sono la linfa vitale del mio lavoro creativo, cercando di situarmi in uno spazio, comunque concreto, e in un’idea di patria come luogo dell’identità e della memoria. E inizio dicendo che per me patria, oltre al luogo in cui si nasce o in cui si vive, è il presente vissuto nel corpo con tutta l’intensità possibile, l’istante fragile e sfuggente, il luogo in cui sono e quelli in cui sono stata e che mi porto dentro, le persone incontrate e amate, le speranze passate e presenti, i progetti continuamente rielaborati in funzione del flusso della vita che mi attraversa.
Tutto ciò alimenta la mia poesia, diventa materia, forma, corpo di parola ma non solo, perché poesia è maternità, è partecipare in qualche modo alla creazione del mondo. In tal senso è un divenire, un fluire costante del tempo, dentro e fuori dal krónos. La poesia è il miracoloso regresso a un tempo di genesi delle cose, momento in cui la coscienza si apre alla nominazione del mondo. L’atto di nominare in un’altra lingua ha seguito lo stesso processo e sin dall’inizio l’italiano è stato sentito da me come lingua poetica. Assimilato dopo il portoghese, questo nuovo codice mi ha portato a rifare lo stesso percorso embrionale ma questa volta con piena consapevolezza, con una lucidità che illuminava ogni attimo. Ho vissuto la genesi in un’altra lingua come qualcuno a cui è dato di poter accompagnare il formarsi di ogni nucleo di cellule, di ogni mattone di carne del suo corpo e segue questo processo al contempo dal di dentro e dal di fuori.
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Una prima versione di questo testo, tradotto in portoghese e notevolmente rielaborato, è stata presentata al Simpósio Literatura,
Crítica, Cultura III : Interfaces, dal 26 al 29 maggio 2009, Juiz de Fora, Universidade Federal de Juiz de Fora, con il titolo
« Atravessamentos de fronteiras » (in corso di stampa).
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Una lingua è relazione, è desiderio di sentire l’altro, è fame di una voce che, all’inizio, ci arriva attraverso le pareti del corpo di nostra madre, voce di madre che determina la melodia, il ritmo, il timbro con il quale, in un certo senso, plasmeremo l’universo. Ho pensato molte volte a tutto ciò mentre osservavo che, con il tempo e con la distanza, la mia voce andava somigliando sempre di più a quella di mia madre tanto che, quando sono in Brasile a casa sua e le persone telefonano, se risponde lei pensano che sia io e viceversa, confondendo le nostre voci. Questo si è verificato, penso, perché ritornare in Brasile – e non parlo solo di viaggio fisico – ha significato per molti anni tornare alla « sostanza del cordone ombelicale161 » e al tempo della costituzione di una relazione con la realtà ; in altre parole, ha significato tornare alla lingua materna e alla lingua di mia madre, il che non sempre è la stessa cosa.
Questo ritorno, tuttavia, non deve essere confuso con il desiderio di recuperare un Eden perduto e impossibile oppure come un’idealizzazione della prima fase della vita nella quale ancora non si sono verificati molti dei conflitti e crisi che avremmo vissuto in seguito. È in realtà un impulso, un impeto a presenziare al fiat lux che ci ha strappati al nulla silente, desiderio molto umano di rivivere tale esperienza in una forma integra e totale, cosa che la poesia, che è gnòsis, rende possibile.
La poesia è un’alchimia misteriosa, data forse agli uomini non da Dio ma dal suo opposto, in lotta contro il decadimento di ogni cosa. Essa sfida il tempo, strappa da lui frammenti di sostanza che si trasformano in persone e cose, mutano in immagini concrete, in parole dense, in vite piene, percepite dai nervi e dalle vene, condensate negli angoli del corpo, nelle sensazioni giustapposte e sinestesiche che restano come un fiore aperto o come una pietra portata da una parte all’altra della coscienza, ciottoli lapidati da onde rivolte che approdano, di quando in quando, ai bordi della bocca.
Da quando ho iniziato a scrivere poesia – afferma Octavio Paz – mi sono chiesto se valeva realmente la pena farlo e se non sarebbe stato meglio trasformare la vita in poesia che fare poesia con la vita162 ». Questioni simili accompagnano ogni processo creativo poetico e trovano forse risposte nell’incarnarsi stesso della parola nel corpo, perché il verbo è voce e la voce è qualcosa di fisico e di corporeo, la voce partecipa concretamente alle relazioni del mondo. « La poesia – aggiunge ancora Paz – è conoscenza, salvezza, potere, abbandono. […] La poesia rivela questo mondo, ne crea un altro » ; è « invito al viaggio, ritorno alla terra natia163.
Per me la poesia nega la storia e nega la morte, per questo è sacra e maledetta ad un tempo, è epifania e contemporaneamente nostalgia, assenza della vita in sé che si è cristallizzata nella nostra coscienza, nelle nostre rughe e nei nervi, ma che è passata, scivolata dalle nostre mani. È maledetta perché sfida la precarietà che siamo, vuole rimanere ed esige che rimaniamo in ogni nostro gesto e in ogni momento vissuto e sentito fino alle ultime conseguenze.
In questo dialogo di presenze e di assenze, la poesia si avvinghia al dolore fisico e dell’anima poiché non c’è momento che viviamo con più intensità di quelli di sofferenza, in cui abbracciamo l’essenza e la concretezza totale del nostro essere, dal dito mignolo fino ai muscoli che governano il cuore. Allora, poesia è anche fecondarsi di parole fragili e ferite, che il mondo non vuole contenere o conoscere. A tale proposito, Umberto Saba, poeta segnato dall’abbandono del padre, che neppure ha conosciuto, ha affermato : « Ci deve essere stato,
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DE OLIVEIRA,V.L., Entre as junturas dos ossos, Brasília, Ministério da Educação, 2006, p. 57.
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Cf. PAZ O., O Arco e a Lira, trad. de O. Savary, Rio de Janeiro, Nova Fronteira, 1982, p. 9.
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all’inizio della mia vita, un errore, come quando cominciamo ad abbottonare male una camicia e poi non è più possibile aggiustare l’errore se non rifacendo tutto di nuovo, dall’inizio164 ».
I poeti sono ciclici e ossessivi, non accettano il passare del tempo e la poesia è come una conchiglia in cui risuona e si rifà continuamente l’esistenza, sempre varia in ognuno di noi e sempre uguale nella percezione che l’inizio contenga in sé già la propria fine. I poeti percorrono questa rotta inversa conoscendo, per rivelazione, la strada che li porterà al nucleo di tutto e a come aprire la fornace in cui le cose si generano, a come toccare l’incandescente, la fiamma in cui questa energia si deflagra e ci consuma, la scintilla del verbo nelle mani che sopportano le conseguenze di avere sfidato Dio e rubato il poema. C’è però un altro aspetto fondamentale nella poesia e nella letteratura in generale : attraverso di essa abitiamo il mondo, lasciamo l’angusto del nostro corpo e ci spingiamo verso l’identità di cose e persone attorno a noi. Scrivere è, allora, essere l’Altro, diventare l’Altro, estraniarsi e vivere dal di dentro un’alterità che ci rapisce e ci rifiuta allo stesso tempo. Questo desiderio di conoscere intimamente e intrinsecamente l’altro, con le sue contraddizioni e la sua irritante e impenetrabile densità e differenza, muove la letteratura fin dall’inizio dei tempi.
Se l’impulso che provoca e scatena l’atto della creazione poetica e letteraria è il cercare l’Altro, il contenere l’Altro nei limiti della nostra identità profonda, senza che ci perdiamo nel processo empatico, allo stesso tempo l’Altro ci rifiuta, chiuso nel suo magma, nel suo fortino, al quale abbiamo accesso solo attraverso l’immaginazione e la sensibilità. Creare è, allora, giocare a scacchi con un partner che sembra sempre esporre le nostre stesse viscere e fragilità, raramente le sue. E, tuttavia, è questo gioco che muove la scrittura e anche la traduzione, poiché entrambe sono un percorso verso l’alterità.
Ho sempre avuto una passione per le storie, mi piace sentirle e raccontarle. I miei primi testi erano racconti e sono poi approdata alla poesia poiché la sua essenza e sintesi mi dava la possibilità di condensare tutta una serie di impulsi contrastanti che derivavano non solo dal mio multi-culturalismo di base, ma dal rapporto conflittuale con la realtà iniqua del nostro tempo che discrimina ed emargina tante persone, che contrappone nord e sud, centro e periferia del mondo. Nelle ultime raccolte sono arrivata ad una sorta di fusione fra poesia e prosa, nel senso che i testi paiono frammenti di dialoghi, racconti brevi, brani di storie in cui tanti personaggi rubano la scena all’io lirico, saltano dalla terza alla prima persona, mi trascinano verso una loro problematica alterità. In questo condensarsi di storie, le due lingue si alternano, senza fratture o traumi. Non le mescolo nei testi, avviene una contaminazione molto più profonda di ritmi, forme e modelli estetico-culturali che si fondono.
Non ho cercato l’Italia per necessità impellente di vita, non sono esiliata politica, né vi sono approdata con l’intenzione di stabilirmi definitivamente. Posso dire che nel 1983, quando sono sbarcata per la prima volta a Roma, l’Europa rappresentava per la maggior parte degli universitari brasiliani una meta culturale quasi imprescindibile. L’Europa era un mito per la mia generazione e per me lo era ancora di più l’Italia, la terra d’origine dei miei nonni materni. Mi sono avvicinata all’italiano attraverso la poesia. Da quando ho iniziato a leggere i versi di Ungaretti ho avuto il desiderio di entrare in quell’universo ferito, nella precarietà della vita e della parola che si conficcava nel corpo e nell’anima nel momento della più terribile fragilità, nel tempo di una trincea in cui gli uomini si spegnevano soli. La relazione con
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l’italiano è stata di attrazione e interesse, non è un legame conflittuale. Oltre ai dispiaceri comuni e inevitabili della quotidianità che vivevo in Italia, come li avevo vissuti in Brasile, l’italiano non è mai stato per me la lingua del nemico o di chi mi escludeva, sfruttava o feriva e umiliava, al contrario.
Anche la lingua portoghese è una lingua di convivio dolce, mai ho pensato di lasciarla, mai sono stata ferita da essa. È madre, non matrigna, è sorella e padre e figlia allo stesso tempo che ho modellato anch’io con la mia sostanza. Ho dunque due lingue che mi accolgono, sono materne nel senso più vero del termine, di relazione che ricorda il legame di affetto (e di feto) con la madre. Se instauri un rapporto del genere con una lingua, la poesia ti viene spontanea. Scrivere in italiano mi è venuto naturalmente, senza traumi, solo uno spavento iniziale, un timore di perdere il portoghese come lingua di poesia. Poi le due lingue si sono accomodate, ognuna ha occupato uno spazio, ora vanno molto d’accordo, si parlano e, quando meno me lo aspetto, quando sono distratta, decidono loro come e quando scrivere. Non vedo il bilinguismo come un processo di dispersione o di frammentazione dell’io, bensì come un viaggio nell’anima. Avevo parti di me stessa alle quali non avevo accesso in portoghese, casseforti chiuse al mio sguardo scrutatore, porte serrate che non potevo aprire. È stato necessario acquisire un altro codice linguistico con la stessa intimità con la quale avevo acquisito il portoghese per poter sondare molta parte dell’anima (non tutta, chissà quante lingue occorrerebbero per farlo).
Per concludere, e tornando alla domanda iniziale, la patria può essere una lingua, una madre, un paese, un’identità, ma è soprattutto il mondo vissuto e la memoria che lo modella in forma di parola, in corpo di suono, in voce umana, in canto o compianto, strappato al precario dei nostri passi, all’incerto dei nostri gesti, al friabile dei nostri corpi, al transitorio del tempo e alla fame che ha la morte di cancellarci per sempre.
Riassunto – Résumé
La mia patria è la mia memoria ?
Per gli scrittori, la patria può essere una lingua, una memoria, una storia individuale o collettiva, il corpo, il dolore che portano dentro, la rimozione del passato e il vuoto che ne deriva, che impone la necessità di costruire una nuova identità in un altro luogo, in un nuovo idioma. Quale rapporto i poeti e gli scrittori migranti e bilingui o multilingui stabiliscono con il luogo e con la lingua in cui vivono ? Cercherò di riflettere su tali questioni partendo dalla mia esperienza di scrittura poetica in portoghese e in italiano.
Est-ce que ma mémoire est ma patrie ?
Pour les écrivains, la patrie peut être une langue, une mémoire, un récit individuel ou collectif ou bien le corps, la douleur qu’ils ressentent à l’intérieur d’eux-mêmes, l’effacement du passé et le vide qui en résulte et qui impose la nécessité de construire une identité nouvelle dans un autre lieu, dans un nouvel idiome. Quel est le rapport que les poètes et les écrivains émigrés et bilingues ou multilingues établissent avec le lieu où ils vivent et la langue qu’ils adoptent ? Je me propose de réfléchir à ces questions, en partant de l’expérience de mon écriture poétique en portugais et en italien.