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Il libretto presenta alcune novità su cui vale la pena di soffermarsi. In primo luogo, il lieto fine che corona in ultimo l’amore contrastato e tragico così tipico dell’opera ottocentesca e che spezza la catena fatale degli amori infelici. L’esito positivo della vicenda è necessario in un’opera come Il Guarany che persegue finalità nazionalistiche volte a esaltare la « nascita » del Brasile. In secondo luogo, il personaggio del padre appare alquanto originale nell’ambito della drammaturgia, essenzialmente verdiana, presente sulla scena operistica dell’epoca e consente di entrare, si potrebbe osare affermare, in una fase di superamento di tale drammaturgia. Infatti, contrariamente ai padri, numerosi, presenti nelle opere di Verdi, Don Antonio de Mariz si sacrifica per la salvezza (e la felicità) di sua figlia, il che consente di ribaltare la situazione tipica, e a volte edipica del melodramma ottocentesco come appare ad esempio in Rigoletto (1851). In terzo luogo, la scena del battesimo dell’indiano (IV, 3) è altresì un elemento originale nonché di grande effetto scenico che conferisce una certa verosimiglianza alla vicenda, nonostante il carattere sbrigativo della decisione presa da Pery, e che non trova altri esempi nell’opera italiana dell’800. Il simbolismo del battesimo ha una portata ideologica notevole poiché contribuisce a rassicurare la società occidentale (il

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CONATI, M., op. cit., p. 47.

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pubblico) sul perdurare dei suoi fondamenti mostrando, al contempo, la piena integrazione dell’indigeno che accetta in tal modo scientemente i suoi valori. Infine, benché nell’aria in quegli anni soprattutto in provenienza dall’opera francese, l’esotismo messo in scena da Gomes e dai suoi librettisti appare anche come una novità nel panorama operistico italiano anticipando addirittura l’Aida (1871) di Verdi e Ghislanzoni.

La vicenda dell’amore (inizialmente) impossibile tra un indiano guaranì e una bianca suona come un’eco della storia del Brasile imperiale dell’800, paese schiavista dominato dall’aristocrazia di origine europea, e solleva certamente numerose questioni sull’identità e la società brasiliana come, ad esempio, la distruzione dell’eredità culturale endogena operata dai colonizzatori. Attraverso la coppia formata da Cecilia e Pery, dove è interessante notare che è l’uomo, cioè l’indiano, il fondatore della « nuova » razza che simbolicamente popolerà il Brasile, è però altresì evidente una visione rousseauiana del passato con il rinvio al mito del buon selvaggio ma, anche, a quello della mitica coppia dell’Eden.

Considerato come un capolavoro della letteratura indianista romantica, il romanzo di Alencar si conclude con una scena apocalittica in cui un’esplosione distrugge il castello di Don Antonio e annienta i mercenari spagnoli, seguita da una tempesta che si trasforma in diluvio e che lascia come unici superstiti proprio Cecilia e Pery i quali si metteranno in salvo arrampicandosi su una palma e da lì scruteranno l’orizzonte del « nuovo » mondo come dei novelli Adamo ed Eva da cui nascerà la prole del futuro Brasile. Nel libretto, invece, la fine è molto più condensata ma lascia comunque indovinare lo stesso esito : « Si vede da lungi il campo degli Aimorè e sopra una collina Cecilia, che alla catastrofe del castello cade in ginocchio sorretta da Pery, che le addita il cielo »429. Le modifiche operate nel finale sono soprattutto dovute a difficoltà di carattere tecnico oltre che finanziario, e si è dunque conservata soltanto l’esplosione del castello.

Rispetto alla fonte originaria, la versione operistica radicalizza la contrapposizione di Bene e Male estendendola a più livelli : se Pery incarna il mito del buon selvaggio, l’aimorè Cacico rappresenta il lato oscuro e pericoloso della cultura indigena che culmina nella cerimonia del cannibalismo (atto 3°) ; se Don Antonio esprime l’ideale del sacrificio, Gonzales gli si contrappone con il complotto e lo spergiuro, temi tipici dell’opera ottocentesca. L’unione di Cecilia e Pery, benedetta da Don Antonio e resa possibile dalla conversione dell’indiano al cristianesimo, sintetizza idealmente la vittoria del Bene ma anche l’accettazione dell’ideologia dei dominatori, dei conquistatori : si tratta dunque di un ottimo esempio di integrazione oppure di rinuncia alla propria identità per un’identità multipla, più complessa ?

Il Guarany è un tentativo di mediazione tra il melodramma italiano, donde la rapidità

drammaturgica, e il Grand opéra cui, in particolare, guardano i finali d’atto che sono d’impianto colossale e di grande effetto scenografico. La scena finale, ad esempio, in cui si assiste all’esplosione del castello ricorda da vicino quella del Prophète (1849) di Meyerbeer. La musica del Guarany occupa un posto di rilievo nell’inconscio collettivo brasiliano ed infatti gli accordi della sua Protophonia, composta però dopo la prima italiana e brasiliana, nel 1871, sono una sorta di secondo inno nazionale, un po’ come il Va pensiero del Nabucco per gli italiani. Nonostante il successo dell’opera, gli studiosi brasiliani

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Concordano nel ritenere il Guarany (l’opera che decretò la fama di Gomes, e la cui popolarità giunse ad infastidire fin lo stesso autore, il quale lamentava piuttosto l’oblio in cui giacevano, ad eccezione del Salvator Rosa, altre sue opere, che egli riteneva migliori) un lavoro nel suo complesso inferiore agli altri che Gomes compose successivamente430.

La sera della prima rappresentazione alla Scala il successo fu enorme431 ed il re d’Italia, Vittorio Emanuele II, lo nomina Cavaliere della Corona d’Italia soltanto un paio di mesi dopo. Per quanto riguarda invece lo stato d’animo del compositore, ecco quanto riportava, in modo alquanto romanzesco e melodrammatico, la Gazzetta Musicale di Milano in un numero del 1878, firmato da Gustavo Minelli :

La notte nella quale si diede per la prima volta Il Guarany alla Scala, l’opera fu assai applaudita. Il pubblico domanda con insistenza l’autore ; lo vuol salutare grande maestro. Si cerca Gomes dappertutto ; non si trova in nessun luogo. Il pubblico si impazienta e strepita. Lo si cerca di nuovo ; e finalmente alcuni amici lo scoprono sul più alto ballatoio dell’impalcatura del teatro. “Ma cosa fai costì, mentre tutti t’applaudono e ti domandano ?” – “IO ?… M’applaudono ?… Temevo fossero disapprovazioni e fischi !… Fischiato a Milano sarei disonorato in Brasile !… e poi cosa avrebbe detto il mio imperatore, il mio padre, se avessi fatto fiasco, dopo tanti sacrifizi ch’egli fece per me ?!… Non avrei potuto sopravvivere ad un insuccesso !… Sono venuto qui per uccidermi se Il Guarany fosse stato fischiato !”. Lo si fece scender a forza dal ballatoio, lo si trascinò come un vero selvaggio sul palcoscenico. Il pubblico l’accolse con un subisso i applausi ; senza potersi immaginare che in quel momento, non solo aveva giudicata un’opera, ma aveva forse salvata la vita ad un artista tanto nobile e distinto.

Perché l’opera fosse rappresentata alla Scala, Gomes, che non aveva ancora un editore all’epoca, il 16 luglio 1869 aveva firmato un contratto con l’impresario Giuseppe Bonola in cui si può leggere che

l’opera era stata scelta come opera d’obbligo (scritta cioè espressamente per il Teatro alla Scala), che doveva essere rappresentata come terza nella stagione, che il maestro entro il 15 novembre aveva l’obbligo di consegnare i figurini dei costumi, i libretti stampati a sue spese, gli schizzi delle scene, che si impegnava a concertare le prove, a rinunciare ai diritti d’autore, a fornire la partitura e le parti. All’incirca quanto dovette fare Boito per presentare il rinnovato Mefistofele a Bologna nel 1875. Da parte sua Bonola si impegnava a pagare una penale di 5.000 lire, qualora l’opera, per qualsiasi ragione, non fosse andata in scena432.

Sembra poi che nell’intervallo tra il primo e il secondo atto Gomes abbia incautamente ceduto i diritti sull’opera per l’Italia all’editore Francesco Lucca, rivale di Ricordi, per la somma di 6037 lire, da cui « vennero detratte lire 3037 per il pagamento da parte dell’editore di tutte quelle spese a carico del compositore e che egli aveva anticipate »433. L’esito di tale operazione fruttò quindi soltanto la somma di 3000 lire al compositore, tuttavia Lucca gli commissiona la sua seconda opera : Fosca.

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CONATI, M., op. cit., p. 45.

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Ci furono 12 repliche e nel ruolo del Cacico debuttò alla Scala un baritono che divenne poi assai celebre: Victor Maurel, futuro interprete dei due grandi ruoli verdiani di Jago e Falstaff.

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VETRO, G.N., Antonio Carlos Gomes, Collezione storica di “Malacoda”, 8, op. cit., p. 32.

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La prima brasiliana si svolse in presenza del compositore e dell’imperatore il 2 dicembre 1870 al Theatro Lyrico Provisorio di Rio de Janeiro, nel giorno del genetliaco del sovrano. Dal quel momento in poi l’opera sarà rappresentata in breve sulle scene dei maggiori teatri da Firenze a Genova, Londra, Bologna, Mosca e Pittsburgh.

Malgrado l’enorme successo la critica non mancò di cogliere il carattere « controllato » e accademico della musica come fece notare la Gazzetta Musicale di Milano all’epoca della prima :

In tutta l’opera si vede questa paurosa incertezza, questa prudente ribellione alla fantasia : e anche nei punti in cui l’ardimento deve di necessità rompere le corna alla regola, egli sacrifica l’effetto per starsene colla regola ; e frammezzo ai selvaggi fa uso così parco del selvaggio, come se temesse di contaminarsi.

Tuttavia tale paura di fare troppo « autentico » e originale va vista come una necessità per Gomes di imporsi all’estero, dapprima in Italia, per poter poi essere pienamente riconosciuto in patria : quindi egli deve comunque restare nel solco della tradizione italiana, almeno all’inizio, per alimentare la speranza di una futura carriera e non può certo permettersi di lasciarsi andare a sperimentalismi che non trovavano nessuno sbocco sulla scena italiana di quegli anni, come era accaduto alla prima versione del Mefistofele (1868) di Boito.

Dopo una vita e una carriera spese tra il Brasile e l’Italia Gomes fu certamente un testimone privilegiato del Brasile imperiale, dal periodo che seguì l’indipendenza (1822) fino alla proclamazione della Repubblica (1889). Pur rivendicando sempre la sua brasilianità, compose opere italiane per lingua e stile e dichiarò sempre, pubblicamente, che l’Italia era la sua seconda patria. Un itinerario artistico tutto italiano da Verdi a Meyerbeer e fino alle soglie della « giovane scuola » che lo portò tuttavia a creare la prima opera nazionale brasiliana esattamente come ciò avveniva, all’epoca, per i compositori dell’Europa centrale.