3.2. Da parte di madre
3.2.1. La dote
Il nesso fra i diritti patrimoniali della donna sposata e la sua capacità di influenza nel reticolo delle relazioni familiari è svelato da Platone nel momento stesso in cui egli nega alle cittadine di Magnesia uno degli appannaggi di cui godevano comunemente le spose di Grecia, tanto in area attica quanto in area dorica. Stiamo parlando della dote, intesa come quota di beni che un padre assegna a una figlia non priva di fratelli all’atto di darla in sposa, secondo una consuetudine che, nelle Leggi, si trova completamente abolita.
La soppressione platonica della dote è stata esaminata in una precedente sezione di questo lavoro (cap. II, sez. 3.i.b), nell’ottica parziale delle prerogative paterne sulle figlie. Prima di riprendere l’argomento da un’angolatura diversa, è opportuno ribadire
590 Una simile mossa è ispirata non solo e non tanto da una sorta di rispetto per l’attività delle donne in
seno alla famiglia, quanto da una potente volontà di controllo: attribuire alle donne lo stesso spazio istituzionale degli uomini, infatti, argina il rischio che intervengano nelle questioni familiari agendo nella penombra, esercitando un’influenza subdola e occulta, nello stile della madre del tipo d’uomo timocratico in Rsp. VIII.
591 Maynes – Waltner – Soland - Strasser 1996, pp. 17-19. Si vedano anche Ravis-Giordani 1987a , pp.
14-15 e Augustins 1987, pp. 34-37, che ammoniscono a usare cautela nell’indagine della relazione fra diritti patrimoniali, ruolo nella trasmissione intergenerazionale delle risorse economiche, e condizione femminile: questa relazione esiste, ma non è sempre e in ogni caso diretta e immediata.
167 che la normativa platonica è elaborata a partire da – o, meglio, in polemica con – il regime dotale dell’Atene d’età classica. Ora, questo regime non può essere omologato a quello vigente nello stesso periodo a Gortina e a Sparta. L’uso del termine e del concetto di dote, come sopra definito, non deve oscurare l’esistenza di un termine esclusivamente attico per indicare la dote (proix), segno di una specificità di concezione e di pratiche. Il primo tratto peculiare di Atene che le Leggi ci impongono di sottolineare riguarda la composizione della dote. Abbiamo notato a suo tempo che Platone inserisce l’abolizione della proix fra i provvedimenti volti a limitare il possesso e la circolazione del denaro nella città (Lg. V, 742 c2-5): la dote ateniese d’età classica, infatti, consisteva essenzialmente in una somma pecuniaria. Non era così a Gortina e a Sparta, dove il dono nuziale elargito dai padri alle figlie comprendeva beni d’altro tipo, e, soprattutto, parte della terra di famiglia592. Questa differenza fra l’istituto dotale di area attica e di area dorica è solidale ad altre, che metteremo in luce a poco a poco nel corso della trattazione.
Come abbiamo visto in precedenza, la soppressione della proix è esplicitamente motivata da Platone in base alla volontà di combattere la tendenza omogamica che sulla
proix fa perno, producendo entro la città una concentrazione di ricchezze sommamente
dannosa. Ciò che non avevamo allora considerato è che all’abolizione della dote Platone attribuisce, oltre alla tutela dell’equilibrio economico e sociale del corpo cittadino, anche un altro effetto benefico: ridurre la hybris delle mogli, e impedire che a causa delle loro ricchezze si crei per i mariti una “schiavitù spregevole e servile” (Lg. VI, 774 c7-d1: u{bri" de; h|tton gunaixi; kai; douleiva tapeinh; kai; ajneleuvqero" dia; crhvmata toi'" ghvmasi givgnoito a[n). L’immagine del marito sottomesso a una moglie insolentita dia; crhvmata non è affatto isolata, nelle fonti letterarie; al contrario, è assai frequente, specialmente in poesia. In un frammento del Fetonte, Euripide parla di
592 A Gortina, la terra rientra fra “gli altri beni”, distinti dalle case in città e dal bestiame (riservati agli
eredi maschi), di cui 2/3 vanno ai figli maschi e 1/3 alle femmine (CG IV, 31-43; Schaps 1979, p. 6; Leduc 1990, pp. 272-75; Rørby-Kristensen 1994, p. 20; Maffi 1997b, pp. 64-70, specialmente p. 69). Per quanto riguarda Sparta, un’esplicita testimonianza della proprietà femminile della terra è fornita da Aristotele, quando afferma che al tempo suo i 2/5 della terra appartenevano alle donne, a causa del gran numero di ereditiere e della consistenza delle doti (Pol. II, 1270 a23-25: e[sti de; kai; tw'n gunaikw'n scedo;n th'" pavsh" cwvra" tw'n pevnte merw'n ta; duvo, tw'n t’ ejpiklhvrwn pollw'n ginomevnwn, kai; dia; to; proi'ka" didovnai megavla"). La notizia aristotelica contrasta con quella di Plutarco, secondo cui Licurgo avrebbe proibito le doti a Sparta (Plu., Apophteg. Lac. 227 F7-228 A2). Anche a questo proposito, dunque, la critica si divide fra coloro che affermano l’inaffidabilità del quadro plutarcheo dell’operato di Licurgo e coloro che credono in un cambiamento dell’assetto socio-economico lacedemone nel corso dei secoli (magari ad opera di Epitadeo). Per i primi, la dote sarebbe sempre stata in uso, senza interruzioni, fin dagli inizi della storia di Sparta (Hodkinson 1989, pp. 398-400 e 2000, pp. 98- 101); per i secondi, sarebbe stata introdotta in piena età classica (Asheri 1961, pp. 62-63 e 1963, pp. 14- 15; Dimakis 1990, pp. 203-04 e 210; Pomeroy 2002, pp. 78-80 e 92-93).
168 un marito che “pur essendo libero è schiavo del talamo, avendo per la dote venduto la
sua persona”593. Un personaggio di Menandro osserva che un uomo non abbiente che accetti una moglie provvista di una ricca proix “consegna se stesso anzi che prendere
lei”594.
Il fantasma di una ‘ginecocrazia’ fondata sulla disponibilità economica femminile appare a prima vista difficilmente conciliabile con lo status di completa incapacità e soggezione cui la donna ateniese era costretta sul piano giuridico astratto. La stessa nozione di disponibilità economica femminile risulta problematica. Ad Atene, in età classica, le donne sposate non possedevano ricchezze proprie, a differenza di quanto accadeva, nella stessa epoca, a Gortina595 e a Sparta596. Nella polis cretese e in quella lacone, le sostanze che una donna sposata aveva ricevuto dalla propria famiglia - come dono nuziale o all’apertura della successione dei genitori597
- rimanevano distinte da
593 Eur., fr. 775 Kannicht: ejleuvqero" d’ w]n dou'lov" ejsti tou' levcou",/ pepramevnon to; sw'ma th'"
fernh'" e[cwn (sull’uso del termine pherne, cfr. Schaps 1979, p. 100). Il tema dell’assoggettamento del marito alla moglie ricca compare anche in Eur., fr. 502 Kannicht, dalla Melanippe saggia o prigioniera), e in un frammento comico di Anassandride (fr. 53 Kassel-Austin, vv. 4-6).
594 Men., fr. 802 Kassel-Austin: o{tan pevnh" w]n kai; gamei'n ti" eJlovmeno"/ ta; meta; gunaiko;"
ejpidevchtai crhvmata, / auJto;n divdwsin, oujk ejkeivnhn lambavnei.
In filigrana si può qui scorgere il riferimento all’uso della coppia didomi/lambanein nel lessico matrimoniale, che suggerisce una forte impressione di rovesciamento dei ruoli fra marito e moglie.
595 Il Codice di Gortina dichiara (CG IV, 23-27): “il padre abbia il potere sui figli e sulla divisione dei
beni, e la madre abbia il potere sui propri beni” (to;n patevra to'n tevknon kai; to'n kremavton
kartero;n e[men ta'd daivsio" kai; ta;n matevra to'n Ûo'n aujta'" kremavton). È impossibile capire, dal Codice, se il potere della donna sposata sui propri averi si esplicasse in una completa autonomia gestionale (come sono inclini a credere de Ste Croix 1970, p. 277; Schaps 1979, pp. 58-59; Link 2004, pp. 57-88). Altri studiosi ritengono piuttosto che l’amministrazione routinaria dei beni della moglie spettasse comunque al marito, alla cui libertà sarebbe stato imposto come unico limite il divieto di alienare i
kremata della consorte (Sealey 1990, p. 79; Rørby-Kristensen 1994, pp. 22-25 e 2007, pp. 93-94; Maffi
1997b, pp. 107-08).
596
Schaps 1979, p. 6 e pp. 12-13; Cartledge 1981, pp. 119-21 e 126 di Cartledge 2001; Kunstler 1986, pp. 41-42; Hodkinson 1986, p. 405 e 2000, p. 99; Sealey 1990, pp. 84-85; Millender 1999, pp. 371-73; Pomeroy 2002, p. 60, pp. 78-82 e 92-93; per una diversa opinione, si veda Ducat 1998, p. 393. Non possediamo, per Sparta, alcuna fonte che dichiari esplicitamente la donna sposata padrona dei propri beni, come fa il Codice di Gortina. Tuttavia, molteplici sono i segnali indiretti di tali situazione: l’ammissibilità dell’unione di fratellastri uterini; la pratica della poliandria adelfica; la ‘politica matrimoniale’ dei sovrani (Hodkinson 1986, pp. 401-04 e 2000, pp. 101-02); la presenza, nella storia di Sparta, di numerose donne celebri per la loro ricchezza e per il modo in cui la impiegavano. L’esempio classico è quello di Cinisca, figlia di Archidamo II, che all’inizio del IV sec. a.C. conseguì con i cavalli da lei allevati ben due vittorie olimpiche nella specialità della quadriga.
597 Nel Codice di Gortina, il dono nuziale è concepito come anticipazione dell’eredità del padre (CG IV,
48-V, 9), eredità cui una figlia ha per statuto diritto (e il cui ammontare è fissato a metà della porzione ereditaria del figlio maschio). È questa un’importante differenza rispetto ad Atene, dove la proix equivaleva alla quota ereditaria della figlia nei fatti (sulla dote come eredità pre-mortem, cfr. Goody 1976, passim; Harrell - Dickey 1985, p. 105, 107, 111; Anderson 2007, p. 162), ma non sul piano delle rappresentazioni. Vale a dire, la proix non era concettualizzata come porzione di eredità; non a caso, dotare una figlia non era obbligatorio per legge, mentre fornire al figlio la sua parte di kleros lo era. Ad Atene, le figlie potevano ricevere beni dal padre soltanto in occasione delle loro nozze, mentre a Gortina partecipavano in ogni caso alla spartizione delle risorse paterne. Un’ateniese maritata aproikos non poteva attendersi alcuna attribuzione patrimoniale dalla propria famiglia; una sposa gortinia non dotata, invece, aveva diritto ad ottenere, alla morte del padre, una parte del patrimonio di questi. È probabile - per
169 quelle del marito, e distintamente venivano trasmesse ai figli. Nel Codice di Gortina, la separazione dei beni è tutelata dal divieto fatto al marito di “vendere” o “promettere” ciò che appartiene alla moglie (VI, 9-11: mede; ta; ta'" gunaiko;" to;n a[ndra ajpodovsqai med’ ejpispevnsai). Ad Atene, invece, per tutta la durata del connubio la
proix si confondeva con gli averi del marito, che di essa poteva legalmente fare tutto ciò
che voleva. Il suo spirito di iniziativa era incentivato dal fatto che la dote generalmente consisteva in una somma di denaro, il bene mobile, spendibile e investibile, per eccellenza. Per converso, alla moglie la legge proibiva di effettuare transazioni economiche per un valore superiore a quello di un medimno d’orzo (Isae. X, 10)598
. Per il diritto, insomma, una sposa ateniese non aveva alcuna presa diretta sulla proix con cui era giunta nella casa del marito. Ciononostante, la dote continuava, in un senso, a essere sua. Sappiamo che, quando il vincolo matrimoniale si spezzava - per divorzio o vedovanza - prima della nascita di figli maschi, la proix doveva essere restituita alla donna, e assieme a lei tornare all’oikos natio. Della somma i parenti si sarebbero serviti per combinare alla giovane vedova o divorziata una nuova unione. Ma ciò significa che, finché la donna era in vita, la dote rimaneva assolutamente indivisibile da lei599: a lei apparteneva.
Il fatto è che il diritto di Atene (ma non solo di Atene) non lascia trasparire una nozione ben distinta di appartenenza / proprietà600. Le orazioni non discutono mai la
quanto non certo, a causa della scarsità delle notizie in nostro possesso - che a Sparta il regime dotale fosse analogo a quello di Gortina: anche la dote lacedemone sarebbe stata, piuttosto che un dono volontario (così Cartledge 1981, p. 98), l’anticipazione di una porzione di eredità comunque dovuta alla figlia, e pari alla metà di quella del figlio (Hodkinson 1986, pp. 398-400 e 2000, pp. 98-103; Millender 1999, pp. 371-72; Pomeroy 2002, p. 85).
598 Testo citato supra, 2.3.1.b, p. 110 n. 397.
599 Questo principio valeva anche nel caso di una vedova madre di prole maschile che, dopo la morte del
marito, fosse restata nella sua casa assieme ai figli: prima della morte della madre non sarebbero potuti entrare nel pieno possesso della sua dote, che pure erano destinati a ereditare. Il figlio che aveva con sé la madre vedova, mentre poteva servirsi della proix per mantenerla, la considerava a lei dovuta, nell’eventualità – rara, ma non impossibile - di combinarle, in qualità di tutore, un nuovo matrimonio (Gernet 1983c, pp. 207-08; Cox 1998, p. 102). Del particolare statuto della dote della vedova a carico dei figli testimoniano, nelle orazioni civili, due casi in cui la proix materna è stralciata da patrimoni a rischio di prelievi o confisca. In [Dem.] XLII, 27, Fenippo, in occasione di una possibile antidosis, nella ‘dichiarazione dei propri averi’ afferma di essere debitore alla madre della dote di lei, di cui pure – come rimarca il suo avversario - per legge è kyrios. In Dem. LIII, 28-29, la madre di Aretusio, debitore dello Stato, al momento del saldo del debito rivendica come propri parte dei beni (ritenuti) del figlio.
A Gortina, il patrimonio della madre vedova rimasta con i figli, fintanto che la donna vive, rimane distinto da quello dei futuri eredi: ai figli, infatti, la legge proibisce espressamente di “vendere” e “promettere” i beni delle madri (CG VI, 11-12; cfr. Rørby-Kristensen 1994, p. 28 e 2007, p. 94; Maffi 1997b, pp. 51-52 e 2003, pp. 196-99).
600 Sul lungo percorso che, nel mondo greco, conduce all’elaborazione di una nozione di proprietà (in
nessun caso assimilabile a quella che si trova nel diritto romano), si vedano in particolare Gernet 1980 e Di Donato 1980. Per un quadro delle “forme della proprietà” nel diritto di Atene, cfr. Maffi 1997a (dal cui titolo proviene la citazione) e 2005, pp. 259-66.
170 natura della proprietà; il primo a farlo, nella cultura greca, è Aristotele, che la definisce come facoltà di alienare un bene (Rhet. I, 1361 a19-22). Stando a questa formulazione, la donna non era e non poteva essere proprietaria della propria dote601. Ma sarebbe improvvido individuare nella definizione aristotelica il presupposto implicito della condotta economica e delle dispute patrimoniali delle famiglie ateniesi d’età classica602. La situazione pare più complessa: sebbene colui che maritava la donna consegnasse la
proix allo sposo (cfr. e.g. Isae. II, 9: thvn…proi'ka ejpidivdwsin autw'/), della dote si
poteva parlare come di qualcosa che era della donna603. Per usare le parole di Louis Gernet, la proprietà della dote era, “en quelque sort”, questione di punti di vista604
. Fintanto che il matrimonio durava, in pratica non esistevano una proprietà della moglie e una del marito; esisteva unicamente la proprietà dell’oikos coniugale, proprietà la cui tutela giuridica era assegnata al marito, ma che questi, di fatto, sfruttava e gestiva assieme alla consorte605. Solo al momento della rottura dell’unione la dote diventava
601
A questo proposito, è significativo che, oltre a non poter diatithesthai (Isae. X, 10), la donna ateniese non fosse passibile di ammende pecuniarie (come sottolineato da Schaps 1979, p. 16). Si noti la differenza rispetto a Gortina, dove le donne potevano essere multate: la divorziata che partorisce dopo lo scioglimento dell’unione, ed espone il figlio senza averlo presentato all’ex marito (cioè, senza avergli dato la possibilità di scegliere se accoglierlo presso di sé oppure no), è condannata a risarcire in denaro il padre del bambino (CG IV, 8-14).
602 Foxhall 1989, pp. 25-32; Todd 1993, pp. 232-43; Stolfi 2006, pp. 114-19.
603 In Dem. XXX, 12, la dote che un uomo accompagna alla sorella, nell’atto di darla in sposa, è detta
“ciò che è di lei” (tajkeivnh"). In [Dem.] XL, 25, è detto che due fratelli, dopo aver recuperato la dote della propria sorella rimasta vedova (komisamevnou" th;n proi'ka), non avrebbero mai osato sottrargliela (ajposterh'sai th;n ajdelfh;n th;n eJautw'n). In [Dem.] XLVII, 57, una donna parla delle proprietà stimate nella sua dote come di cose sue (legouvsh" o{ti auJth'" ei[h ejn th'/ proiki; tetimhmevna).
604
Gernet 1983c, p. 205.
605 Schaps 1979, pp. 14-16; Foxhall 1996, pp. 29-39. Emblematiche, al proposito, sono le parole che
Iscomaco rivolge alla giovane sposa nell’Economico di Senofonte: “Ora abbiamo in comune questo
oikos. Io dunque dichiaro essere proprietà comune tutto quello che ho, come tu metti in comune quello che hai portato con te” (Oec. 7, 12-13: nu'n de; dh; oi\ko" hJmi'n o{de koinov" ejstin. ejgwv te ga;r o{sa
moi e[stin a{panta eij" to; koino;n ajpofaivnw, suv te o{sa hjnevgkw pavnta eij" to; koino;n katevqhka"). Come abbiamo già accennato, il contributo femminile alla gestione dell’oikos non era affatto insignificante. Quando entrambi i coniugi erano persone intelligenti e capaci, ed erano uniti da un buon rapporto, i mariti potevano trovare nelle mogli collaboratrici tanto fidate, da scegliere di assegnare loro anche responsabilità che eccedono il consueto tenore delle incombenze femminili. Accade così di trovare, nelle orazioni, donne che controllano – e, all’occorrenza, smuovono - somme di denaro che superano il tetto massimo fissato dalla legge per le transazioni economiche femminili. La madre di Demostene, secondo Afobo, sarebbe stata, per volontà del consorte, kyria di un fondo nascosto di quattro talenti destinato al figlio (Dem. XXVII, 53: tevttara…tavlanq’ oJ path;r katevlipe katorwrugmevna kai; touvtwn kurivan th;n mhtevr’ ejpoivhsen). Archippe, moglie del banchiere Pasione, a detta del figlio aveva nelle sue mani parte della ricchezza del marito (Dem. XLV, 27: o{s h\n tw'/ hJmetevrw/ patri; crhvmata para; th/' mhtriv). Ma l’esempio più eclatante di manovre finanziarie femminili è fornito dalle donne della famiglia di Polieucto in Dem. XLI (su cui si vedano Mossé 1989, pp. 215-17 e Cohen 1998, pp. 53- 57): della moglie, si dice che ha effettuato un prestito al genero Spudias, prendendo nota della transazione in grammata (§ 9), su cui ha apposto il proprio sigillo (§ 21); una delle due figlie risulta aver prelevato dalla successione una mina d’argento per pagare le offerte al padre defunto in occasione delle Nemesie (§ 11).
171 della donna; dunque, in prospettiva di un’interruzione del matrimonio, la proix poteva, durante il matrimonio stesso, considerarsi della donna.
Una proprietà ‘virtuale’, potremmo dire; e tuttavia abbastanza reale da offrire alla donna un efficace strumento per plasmare gli equilibri di forza nel rapporto con il marito. Se la proix poteva creare quella hybris delle mogli e quella douleia dei mariti stigmatizzate da Platone, era perché l’obbligo di restituirla in caso di divorzio imponeva un significativo limite all’autonomia di decisione e movimento degli uomini. In un regime come quello ateniese, in cui le doti non venivano tesaurizzate ma investite, soltanto pochi mariti avranno potuto permettersi di restare del tutto indifferenti di fronte all’eventualità di restituire la proix in caso di divorzio. Rifondere la moglie era generalmente una faccenda seria. Ed era destinata a diventare addirittura dolorosa, qualora il patrimonio del marito non fosse stato commisurato alla dote della moglie: condizione strutturale nelle unioni non omogamiche, ma possibile anche in unioni originariamente omogamiche, in caso di disavventure economiche successive alle nozze. In simili circostanze, un uomo consapevole di non poter ripagare la dote non si sarebbe azzardato a ripudiare la consorte, e si sarebbe trovato costretto a tenerla con sé anche se scontento del matrimonio. Dal canto suo, una donna abile e spregiudicata avrebbe potuto agitare la minaccia dell’abbandono del tetto coniugale, e del conseguente obbligo di risarcimento della dote, per piegare il marito al proprio volere. Pur di evitare il dissesto, l’uomo si sarebbe trovato a dover concedere alla moglie ben più di quanto avrebbe voluto.
La capacità della donna di acquisire, grazie alla dote, potere informale entro l’oikos non deve essere in alcun modo sopravvalutata. Ricordiamo che, perché il divorzio su iniziativa della moglie fosse valido, occorreva che la donna presentasse istanza di divorzio presso l’arconte, cosa che non poteva fare di persona, in quanto soggetto legalmente incapace: senza un cittadino maschio disposto a rappresentarla, la donna non avrebbe potuto ottenere nulla606. Eventuali minacce di abbandono del tetto coniugale avrebbero intimorito il marito, solo se questi fosse stato convinto che la moglie avesse qualcuno pronto a garantirle il proprio sostegno. Ora, i più ovvi (se non gli unici) candidati ad appoggiare la donna erano i suoi parenti, primi fra tutti il padre e i fratelli: pertanto, era una moglie forte colei che avesse intrattenuto, anche da sposa, un forte legame con la famiglia d’origine. Del resto, il funzionamento stesso della proix ateniese
606
172 proprio questo implicava, e questo promuoveva: la permanenza della donna nell’orbita dell’oikos natio.
Platone scardina il meccanismo: la ferma volontà di non aprire un canale di circolazione di beni fra gli oikoi cittadini, estirpando al contempo la possibilità di fare e disfare matrimoni a seconda del capriccio o dell’interesse dei coniugi (e delle loro famiglie), porta il filosofo ad abolire, in un colpo solo, proix e divorzio. Le donne di Magnesia non possono più contare sulla ‘loro’ dote e sulla tutela della famiglia natía per assicurarsi un margine di negoziazione con il marito, né per sottrarsi definitivamente a un’unione che non le soddisfi607
. Per Platone, comunque, scongiurare il rischio di una malsana prevaricazione femminile non significa abbandonare le spose in balía del coniuge. La funzione protettiva che gli Ateniesi attribuivano alla dote – inibire estemporanee velleità di ripudio da parte del marito608 - nella città delle Leggi non ha più ragion d’essere: come la donna, così neanche l’uomo può sciogliere di testa propria il suo matrimonio. Può esserci divorzio solo se lo approvano o lo impongono le donne