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Oikos e polis: le origini di un legame

La conflittualità è l’aspetto più clamoroso e più noto del rapporto fra oikos e polis nel pensiero politico di Platone. Eppure, di questo rapporto rappresenta solo una faccia; a mostrarlo è proprio il dialogo dove si prospetta la totale soppressione degli oikoi, la

Repubblica.

Nella kallipolis immaginata da Socrate, la comunanza (koinwniva) di beni, donne e bambini impone la necessità di riconfigurare i rapporti fra uomini e donne, fra adulti e giovani, per evitare l’avvento di un caos ferino di promiscuità e incesti. La strategia platonica consiste nel sostituire alla suddivisione in nuclei domestici un nuovo schema di parentela: una ridenominazione dei parenti sostituisce i legami di sangue con i rapporti fra classi di età omogenee (Rsp. V, 461 d2-e2), creando gruppi di padri, madri, fratelli civici. Non si tratta di una questione puramente verbale: la ridenominazione dei parenti impone di “agire sempre in modo conforme ai nomi” (Resp. V, 463 d1: ta;" pravxei" pavsa" kata; ta; ojnovmata pravttein), estendendo gli schemi affettivi e comportamentali propri dei legami familiari all’intera collettività civica97

.

Nella kallipolis uomini e donne appartenenti a una data classe d’età sono tenuti a osservare nei confronti dei loro genitori ‘politici’ il “rispetto” (aijdwv"), la “cura” (khdemoniva) e la “necessaria sottomissione” (uJphvkoon dei'n ei\nai tw'n gonevwn) che sono “la norma” (novmo") in ogni oikos privato (Rsp. V, 463 c8-d3). La sudditanza dei

97 Punto messo nel giusto rilievo da Trousson 1991, p. 20; Campese 2000, pp. 274-79; Ernoult 2005;

34 figli ai genitori, principio sancito dagli uomini e dagli dèi98, diventa il fondamento di una gerarchizzazione dell’intero corpo cittadino; gli oikoi scompaiono perché la polis diventi un unico oikos. La distinzione/opposizione fra polis e oikos finisce così, paradossalmente, per sfumare nell’assimilazione delle due sfere. Aristotele coglie il punto quando in Pol. II taccia non solo di impraticabilità ma pure di assurdità il progetto platonico: per lui, ridurre la polis a un oikos in nome dell’unità equivale a distruggere la città, che è per sua natura una molteplicità (1261 a15-22)99.

Tornando a Platone, se è vero che nella Repubblica la generalizzazione dei legami familiari non è in se stessa un fine, ma solo un mezzo “per arrivare a un rapporto diretto fra individuo e stato”100, resta il fatto che dall’oikos non si può prescindere: non si riesce

a pensare la città senza la casa. In questo, Platone rimane, dopo tutto, ancorato alla sua civiltà. L’Atene d’età classica ha conosciuto solo l’inizio di un processo di distinzione concettuale fra pubblico e privato101; di fatto, il contesto socio-politico contemplava uno stretto legame fra la polis e l’oikos. Il maltrattamento dei genitori (kakosis goneon) era un reato punibile con la privazione dei diritti di cittadino (atimia)102; in questo stesso reato la dokimasia degli arconti individuava uno dei motivi di esclusione del candidato (Arist., Ath. 55, 3; cfr. Xen., Mem. II 2, 13). Un fatto inerente ai rapporti domestici aveva ripercussioni sul piano politico, come se la città si ritenesse toccata da quanto avviene in ogni singolo oikos.

98

Chi non lo rispetta, compirà “azioni non giuste secondo la legge degli dèi e nemmeno secondo quella

degli uomini” (463 d5: ou[te o{sia ou[te divkaia).

99 E, sempre per natura, l’ “io” presuppone il “mio”: il soggetto umano implica necessariamente la

proprietà. Per un esame più approfondito della critica alla Repubblica in Pol. II, cfr. Accattino 1986, pp. 19-22; Stalley 1991; Vegetti 1996, pp. 67-74 della rist. (Sankt Augustin 2007), che si concentra in particolare sull’aristotelica “concezione patrimoniale della soggettività” e 2000b, pp. 446-50; Calabi 2000; Wilgaux 2011a, pp. 43-50. Vale la pena ricordare che la Politica si apre proprio sul tema della non assimilabilità della polis e dell’oikos, confutando quanti ritengono che ci sia una sostanziale identità fra chi esercita il potere nella polis, il re, l’oijkovnomo" (ovvero il capofamiglia che amministra la casa) e il padrone. I fautori di questa opinione ritengono che le differenze fra queste figure dipendano solo dal maggiore o minor numero di sottoposti, “come se non ci fosse alcuna differenza fra una grande casa e

una piccola città” (Pol. I, 1252 a12-13: wJ" oujde;n diafevrousan megavlhn oijkivan h] mikra;n povlin). Il

bersaglio polemico è ancora una volta Platone: nel Politico, fra i presupposti del primo tentativo di definizione dell’uomo politico figurano l’assunto dell’identità fra politico, re, oikonomos e padrone (258 e8-9) e quello della differenza meramente quantitativa fra il governo di una casa e quello di una città (259 b9-c4; cfr. Xen., Mem. III, 4, 12, dove il concetto compare in bocca a Socrate). L’arte politica, nel

Protagora, viene definita dal sofista come la capacità di prendere rette decisioni tanto nelle faccende

domestiche quanto in quelle politiche (Prt. 318 e5-319 a1: eujbouliva peri; tw'n oijkeivwn…kai; peri; tw'n th'" povlew").

100 Bertelli 1991, 40. 101

Sul profilarsi della distinzione, si vedano in particolare Humphreys 1977 e 1979; Musti 1985. Sottolineano piuttosto l’inadeguatezza della dicotomia pubblico-privato rispetto al rapporto fra oikos e

polis Foley 1982; Maffi 1983, p. 10; Strauss 1990, pp. 104-05 e 1993, pp. 8-12, 33-53, 212-14; Patterson

1998, pp. 180-85.

102

35 La polis, insomma, possedeva una determinata concezione del giusto ordine dei rapporti familiari, e si preoccupava che questo ordine venisse rispettato, nel suo proprio interesse: non può essere un buon cittadino il figlio che non sa/non vuole assolvere i propri doveri nei confronti dei genitori103. È questo pensiero che Platone riecheggia nelle Leggi, quando riconosce una valenza politica all’arkhe dei genitori. La cura e l’amorosa venerazione per gli ascendenti, afferma l’Ateniese, caratterizzano la città eujnomou'sa, “che ha buone leggi” (Lg. XI, 927 b6-7). In modo simmetrico, in Rsp. VIII, la negligenza e l’oltraggio a genitori e avi sono il contrassegno della tirannide, che è la forma più perversa di organizzazione politica, se non addirittura la negazione stessa della politica104. Il tiranno è colui che usa violenza al padre e alla madre; nei termini

patraloias e metraloias emerge a pieno la reciproca implicazione di ordine politico e

ordine domestico che fa dell’arkhe dei genitori un principio valido sia nell’oikos che nella polis. Ad Atene, infatti, le parole designanti persone ree di crimini contro i genitori sono ajpovrrhta, appellativi che era proibito per legge rivolgere a qualcuno in pubblico, pena la citazione per diffamazione (dike kakegorias).

La violenza familiare è un tabu105 che riguarda tutta la città; per converso, al buon

ordine delle relazioni all’interno dell’oikos la città riconosce un valore fondante. A questo proposito, la parabasi degli Uccelli di Aristofane contiene alcuni passaggi molto significativi: alzare le mani contro il proprio padre figura fra le cose permesse nel mondo dei volatili, che è l’opposto e la negazione di Atene (Av. 757-59). All’abolizione del divieto di usare violenza al padre segue la negazione delle leggi che definivano la cittadinanza tramite l’esclusione dal corpo cittadino di chi non fosse nato da genitori ateniesi (Av. 760-65): un dato che permette di capire fino a che punto l’ossequio filiale fosse avvertito come ingrediente fondamentale dell’identità civica di ogni Ateniese106

. Nella narrazione di Lg. III il legame costitutivo fra comunità politica e comunità familiare guadagna spessore storico, rivelandosi un dato originario. L’arkhe delle istituzioni politiche (676 a1: politeiva"…ajrchvn), obiettivo dichiarato dell’indagine di

Lg. III, viene identificata proprio in un’organizzazione sociale fondata sulla parentela.

103 Cfr., e.g., Aesch. I, 28; Lys. XXXI, 23. 104 Giorgini 2005, p. 439.

105 Il rapporto della nozione di aporreton con quella della parola tabu è discusso da Gernet 1917a, p. 243

della 2º ed. (Parigi 2001). Cfr. Maffi 1983, p. 25.

106 Significativamente, Pistetero non arriva a sottoscrivere le enunciazioni del coro. Di fronte a un

aspirante patraloias, desideroso di impadronirsi delle sostanze paterne, il vecchio reagisce richiamandosi alla legge che obbliga i figli a sostentare i genitori anziani (Av. 1353-57), trasferendo dunque a Nubicuculia il nomos ateniese.

36 Nella ricostruzione platonica del tempo degli inizi, ignaro della scrittura107, e dunque della legislazione108, la vita degli uomini è disciplinata dalle “norme dei padri” (pavtrioi novmoi), le consuetudini ancestrali (680 a6-7). Queste consuetudini si ingenerano e si trasmettono in aggregati definiti dalla parentela e dalla residenza comune (680 d7-8: kata; mivan oi[khsin kai; kata; gevno"), che, come le famiglie dei Ciclopi omerici (Od. IX, 114-115, citato a 680 b7-c1109), vivono ciascuno per conto proprio. Il modello dei Ciclopi vale anche per quanto riguarda la gerarchia interna dei raggruppamenti: in essi vige il dominio del più anziano (680 e1-2).

L’ordinamento primitivo, cui Platone dà il nome di dunasteiva (680 a9)110

, è un regime di autorità personale assoluta trasmessa per via ereditaria, come il potere monarchico; a 680 e4, infatti, la politeia primitiva è chiamata basileiva111. E si tratta di un’autorità maschile. Il termine che qualifica la condizione dei sudditi, patronomouvmenoi, è in rapporto diretto con patronomikhv, vocabolo che in Lg. XI, 927

107 Il tempo degli inizi è ignaro della scrittura così come di tutte le altre arti, ad eccezione di quella “del

plasmare” e delle varie tekhnai “del tessere” (Lg. III, 679 a6-7: aiJ plastikai; … kai; o{sai plektikai;

tw'n tecnw'n). I primi uomini sono i sopravvissuti a un cataclisma che ha distrutto la civiltà precedente, e si trovano dunque nella situazione di dover ricominciare tutto da capo. L’Ateniese, infatti, colloca le origini dell’umanità nel quadro di cicli cosmici, scanditi da periodiche distruzioni e da altrettanti nuovi inizi, idea che compare anche in Tim. 22 c1 ss.; Criti. 109 d2 ss.; Plt. 269 c4 ss. (Giorgini 2011; cfr. Cambiano 2002, pp. 706-08, che sottolinea le differenze fra i cicli di Tim., Criti., Lg. III e l’alternanza delle età di Cronos e di Zeus in Plt.; Zuolo 2012). La storia di Lg. III comincia dunque con una preistoria semileggendaria (sul rapporto fra mito e storia nell’ “Archeologia” di Lg. III, si vedano almeno Weil 1959, pp. 13-18; Sassi 1986; Lisi 2000b, pp. 14-23; Balaudé 2000). Il tema degli inizi della civiltà fu uno dei più dibattuti nell’Atene del quinto secolo (Cole 1967, in particolare pp. 97-106, per un confronto fra

Lg. III e le posizioni di altri autori). Con la sua concezione ciclica della storia, in cui ogni civiltà ripete il

percorso della precedente (Lg. III, 677 c7-9), Platone appare assai distante dalla fiducia nel progresso tipica della Kulturgeschichte del quinto secolo, i cui cultori concepiscono lo sviluppo della civiltà come un processo che ha avuto luogo una volta soltanto giungendo al culmine nella loro epoca (De Romilly 1966, p. 179; Dodds 1973). È necessario precisare, tuttavia, che vi sono, secondo Platone, civiltà la cui storia non ha andamento ciclico: l’Egitto, che nel Timeo è detto essere intatto dalle catastrofi, e Atlantide, il cui inabissamento risulta, nel Crizia, una distruzione definitiva. La ciclicità pare essere una caratteristica della storia dei Greci (Cambiano 2002, pp. 705-06).

108 Sul legame necessario istituito fra scrittura e legislazione a 680 a3-7, cfr. Bertrand 1999, pp 55-63;

Sull’avvento delle scrittura in ambito legislativo in Grecia, si vedano Gagarin 1986, pp. 121-41; Camassa 1996 e 2011; Thomas 1996 e 2005; Faraguna 2006.

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Questa citazione omerica (così come tutte le altre che si ritrovano nei dialoghi di Platone) è analizzata da Labarbe 1949.

110 Il sostantivo dunasteiva, e i termini parenti dunavsth" e dunasteuvw sono generalmente usati da Platone

in modo assai generico, per designare diverse forme di potere (oligarchico: Lg. IV, 710 e5-7; monarchico:

Rsp. VI, 498 e3-499 a2; potere in generale: Lg. IV, 711 d7-e1), mentre nel lessico politico d’età classica

sono specializzati in riferimento al potere esercitato da un’oligarchia (Gastaldi 2012 a, pp. 114-15; cfr. anche Weil 1959, p. 69).

111 Anche Aristotele, in Pol. I, individua la forma più antica di aggregazione sociale nella comunità

familiare patriarcale, a sua volta evocando come modello le famiglie dei Ciclopi omerici (Pol. I, 1252b 22-23); e pure Aristotele qualifica il potere patriarcale come monarchico (1252b 20-24; cfr. Weil 1960, p. 335; Gastaldi 2012b, pp. 127-28). Sul carattere regio dell’autorità paterna in Aristotele (1259 b10-11; EN VIII, 1160b 24-32 e 1161a 10-22), si vedano Campese 1983, pp. 54-62, e, più recentemente, Veloso 2011, pp. 30-32.

37 e6 designa la potestà paterna sui figli112: significa dunque “soggetti alla giurisdizione

paterna”. Ma il verbo patronomevomai rimanda anche ai patrioi nomoi, di modo che

un’altra traduzione di patronomoumenoi può essere “retti dai patrioi nomoi”. Le due accezioni proposte, del resto, non sono alternative; piuttosto, si implicano l’un l’altra. Ogni nuova generazione apprende gli usi tradizionali conformandosi a persone autorevoli che secondo quegli usi agiscono; ma quelle persone sono, in primo luogo, i padri. Dunque, nella misura in cui il padre incarna le regole ancestrali, essere retti dai

patrioi nomoi ed essere soggetti alla giurisdizione del padre coincidono. L’impegno dei

padri a trasmettere i patrioi nomoi e quello dei figli ad assimilarsi ai padri garantiscono la perpetuazione dell’ordine sociale, in un’iterazione dell’identico che Platone vede come uno dei tratti salienti dell’epoca delle dynasteiai113

.

A un certo punto, però, più gruppi familiari prendono a convivere in uno stesso luogo (680 a6 ss.)114. Inizialmente continuano a vivere “stirpe per stirpe” (681 a9: kata; gevno"), sotto il dominio del più anziano e mantenendo i propri costumi (681 a9-b1: e[cousan tovn te presbuvtaton a[rconta kai; auJth'" e[qh a[tta i[dia). In seguito, nasce la volontà di darsi delle norme condivise (681 c7 ss.): si arriva dunque, come per

112

L’aggettivo presuppone un sostantivo sottinteso (ajrchv o trofhv), come teknopoihtikhv e patrikhv in Arist., Pol. I, 1253 b10 e 1259a 38. Aristotele condivide la ricerca platonica di un termine ‘tecnico’ per designare l’autorità paterna, ma non sottoscrive la scelta lessicale del maestro (Weil 1959, p. 72).

113 Le generazioni si susseguono ciascuna “imprimendo le proprie inclinazioni sui figli e sui figli dei figli”

(Lg. III, 681 b5-6). Ai capifamiglia dell’epoca primitiva riesce ciò in cui falliscono i padri di Rsp. VIII/IX, così come Ciro e Dario e i padri di Atene in Lg. III: avere figli che replichino il modello paterno. Anche nella primordiale “città dei maiali” di Rsp. II (372 d1-3), e nell’Atene antica del Crizia (112 c3-4) si riscontra la trasmissione indisturbata dei patrioi nomoi. Questa caratteristica contribuisce a fondare il giudizio positivo che Platone dà del tempo degli inizi - giudizio non privo, però, di ambiguità (Vidal- Naquet 1975; Vegetti 2005b, pp. 139-44, con ulteriore bibliografia). Gli antichi erano più buoni dei moderni in virtù della loro euetheia, della loro “semplicità”, ma ciò non significa che fossero perfettamente buoni: perché non all’ingenuità ma alla conoscenza si accompagna, secondo Platone, la virtù autentica. Infatti l’Ateniese mostra di dubitare che “gli uomini di allora, ignari com’erano di molte

cose belle presenti nelle città e del loro contrario, fossero atti alla virtù e al vizio” (Lg. III, 678 b1-3:

tou;" tovte, ajpeivrou" o[nta" pollw'n me;n kalw'n tw'n kata; ta; a[sth, pollw'n de; kai; tw'n ejnantivwn, televou" pro;" ajreth;n h] pro;" kakivan gegonevnai). Per un’analisi dell’ “immagine delle origini” in Lg. III, si veda, da ultimo, Gastaldi 2012a.

114

Si può confrontare la kwvmh di Aristotele, ovvero la comunità “che deriva dall’unione di più famiglie

volte a soddisfare un bisogno non strettamente giornaliero” (Pol. I, 1252 b15-16: hJ d’ ejk pleiovnwn

oijkiw'n koinwniva prwvth crhvsew" e{neken mh; ejfhmevrou kwvmh). Tanto in Lg. III quanto in Pol. I, la città nasce dalla riunione di gruppi familiari (per un’analisi dell’origine della città in Pol. I, attenta al confronto con Lg. III, si veda Gastaldi 2012b). Un quadro diverso è offerto da Platone in Rsp. II, 369 b5 ss., dove non compare menzione della famiglia: la polis si costituisce come associazione di singoli individui. È necessario ricordare che il racconto della genesi della polis in Rsp. II non ha carattere storico, ma piuttosto logico, nel senso che mira a mettere in evidenza la condizione fondamentale per l’esistenza di una comunità (Cambiano 1971, p. 172; Campese 1998, p. 289 n.4; Zuolo 2012, pp. 98-100). Tale condizione viene identificata nello scambio di servizi, che risponde al bisogno dei singoli, incapaci di soddisfare autonomamente tutte le proprie necessità. Il concetto di divisione del lavoro non riceve alcun rilievo nel quadro storico delle origini in Lg. III, che sottolinea invece come dato essenziale la subordinazione gerarchica all’interno della comunità (Cambiano 1971, p. 247).

38 necessità (cfr. 681 c7: ajnagkai'on) a nominare dei rappresentanti, uno per ogni stirpe, che scelgano fra i nomoi dei diversi gruppi familiari quelli più adatti a diventare comuni a tutti. In questi rappresentanti Platone ravvisa i primi legislatori; fra i loro compiti c’è anche quello di istituire governanti i vari capifamiglia, formando così a partire dalle

dynasteiai un’aristocrazia o una monarchia115. L’avvento della legislazione e di una politeia propriamente politica avviene dunque nel solco del regime delle dynasteiai: i nomoi nascono sulla base di usanze ancestrali condivise116, gli arkhontes sono i soliti patriarchi, che però non guardano più soltanto al bene delle rispettive famiglie, ma a quello della comunità. Con questa messa in comune (cfr. 681 c9-10: eij" to; koinovn) nasce la comunità politica; e nel suo costituirsi la funzione del patronomeisthai svolge un ruolo fondamentale117.

Sottolineando la continuità fra l’avvento della legislazione e di una politeia propriamente politica e lo stadio pregiuridico118, la ricostruzione platonica coglie aspetti di verità storica. Almeno per quanto riguarda Atene, importanti indizi suggeriscono che l’ordine politico si è effettivamente definito a partire da una realtà sociale fondata sui vincoli di parentela. Il più probante è l’ampio spazio riconosciuto alla famiglia nel diritto penale ancora in età classica: solo ai familiari del defunto, e a nessun altro, spetta il diritto di intentare la dike phonou, la causa per omicidio119. Il ruolo esclusivo dei parenti si spiega in riferimento a un regime più antico, testimoniato dai poemi omerici, in cui la riparazione dell’omicidio avveniva tramite la vendetta privata120

; si giocava cioé fra la famiglia dell’ucciso, collettivamente tenuta a cercare rivalsa, e quella

115 Lg. III, 681 d1-4: aujtoi; me;n nomoqevtai klhqhvsontai, tou;" de; a[rconta" katasthvsante",

ajristokrativan tina; ejk tw'n dunasteiw'n poihvsante" h] kaiv tina basileivan…

116

Il significato più antico di nomos, del resto, è proprio “costume”, “regola di condotta sancita dall’uso” (Gernet 1983, p. 87 della tr.it. (Roma 1986). Questo significato non scompare quando nomos, soppiantando thesmos, diventa il nome per eccellenza della legge; come osserva Gernet 1951a, p. XCIV,

nomos si applica di volta in volta al costume, alla regola religiosa, all’obbligazione morale, alla

prescrizione legislativa “sans que la notion cesse d’être plus ou moins une” (cfr. anche Thomas 1996, p. 19).

117 È giusto notare che questa rappresentazione dell’avvento della legislazione ‘in termini meramente

umani’ viene, nel prosieguo delle Leggi, superata teoreticamente grazie alla teologia filosofica di Lg. X: essa insegna che, come il cosmo e gli elementi fisici non sono frutto del caso, così la politica non è solo un prodotto umano, ma procede da un’arkhe divina (su tutto ciò, si veda almeno Panno 2007, pp. 305-07).

118 Per la nozione gernetiana di prediritto, cfr. supra, “Introduzione”, p. 12. 119 Phillips 2008, p. 59; MacDowell 1963, pp. 16-18; Paoli 1948.

120

Phillips 2008, p. 29; Scheid-Tissinier 2005; sulla vendetta in Omero (e sulla sua alternativa, la riscossione della poine, il compenso materiale pagato dalla famiglia dell’assassino), si vedano almeno Cantarella 1976, pp.15-32 e 1979, pp. 224-37). Ricordiamo la diversa opinione di Gagarin 1981, il quale nega che nella preistoria sociale della Grecia la reazione consueta all’omicidio fosse la vendetta (cfr. e.g. p. 18).

39 dell’uccisore, bersaglio della reazione violenta dei parenti della vittima121

. Introducendo l’obbligo del processo122

, sul finire del VII sec. a.C, la legge di Draconte sottomette la repressione dell’omicidio alla giurisdizione dell’autorità pubblica123

. Eppure, in virtù delle prerogative riconosciute ai familiari, l’omicidio rimane nella sua essenza, pure in seno alla città, un ‘affare di famiglia’: assetto particolare, che rivela, nel mutamento, una continuità con il passato.

Di continuità si può parlare anche in un altro senso, questa volta al livello psicologico e morale. In un certo senso, infatti, l’avvento della potestà giudiziale della

polis in materia di reati di sangue implica la condivisione, da parte della comunità, dei

sentimenti della famiglia della vittima. Tutta la comunità si sente, assieme alla famiglia, toccata dall’offesa, e interessata a garantirne la riparazione124

; questa partecipazione è il

121 La solidarietà passiva, che i poemi attestano largamente, vige sicuramente in linea di principio, un po’

meno nei fatti. Quando, per evitare la morte, l’assassino va in esilio, nessuna ritorsione colpisce i suoi; il suo allontanamento basta a placare i parenti dell’uccisore (Cantarella 1979, p. 231 ss.).

122 La legge sancisce infatti la necessità di un riconoscimento giudiziale della disposizione psichica

dell’assassino (intenzionalità o non intenzionalità dell’azione criminale), assunta a criterio della graduazione delle pene. Per una presentazione del testo della legge, e delle principali questioni che esso pone (numerose e molto dibattute, come dimostra la ricchissima bibliografia in merito), si veda almeno Phillips 2008, pp. 49-57. È importante sottolineare il fatto che la rilevanza riconosciuta all’intenzione rappresenta un’importante evoluzione rispetto alla situazione attestata dai poemi omerici, dove la categoria del “volontario” compare, ma non ha alcun peso sul piano delle conseguenze dell’atto: l’omicidio invariabilmente suscita la vendetta dei parenti della vittima (cfr. specialmente Cantarella 1976, pp. 32-39 e 1979, 237-39). Sulla complessità della nozione di volontarietà propria del diritto greco, contrassegnata dalla mancata distinzione fra intenzione e premeditazione, si vedano Gernet 1917a, pp. 349-87 della 2˚ ed. (Parigi 2001); Cantarella 1976, pp. 97-111 e 123-27 (cfr. anche pp. 111-23, sul contributo decisivo apportato dalla riflessione filosofica all’elaborazione del concetto di atto volontario).

123 Cfr., da ultimo, Cantarella 2007, p. 22. Con Draconte, l’omicidio diventa un reato nel senso moderno

del termine: un comportamento vietato, punito con una pena comminata da organi statali riconosciuti competenti in materia. È questo il risultato di un lungo processo, le cui radici si possono cogliere nella