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Dunque, la crisi del paradigma 89

Come già detto, allora, nella parte metodologica della premessa, considerando il principio di legalità, nella sua versione classica, come il paradigma dello stato di diritto fondato sulla legge, le dinamiche ordinamentali fin qui descritte possono essere approcciate da due punti di vista tra loro opposti. Nell’uno, normativo, come una violazione di tale paradigma; nell’altro, descrittivo, come un mutamento, o superamento, di tale paradigma, e dunque, come un nuovo “orizzonte di significato” elaborare. Molto significative a questo proposito sono le parole di Lorenza Carlassare nell’affrontare vis a

vis la critica radicale al principio di legalità come argomentata da Sergio Fois.

313 Cfr. A. SUPIOT, op. cit., passim.

314 V. L.TORCHIA (a cura di), Lezioni di diritto amministrativo progredito, op. cit., 18 ss. Più nello specifico su questi principi, vedi L.CIMELLARO, op. cit., 155 ss.

Quest'ultimo infatti, nel nome del principio di effettività secondo cui il diritto non è ciò che deve essere, id est, ciò che è scritto nella costituzione e nelle leggi, ma ciò che di fatto è, dunque come concretamente si sviluppano i rapporti economico-sociali rilevanti per l'ordinamento giuridico, revoca in dubbio ogni valenza prescrittiva al principio di legalità, considerandola ormai una formula di carattere retorico o poco più, di cui ormai avrebbe perfino poco senso qualificare come violazioni concreti assetti ordinamentali da esso difformi. Vigorosamente allora la Carlassare afferma:

«A tali rilievi, gravi e fondati, si può solo rispondere che innegabilmente il principio di legalità non è riuscito a penetrare completamente nel nostro sistema, ispirato a principi di vecchia legislazione rimata in notevole parte immutata. Ma questa è considerazione che non vale, purtroppo, per la sola legalità: molte sono le parti della Costituzione inattuate o frequentemente violate (basti pensare alla stessa libertà personale e alla riserva di legge in materia). Trattandosi però di una Costituzione rigida garantita, ciò che contrasta con i suoi principi va considerato violazione e come tale denunciato, non invece recepito e subìto come mutazione irreversibile. Fino a quando è possibile, prima di giungere alle sole conclusioni estreme conseguenti – di negare cioè la legittimità di questo Stato una volta venuta meno ogni possibile “credenza nella legalità” e ogni riferimento alla volontà popolare e invocare il diritto di resistenza – vanno intanto riaffermati vigorosamente i principi disattesi o violati, senza lasciarsi tentare dal “realismo” dei razionalizzatori dell’esistente [...] utile certo contro ogni forma di ottimismo mistificante, solo però fino a quando non si spinga a travolgere ogni aggancio col quadro costituzionale di riferimento»316.

La parte finale del passo della Carlassare costituisce davvero un richiamo accorato al ruolo del giurista in una democrazia costituzionale, ed alla sua necessaria credenza "istituzionale" per cui il suo lavoro non può limitarsi a commentare i cambiamenti in atto ma, quando questi cambiamenti siano in contrasto con le norme costituzionali, debba denunciarli come violazioni. D'altronde questo costituisce una delle assunzioni di fondo, se non la principale premessa metodologica, da cui questa ricerca parte e si sviluppa, come spiegato nell'introduzione e nella prima parte di questo capitolo. Con un caveat, però, che costituisce significativamente la premessa teorica della ricostruzione del principio come avverrà nell'ultima parte del capitolo. Carlassare è infatti chiara nel fondare il rifiuto del più facile realismo e dunque la necessaria impostazione

316 Così L.CARLASSARE, op. cit., 4 ss.

normativistica del giurista alla rigidità “garantita” della nostra Costituzione: impostazione assolutamente ragionevole, se si prende a riferimento principale, in altre parole ad oggetto della ricerca, la legislazione e i provvedimenti amministrativi e giurisdizionali nazionali. Allo stesso tempo però l'impostazione sembra non essere più sostenibile in due casi: da una parte, se non si da per scontato il fondamento costituzionale del principio di legalità; in altre parole, ove si dimostri che la legalità non ha una vera e propria copertura costituzionale nel nostro ordinamento, allora anche il normativismo critico che il giurista dovrebbe assumere viene a mancare; dall'altra, quando si allarghi lo spettro del discorso e si consideri dunque anche l'integrazione inter- e sopra-nazionale. Basti pensare al diritto europeo, e al potere di disapplicazione del giudice amministrativo di fronte a provvedimenti che, pur rispettando la normativa nazionale, siano invece in contrasto con la normativa comunitaria sul punto. E non è un caso che proprio nel diritto amministrativo, piuttosto che nelle altre discipline come il diritto penale o il diritto civile, avvenga questo processo di "trasfigurazione", secondo molti, della legalità. Il proseguio del percorso di questa analisi, riassumendone anche l'inizio, lo stabilisce Bernardo Sordi317:

«Troppo semplice, troppo ottocentesco quel principio di legalità per un diritto amministrativo che cambiava e che cambia in modo così vorticoso. Alle corde non c'è solo il modello mayeriano, prodotto del costituzionalismo primitivo dell'impero guglielmino e non traghettabile oltre i confini dello Stato monoclasse. Qualche crepa la rivela lo stesso disegno kelseniano che, fondato su di un solidissimo primato del Parlamento in funzione di contenimento e di composizione delle esplosive tensioni della società del primo dopoguerra, ha poi in gran parte ispirato le costituzioni del secondo dopoguerra. Ad indebolire quel disegno non è tanto l'artificiale purezza delle sue geometrie - comunemente lamentata - quanto il fatto che quelle geometrie erano comunque pensate per un unico modello di amministrazione pubblica, fortemente caratterizzata dal carattere autoritativo della funzione.

E' sin troppo evidente che molte inquietudini nascono sul terreno costituzionale, dall'evanescenza progressiva della volontà generale, evidente sia nella crescente inadeguatezza dei tradizionali meccanismi rappresentativi, sia nella drastica perdita di astrattezza e generalità della legge. Allarma la crescente afasia di un legislatore sommerso dal diluvio legislativo, che esso stesso ha prodotto, e reso inerme dalla oggettiva difficoltà di ripristinare, in una società complessa e corporativamente sezionata come l'attuale, una scienza della legislazione che solo disboschi la giungla normativa esistente o

ponga argini effettivi che evitino di calare qualsiasi possibile contenuto nell'atto legislativo. Per non parlare del sostanziale modificarsi della tradizionale piramide normativa delle fonti, da tempo sostituita da un sistema reticolare che esprime non solo le cessioni di sovranità alle entità sopranazionali o la sua sostanziale erosione da parte di mercati interamente globalizzati, ma anche la disaggregazione delle strutture interne, l'esplosione della giurisprudenza e della prassi.

L'amministrazione, avamposto nei confronti del sociale, ha però in qualche misura anticipato questa realtà. Il venire meno della funzione ordinante del principio di legalità è divenuto visibile proprio sul terreno amministrativo, dinanzi al rapido dissolversi dell'unità amministrativa ed alla proliferazione dei modelli, degli statuti, delle tipologie di attività. La legalità si è ridotta ad un mero perimetro del lecito, alla registrazione di tassonomie che di fronte alla incomprimibile complessità dovevano limitarsi ad elencare la varietà delle morfologie. Prima si è parlato - pudicamente - di fuga nel diritto privato; di venir meno dei modelli condizionali nella formulazione delle norme, con la progressiva contrattualizzazione dell'azione amministrativa e con il crescere degli obiettivi finalistici tipici della stagione dell'interventismo; più tardi si è pensato di arginare il restringersi dell'area coperta dall'ombrello della legalità con forme di governo democratico dell'economia che, ancor prima di riuscire a radicarsi in modo convincente, sono state sbaragliate dall'imporsi dei modelli competitivi e da nuovi confini tra ordine politico ed ordine economico. Problemi ancora aperti, comunque, se gli odierni modelli regolativi lasciano spazi di legislazione sostanziale di incredibile ampiezza alle c.d. autorità amministrative indipendenti, rinnovando in altre forme la sostanziale acefalia dell'antico interventismo pubblico.

Oggi la confluenza di diritto amministrativo e diritto privato nella disciplina dell'attività amministrativa è riconosciuta normativamente come principio generale; si guarda favorevolmente ad un distacco dai residui della specialità, ad un'osmosi ancora più forte con le categorie del diritto comune; talvolta si arriva persino a rescindere del tutto il legame storico dello Stato di diritto continentale con la specialità amministrativa. Il complicarsi del sistema delle fonti e la crescente giurisprudenzializzazione degli ordinamenti invitano a sostituire il modello semplicistico della legalità con un più vasto e complessivo "rispetto del diritto". Che sia venuto il momento di rinunciare al principio di legalità? O meglio, consapevoli che, per garantire i diritti, quel principio, proprio perchè scavato nel solco illuministico-rivoluzionario per il quale "la libertè... a pour sauvegarde la loi", ha sempre parlato il "linguaggio del potere", non dovremmo iniziare a prendere atto che i valori garantistici che racchiude al suo interno sono sempre più diafani e meno appaganti?».

Per provare ad abbozzare una risposta a tali interrogativi, restano dunque da affrontare due elementi. Il primo è l'analisi della nuova concezione della legalità, "aperta",

in prospettiva dunque realista. Questo avverrà con l'esame della legislazione, della giurisprudenza e soprattutto della dottrina rilevante. Elaborata tale nozione, poi, si proverà invece a ricostruire il nucleo centrale del principio di legalità sul piano della teoria del diritto; e dunque non dovendo necessariamente partire dalle dinamiche in atto, ma andando alla funzione ultima di tale paradigma, e del suo rapporto con l’idea stessa di stato e di diritto; passaggio che si rivela altresì fondamentale per poi valutare criticamente le manifestazioni empiriche della crisi della legalità, per come esposte nel secondo e terzo capitolo. Questo ribadendo che è in primis la dottrina a contenere «affermazioni incompatibili»318 con il principio di legalità; e che dunque più piani di analisi si vanno ad intersecare – dal piano di “stretto” diritto positivo, a quello dogmatico-interpretativo, a quello assiologico o di filosofia della giustizia319.