1.3 Sulle difficoltà della ricostruzione teorica di un termine polisemico 35
1.3.1 L’orizzonte di significato Governo della legge vs governo degli uomini: portata
Nell’antichità ed, in particolare, in quella della Grecia, il problema della dialettica tra potere e libertà si risolve nell’alternativa tra governo degli uomini e governo delle leggi. Ci troviamo innanzi alla nascita della filosofia politica: in questo senso, sia Aristotele che Platone reputano la questione centrale per il perseguimento della migliore forma di governo. Aristotele, nella Politica, sembra lineare nel preferire il governo delle leggi al governo degli uomini. Il motivo principale risiede nella razionalità (universale), propria delle leggi ma non degli uomini che, come sottolinea, sono fondamentalmente (anche) animali, e dunque sconvolti dalle passioni83. La razionalità della legge viene dunque contrapposta all’irrazionalità degli uomini, in due sensi: nel primo senso, come corollario dell’uguaglianza in natura dei cittadini che deve essere rispecchiata dall’uguaglianza di diritto e dunque con una valenza che oggi noi definiremmo
democratica, di uguale partecipazione al governo della polis84; nel secondo, garantistico,
come uguaglianza nel diritto, a tutela di ogni singolo membro della comunità rispetto alle possibili decisioni particolari adottate in assenza della legge. In questo senso dunque i legislatori devono essere «guardiani delle leggi»: il loro potere è limitato ab origine e si legittima solo in quanto esercitato con la saggezza pratica che deve essere propria di coloro chiamati al munus governativo. Bisogna sottolineare come entrambi i sensi sopra esposti possono essere descritti dal termine isonomia che, come vedremo, costituirà uno dei temi ricorrenti del lavoro, anche e soprattutto nell’analisi delle odierne dinamiche:
isonomia come uguaglianza nel diritto e del diritto, cifra distintiva, almeno secondo
alcuni, della distinzione tra sfera pubblica e sfera privata modernamente intese. Resta il fatto, comunque, che Aristotele pone il governo della legge, ed in questo senso la sua
83 Cfr. N. BOBBIO, Stato, Governo, Società: Per una teoria generale della politica, Einaudi, Torino, 1985.
sovranità85, come paradigma stesso della politeia: ove non c’è la prima, non può affermarsi nemmeno la seconda. E questo è tanto più significativo se si pensa che Aristotele lo afferma proprio a proposito della democrazia, del governo del popolo. È d'uopo riportare un passo del brano86:
«Another kind of democracy is the same in other respects, but the multitude has authority, not the law. This arises when decrees have authority instead of laws; and this happens because of popular leaders [demagogos]. For in city-states that are under a democracy based on law, popular leaders do not arise. Instead, the best citizens preside. Where the laws are not in authority, however, popular leader arise. For the people become a monarch, one person composed of many, since the many are in authority not as individuals, but all together. [...] a people of this kind, since it is a monarchy, seeks to exercise monarchic rule through not being ruled by the law, and becomes a matter. The result is that flatterers are held in esteem, and that a democracy of this kind is the analog of tyranny among the monarchies. [...] One might hold, however, that it is reasonable to object that this kind of democracy is not a constitution [politeia] at all, on the grounds that there is no constitution where the laws do not rule. For the law should rule universally over everything, while offices and the constitution should decide particular cases».
Il passo è esemplare non solo per quanto riguarda la sovranità del diritto qui espressa, ma anche per revocare in dubbio le interpretazione che il liberalismo moderno dà dell’idea stessa del governo della legge per gli antichi.
Platone invece è sostanzialmente contradditorio sul punto, non solo in opere diverse, ma nelle stesse Leggi. Se infatti, nel libro IV sembra concorde con la posizione aristotelica, per cui il bene della polis, della comunità è garantito dalla sottoposizione dei governanti, o «servitori», alle leggi, nel libro IX sembra difende l’idea di un potere intrinsecamente “buono”, che occorrebbe quando i giudici «hanno ricevuto una buona educazione e sono stati minuziosamente esaminati»: ed, in quanto tali, reputa che sono da slegare dal giogo della previa legge universale e a cui è giusto, nel senso più trascendentale del termine, affidare «molte questioni». Se si esamina poi il Politico il contrasto appare ancora più stridente, dove è chiara la preferibilità per il buon governante rispetto alle buone leggi:
85 Cfr. P.COSTA, op. cit., 76 ss.
86 ARISTOTLE, Politics, translated by C.D.C. Reeve, Hackett, New York, 1998, pag. 110, 1292a 5- 30. Nelle note, Reeve chiarisce che l’uso di politeia come giudice di casi particolari non deve stupire, il riferimento è infatti confinato a questo particolare tipo di democrazia in descrizione in cui, appunto, è la classe che governa a costituire la politeia stessa.
«Allo stesso modo che un pilota stando sempre attentissimo al bene della nave e dei suoi passeggeri, senza bisogno di leggi scritte ma tenendo per legge la propria arte, salva tutto l’equipaggio, così, ed allo stesso modo, da parte di chi sappia governare, non potrà forse realizzarsi una giusta forma di Stato, grazie alla forza della scienza che è superiore a quella delle leggi?»87
Resta da stabilire quanto l’antropologia platonica abbia influenzato questo oscillare tra i due poli, quello delle buone leggi e quello dei buoni governanti. Il problema forse è nell’olismo di Platone, che vede sempre il tutto prima dell’uno, in modo parzialmente differente da Aristotele, e dunque non considera nemmeno la possibilità di pericolo per i singoli quando il potere è esercitato, per leges ma non sub lege, dagli uomini, seppur “illuminati”. Quello che rileva però è, come mette in evidenza Bobbio88, il rapporto tra stato e società, idealmente rovesciato rispetto a come siamo abituati ad intenderlo oggi. Sociale e politico coincidono – tutto cioè si risolve nell’istituzione politica, anche quelle formazioni che oggi noi definiremmo intermedie, come famiglia, esercito, etc. sono viste come risultati di accordi al fine di perseguire determinati fini comunque subordinati all’associazione politica, che persegue, unica, il bene con riguardo all’intera vita degli uomini. In questo senso la frattura con la metafisica di Aristotele è netta: e la ricaduta è sull’orizzonte del buon governo, che per Aristotele è un fine in sè, mentre per Platone deve per forza corrispondere al perseguimento di fini esterni a quelli propri dei membri della comunità, di miglioramento della condizione umana.
Se non c’è distinzione tra stato e società, in sintesi, non può esserci distinzione tra (diritto) pubblico e privato, o meglio, non può esserci nel senso moderno della dicotomia89. Questo va sempre tenuto a mente quando si considerano, in filosofia politica,
l’esperienza greca nei termini dell’alternativa tra olismo (sicuramente prevalente) e individualismo, e si utilizzano questi modelli per leggere, o trovare radici, a costruzioni che invece presuppongono un rapporto stato-società del tutto eterogeneo. Questo riporta al problema metodologico sollevato da Bobbio, che nell’affrontare i suoi studi di scienza politica sottolinea la diversità tra le due fonti di conoscenza, la storia delle istituzioni politiche e quella delle dottrine politiche. Per forza di cose, la nostra conoscenza dell’antichità si basa più sulla seconda che sulla prima: e dunque è una conoscenza (già
87 PLATONE, Politico, 296e-297a, in Dialoghi politici, F. Adorno (a cura di), Utet, Torino, 1970, 896 ss.
88 N. BOBBIO, op. ult. cit., 52 ss. 89 Ivi, 45 ss.
mediata), di cui dobbiamo sempre tenere a mente le caratteristiche epistemologiche. Per l’orizzonte classico dunque la scienza politica (ma anche quella giuridica) consta di tre livelli ricostruttivi: quello storico della descrizione delle concrete istutituzioni politiche; quello dei filosofi e dei teorici della politica classici, che offrono una prima interpretazione di tali istituzioni e delle loro vicende; e, infine, quello dei pensatori moderni, che ri-elaborano questi materiali con le categorie proprie della modernità giuridica e non.
Comunque, risalendo l’albero genealogico del principio di legalità e, significativamente, anche del rule of law, si arriva al “governo della legge” contrapposto al “governo degli uomini”, alternativa fondamentale che pervade buona parte della filosofia, e soprattutto della teoria politica, classica. Il collegamento sembra invero labile, se si considera l’odierno e “tradizionale” significato dato al principio nel senso di necessaria sottoposizione alle legge di tutti i pubblici poteri, così che ogni loro atto deve essere conforme alla legge, pena l'invalidità dell'atto stesso (e l'illegittimità dell'azione). Principio di legalità dunque rivolto ai poteri pubblici, “contro di essi”, al fine di garantire la libertà dall’arbitrio. Ma quale è la relazione tra questa nozione e quella classica di “governo della legge”? Il punto è fondamentale, e si può considerare fin da ora una delle assunzioni principali di questo lavoro. In questo senso, governo della legge contrapposto a governo degli uomini esprime bene il nucleo ontologicamente garantista (ed inclusivo) del principio, nel senso di garanzia della libertà (di tutti) contro il possibile esercizio arbitrario del potere. Si badi bene, qui potere non è il potere pubblico – è il potere degli uomini (liberi), di ognuno di essi, che viene esercitato indistintamente nell’esercizio delle funzioni della cittadinanza ma anche e soprattutto al di fuori di essa. Si tratta dei poteri selvaggi, sregolati, che appunto pre-esistono al diritto, alla legge, e si pongono come continua minaccia alla pacifica e libera convivenza civile. Solo in apparenza paradossalmente, si limitano insomma le libertà, per garantirle. Questo è il nodo gordiano che il liberalismo classico, settecentesco credeva di aver risolto (o quantomeno superato, in un modo o nell’altro)90, ma che invece si è riproposto in tutta la sua dirompente portata epistemologica negli ultimi due secoli, con il passaggio (non sempre netto) dal liberalismo settecentesco a quello moderno, per volti versi indistinguibile dal liberismo.
90 V. le successive citazioni di Locke.