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Rinascimento mostruoso Campi d’indagine per la prima età moderna

1.2. Off the Edge of the Map: mostri fossili dall’Oriente

Fin dagli albori della civiltà occidentale, si svilupparono narrazioni in cui intere raz- ze mostruose esotiche popolavano le ignote lande fuori dai margini del mondo cono- sciuto: la deformità non era percepita come evento accidentale all’interno della pro- pria comunità, ma come caratteristica comune di popoli interi, collocati in un oriz- zonte spaziale estremo. Quasi che alla radicale alterità fisiologica dovesse accompa- gnarsi una massima alterità geografica, questi territori furono proiettati in una lonta- nanza genericamente indicata come ‘India’, ‘Oriente’, o più raramente ‘Africa’, e in ogni caso oltre il confine di un territorio chiaramente delimitato e riconosciuto come intoccabile patrimonio identitario24.

Tale concezione trae origine, come è ampiamente noto, dalla visione etnocentri- ca dei greci (attestata, ad esempio, dalle digressioni orientali nelle Istorìai di Erodo- to di Alicarnasso, V secolo a.C.), si sviluppa con l’immenso patrimonio di leggende diffuse durante e dopo l’impresa asiatica di Alessandro (IV secolo a.C.), per saldarsi nella mentalità occidentale in quell’apice enciclopedico della classicità che è la Na- turalis historia di Plinio il Vecchio (I secolo d.C.)25.

23 Cfr. Lorraine Daston, Katharine Park, Wonders and the Order of Nature, 1150-1750, cit., pp. 183-189.

Si veda anche Robin B. Barnes, Prophecy and Crisis. Apocalypticism in the Wake of the Lutheran Re-

formation, Stanford, Stanford University Press, 1988.

24 In questo allontanamento del ‘mostruoso’, operato con la creazione di ‘razze esotiche’ che abitano le

terre più estreme del mondo, si percepisce un meccanismo psicologico molto comune, che proietta le paure inconsce in luoghi geograficamente lontani. Su questo tema, si veda Leslie A. Fiedler, Freaks.

Myths and Images of the Secret Self, New York, Simon and Schuster, 1978, in particolare capitolo 9

(Freaks. Miti e immagini dell’io segreto, traduzione italiana di Ettore Capriolo, Milano, Il Saggiatore, 2009). Tale meccanismo – sottolinea lo studioso americano – sopravvive anche ai nostri giorni: «even in our time, we have not given up trying to persuade ourselves that monstrous races inhabit the remote pla- ces of this earth, rather than of our deep psyches. But we are running out of territory remote enough to qualify, except, perhaps, for the Himalayas, where giant hairies, repabtized yeti or Abominable Snow- men, are still reported from time to time» (p. 239).

25 Nella sterminata bibliografia sul tema, segnalo innanzitutto il lungo articolo di Rudolf Wittkower,

Marvels of the East. A Study in the History of Monsters, «Journal of the Warburg and Courtauld Institu-

tes», 5, 1942, pp. 159-197 (Le meraviglie dell’Oriente: una ricerca sulla storia dei mostri, in Id., Alle-

goria e migrazione dei simboli, introduzione di Giovanni Romano, traduzione italiana di Marcello Cic-

cuto, Torino, Einaudi, 1987, pp. 84-152), punto di riferimento indispensabile per la ricostruzione genea- logica delle razze mostruose d’Oriente, dalla sintesi della tradizione greco-latina a un’acuta disamina dell’immaginario medievale. Sull’etnocentismo greco (con particolare riferimento al suo rapporto con l’Oriente mostruoso), e più in generale sullo sviluppo della tradizione delle razze mosturose orientali lungo tutto il Medioevo, si veda inoltre John B. Friedman, The Monstrous Races in Medieval Art and

Immensa summa della conoscenza, vera e propria imago mundi ispirata al prin- cipio secondo il quale «niente può apparire superfluo nell’osservazione della natu- ra», l’enciclopedia pliniana non poteva rinunciare alla descrizione di tutti quei popo- li che – sosteneva lo scrittore – ci appaiono mostruosi solo perché incontrano il no- stro sguardo per la prima volta26. È proprio in quella diversità multiforme che l’universo cela i suoi prodigi più singolari:

Ritengo […] di non dover tralasciare alcune notizie, soprattutto quelle concernenti popoli che vivono lontano dal mare, talune caratteristiche dei quali appariranno, ne sono certo, prodigiose e incredibili a molti […]. Quale fatto non sembra straordina- rio nel momento in cui se ne prende per la prima volta conoscenza? Quante cose non si ritengono impossibili, prima che accadano? La potenza e la maestà della natura in tutte le fasi del suo esplicarsi è incredibile, se la si considera solo parzialmente e non nel suo insieme27.

Fedele a questo principio, Plinio trasformò il libro VII della sua Naturalis historia in un grandioso catalogo di tutte le etnie mostruose di cui aveva preso nota in più di un ventennio di letture accanite, accompagnando ognuna di esse con un breve profilo descrittivo. Sfilano in tal modo davanti ai nostri occhi di lettori affascinati le Blem- mie (uomini acefali con il volto incastonato nel petto), gli Sciapodi (con un immen- so, unico piede), i Cinocefali (dalla testa di cane), gli Imantipodi (irsuti su tutto il corpo), gli Astomi (privi di bocca, capaci di nutrirsi di odori), i Panozi (muniti di gi- gantesche orecchie, utilizzate per coprirsi e per volare) e un’infinità di altri popoli stravaganti. Contenuta all’interno di un’opera letta, trascritta e consultata per tutto il Medioevo e nel Rinascimento, questa accurata collezione è stata per molto tempo considerata un grande compendio di verità scientifica e ha in tal modo contribuito a fissare l’immaginario europeo sull’Oriente meraviglioso, di cui le razze mostruose costituivano una fondamentale ossatura.

Ma l’universo di Plinio, per poter accedere al Medioevo, aveva dovuto attraver- sare le maglie di un nuovo setaccio: il mondo cristiano non poteva inglobare sempli- cemente l’eredità geografica ed etnografica del mondo pagano, doveva ricondurla all’interno di una linea che originasse dall’autorità della Bibbia. E furono prima Agostino (IV-V secolo) poi Isidoro di Siviglia (VI-VII secolo) a mostrare la via di ricomposizione tra la meraviglia e la dottrina del nuovo credo: l’unità dell’universo, scandita dalla perfezione del disegno di Dio, legittimava quello che agli occhi di molti era ingiustificabile: il vero cristiano non poneva limiti all’onnipotenza del Creatore. Per questa via ogni meraviglia del lontano Oriente trovava la sua colloca- zione nell’ordinato cosmo divino: «Come non fu impossibile a Dio costituire le na- zati dal popolo ellenico per contrapporsi allo straniero: la lingua (da cui deriva il termine bàrbaros, che significa letteralmente ‘colui che fa bar-bar’), le abitudini alimentari, la vita al di fuori della struttura cittadina, la polis che essi riconoscevano come una delle loro più importanti invenzioni. A Friedman si deve anche l’efficace definizione di «Plinian races» per le etnie mostruose di cui parla il grande enciclo- pedista latino (ivi, p. 5).

26 Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, 5 voll., prefazione di Italo Calvino, saggio introduttivo di Gian

Biagio Conte, traduzioni e note di Alessandro Barchiesi, Roberto Centi, Mauro Corsaro, Arnaldo Mar- cone e Giuliano Ranucci, Torino, Einaudi, 1982-1988, vol. II, p. 547 [Naturalis historia, XI, 4].

27 Ivi, pp. 11-13 [Naturalis historia, VII, 6-7].

cerate dalle rivalità tra le diverse confessioni e dalle guerre che ne seguirono, siamo giunti esattamente all’orizzonte cronologico in cui è collocato questo studio23.

Ma non è un orizzonte spoglio: vi si intravedono – seppure ridotte ad ombre – le razze mostruose esotiche non ancora del tutto respinte nel loro mondo fiabesco. Ed è qui, in questo universo di ombre che, prima di entrare nel vivo del ‘Rinascimento mostruoso’, sarà opportuno soffermare brevemente lo sguardo.

1.2. Off the Edge of the Map: mostri fossili dall’Oriente

Fin dagli albori della civiltà occidentale, si svilupparono narrazioni in cui intere raz- ze mostruose esotiche popolavano le ignote lande fuori dai margini del mondo cono- sciuto: la deformità non era percepita come evento accidentale all’interno della pro- pria comunità, ma come caratteristica comune di popoli interi, collocati in un oriz- zonte spaziale estremo. Quasi che alla radicale alterità fisiologica dovesse accompa- gnarsi una massima alterità geografica, questi territori furono proiettati in una lonta- nanza genericamente indicata come ‘India’, ‘Oriente’, o più raramente ‘Africa’, e in ogni caso oltre il confine di un territorio chiaramente delimitato e riconosciuto come intoccabile patrimonio identitario24.

Tale concezione trae origine, come è ampiamente noto, dalla visione etnocentri- ca dei greci (attestata, ad esempio, dalle digressioni orientali nelle Istorìai di Erodo- to di Alicarnasso, V secolo a.C.), si sviluppa con l’immenso patrimonio di leggende diffuse durante e dopo l’impresa asiatica di Alessandro (IV secolo a.C.), per saldarsi nella mentalità occidentale in quell’apice enciclopedico della classicità che è la Na- turalis historia di Plinio il Vecchio (I secolo d.C.)25.

23Cfr. Lorraine Daston, Katharine Park, Wonders and the Order of Nature, 1150-1750, cit., pp. 183-189.

Si veda anche Robin B. Barnes, Prophecy and Crisis. Apocalypticism in the Wake of the Lutheran Re-

formation, Stanford, Stanford University Press, 1988.

24In questo allontanamento del ‘mostruoso’, operato con la creazione di ‘razze esotiche’ che abitano le

terre più estreme del mondo, si percepisce un meccanismo psicologico molto comune, che proietta le paure inconsce in luoghi geograficamente lontani. Su questo tema, si veda Leslie A. Fiedler, Freaks.

Myths and Images of the Secret Self, New York, Simon and Schuster, 1978, in particolare capitolo 9

(Freaks. Miti e immagini dell’io segreto, traduzione italiana di Ettore Capriolo, Milano, Il Saggiatore, 2009). Tale meccanismo – sottolinea lo studioso americano – sopravvive anche ai nostri giorni: «even in our time, we have not given up trying to persuade ourselves that monstrous races inhabit the remote pla- ces of this earth, rather than of our deep psyches. But we are running out of territory remote enough to qualify, except, perhaps, for the Himalayas, where giant hairies, repabtized yeti or Abominable Snow- men, are still reported from time to time» (p. 239).

25 Nella sterminata bibliografia sul tema, segnalo innanzitutto il lungo articolo di Rudolf Wittkower,

Marvels of the East. A Study in the History of Monsters, «Journal of the Warburg and Courtauld Institu-

tes», 5, 1942, pp. 159-197 (Le meraviglie dell’Oriente: una ricerca sulla storia dei mostri, in Id., Alle-

goria e migrazione dei simboli, introduzione di Giovanni Romano, traduzione italiana di Marcello Cic-

cuto, Torino, Einaudi, 1987, pp. 84-152), punto di riferimento indispensabile per la ricostruzione genea- logica delle razze mostruose d’Oriente, dalla sintesi della tradizione greco-latina a un’acuta disamina dell’immaginario medievale. Sull’etnocentismo greco (con particolare riferimento al suo rapporto con l’Oriente mostruoso), e più in generale sullo sviluppo della tradizione delle razze mosturose orientali lungo tutto il Medioevo, si veda inoltre John B. Friedman, The Monstrous Races in Medieval Art and

storiche, geografiche o zoologiche. Brunetto ci appare pertanto come il rappresen- tante di un vero e proprio punto di svolta, un momento aurorale di razionalità scetti- ca, in cui la forza delle auctoritates del passato non è più sufficiente a dare credibili- tà ai racconti sulle meraviglie orientali.

L’Oriente non era più in questi anni una rassicurante lontananza da conoscere solo tra le pagine dei libri. L’improvvisa invasione dei Mongoli che, guidati da Gen- gis Khan, erano giunti quasi alle porte di Vienna (1241), e poi altrettanto improvvi- samente si erano ritirati, offrì infatti ad alcuni impavidi pellegrini la possibilità di visitare personalmente quelle terre lontane. Se da una parte in Occidente restava pressante il timore di una ripresa delle selvagge scorrerie, dall’altra era nata l’idea di sapere di più su quei bellicosi guerrieri e di coinvolgerli, dove possibile, in una co- mune azione contro la potenza islamica. Promotore di questa strategia dell’alleanza era stato, nel concilio di Lione del 1244, Innocenzo IV.

In corrispondenza di questo evento si situa la prima spedizione diplomatica uffi- ciale nelle misteriose contrade d’oriente: quella del missionario francescano Gio- vanni da Pian del Carpine, che ci ha lasciato un accurato resoconto del viaggio nella sua Historia Mongolorum (1247)32. Non molto tempo dopo si colloca il Milione (ca. 1298) di Marco Polo, ampia relazione del viaggio e della permanenza dell’esplo- ratore veneziano alla corte del Gran Khan Kublai33. Primi viaggiatori d’Occidente a toccare con mano un Oriente reale, tanto Giovanni quanto Marco si trovano nell’imbarazzo di essere portatori di un patrimonio mitico che non combacia con la realtà oggettiva che si trovano a raccontare: filtrato da un rigoroso sguardo docu- mentario, l’Oriente immaginario dovrebbe dunque svaporare, nell’incontro con un Est tanto più reale e tanto più duro. E invece quella creazione più che millenaria esercita ancora una forza potente, e saltuariamente emerge in brevi porzioni di rac- conto. È come se, anche di fronte all’evidenza, l’uomo d’Occidente non riuscisse a sfuggire ad un tòpos consolidato e resistente, di fronte al quale la realtà deve cedere spazio al fantastico e, se non si può comprovarlo con i propri occhi, si attuano stra- tegie di prudenza, o di manipolazione. Giovanni da Pian del Carpine tende a riferire l’elemento fantastico come racconto di seconda mano, attraverso formule di pruden- te allontanamento («come ci è stato riferito», «come ci è stato detto con certezza», «come ci è stato assicurato»34); Marco Polo fa di più: trasferisce il racconto mitico in terre che non ha visitato (come quando, ai capp. LII-LVI, colloca il favoloso Prete Gianni nella provincia interna del Tenduc), oppure forza il racconto fino a farlo coincidere con dati documentari (come nel caso del cap. CXLIII, dove si sforza di intravedere un unicorno nella descrizione di un rinoceronte). Sembra quasi di assi- stere, nelle relazioni di viaggio, ad un lento e progressivo svanire di una tradizione ormai più che millenaria, e insieme alla pervicace volontà di farne sopravvivere al- meno qualche impoverito frammento.

32Giovanni da Pian del Carpine, Storia dei Mongoli, a cura di Enrico Menestò, traduzione italiana di

Maria C. Lungarotti, note di Paolo Daffinà, introduzione di Luciano Petech, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 1989.

33Marco Polo, Il libro di Marco Polo detto Milione, nella versione trecentesca dell’«ottimo», a cura di

Daniele Ponchiroli, prefazione di Sergio Solmi, Torino, Einaudi, 1954.

34Giovanni da Pian del Carpine, Storia dei Mongoli, cit., pp. 361-362.

ture che ha voluto, così non gli è impossibile cambiarle in ciò che vuole»28. Con un puntello retorico Agostino (seguito con analogo ragionamento da Isidoro) proclama- va l’infinita creatività della volontà di Dio: la contraddizione tra l’ordine terrestre e le sue deformità veniva ridimensionata a puro errore dello sguardo umano, incapace di cogliere la vastità e l’interezza del disegno divino. Di questo poderoso sforzo concettuale, rimase come eredità per gli scrittori successivi la fede che nulla, nella natura, esiste contra naturam.

Il dibattito teologico non fu l’unico campo in cui il catalogo pliniano dei mostri trovò modo di sopravvivere: tra il VI e il XII secolo altri intellettuali (per noi rimasti anonimi) ebbero un’ambizione del tutto diversa, di puro intrattenimento letterario. Ora fingendo di scrivere lettere immaginarie da luoghi sconosciuti e lontani, ora componendo ricchi cataloghi di mostri, essi contribuirono a consolidare e diffondere la leggenda sull’India mirabilis, sguinzagliando le sue razze mostruose per i sentieri dell’Europa alto e bassomedievale. Fu questo il caso del De rebus in Oriente mirabi- libus (VI secolo), dell’Epistola Alexandri ad Aristotelem Magistrum (VII secolo), del Liber monstrorum (IX secolo), della Epistola Presbiteri Iohannis (XII secolo)29. Ciò che differenzia tutte queste operette dall’immane sforzo enciclopedico affronta- to da Agostino o da Isidoro è la limitata attenzione all’indagine gnoseologica e alla precisione geografica, rimpiazzate invece dal puro gusto per il dato mirabile. Anche attraverso queste narrazioni, tuttavia, il grande patrimonio mitico sulle razze mo- struose orientali confluì nel patrimonio enciclopedico dell’Occidente.

Tutte le grandi enciclopedie del XIII secolo, infatti, ritennero importante preser- vare questo immaginario, difenderlo e argomentarlo, in tal modo – e per l’ultima volta – legittimandolo: ampi capitoli ‘mostruosi’ si trovano pertanto negli Otia Im- perialia (ca. 1220) di Gervasio di Tilbury, nel De natura rerum (ca. 1240) di Tom- maso di Cantimpré, nello Speculum naturale (ca. 1256) di Vincenzo di Beauvais30.

Unica eccezione, e segno dei nuovi tempi, fu il Tresor (ca. 1266) di Brunetto Latini, enciclopedia nata in un contesto laico e pratico, nella quale – per la prima volta – pochissimo spazio era dato al mostruoso orientale31. Con Brunetto comincia a intravedersi l’inizio del tramonto di questa tradizione, di cui sopravvivono solo li- mitati frammenti, che potremmo definire di abbellimento, all’interno di trattazioni

28 Agostino, La città di Dio, cit., vol. II, p. 1309 [De civitate Dei, XXI, 8, 5].

29 Giuseppe Tardiola (a cura di), Le meraviglie dell’India (Le meraviglie dell’Oriente, Lettera di Ales-

sandro ad Aristotele, Lettera del Prete Gianni), Roma, Archivio Guido Izzi, 1991; Anonimo, Liber monstrorum (secolo IX), introduzione, edizione critica, traduzione, note e commento a cura di Franco

Porsia, Napoli, Liguori, 2012.

30 Gervasio di Tilbury, Otia imperialia. Libro III. Le meraviglie del mondo, a cura di Fortunata Latella,

Roma, Carocci, 2010; Tommaso di Cantimpré, Liber de natura rerum. Editio princeps secundum codi-

ces manuscriptos, herausgegeben von Hans Boese, Berlin-New York, Walter de Gruyter, 1973; Vincen-

zo di Beauvais, Speculum quadruplex sive Speculum Maius: Naturale/ Doctrinale/ Morale/ Historiale, 4 voll., Graz, Akademische Druck-Universität Verlangsanstalt, 1964. Sul XIII secolo come epoca partico- larmente favorevole alla fioritura delle grandi enciclopedie, si veda il saggio di Jacques Le Goff, Pour-

quoi le XIIIe siècle a-t-il été plus particulièrement un siècle d’encyclopédisme?, in Michelangelo Picone

(a cura di), L’enciclopedismo medievale, Ravenna, Longo, 1994, pp. 23-40.

31 Brunetto Latini, Tresor, a cura di Pietro G. Beltrami, Paolo Squillacioti, Plinio Torri e Sergio Vattero-

storiche, geografiche o zoologiche. Brunetto ci appare pertanto come il rappresen- tante di un vero e proprio punto di svolta, un momento aurorale di razionalità scetti- ca, in cui la forza delle auctoritates del passato non è più sufficiente a dare credibili- tà ai racconti sulle meraviglie orientali.

L’Oriente non era più in questi anni una rassicurante lontananza da conoscere solo tra le pagine dei libri. L’improvvisa invasione dei Mongoli che, guidati da Gen- gis Khan, erano giunti quasi alle porte di Vienna (1241), e poi altrettanto improvvi- samente si erano ritirati, offrì infatti ad alcuni impavidi pellegrini la possibilità di visitare personalmente quelle terre lontane. Se da una parte in Occidente restava pressante il timore di una ripresa delle selvagge scorrerie, dall’altra era nata l’idea di sapere di più su quei bellicosi guerrieri e di coinvolgerli, dove possibile, in una co- mune azione contro la potenza islamica. Promotore di questa strategia dell’alleanza era stato, nel concilio di Lione del 1244, Innocenzo IV.

In corrispondenza di questo evento si situa la prima spedizione diplomatica uffi- ciale nelle misteriose contrade d’oriente: quella del missionario francescano Gio- vanni da Pian del Carpine, che ci ha lasciato un accurato resoconto del viaggio nella sua Historia Mongolorum (1247)32. Non molto tempo dopo si colloca il Milione (ca. 1298) di Marco Polo, ampia relazione del viaggio e della permanenza dell’esplo- ratore veneziano alla corte del Gran Khan Kublai33. Primi viaggiatori d’Occidente a toccare con mano un Oriente reale, tanto Giovanni quanto Marco si trovano nell’imbarazzo di essere portatori di un patrimonio mitico che non combacia con la realtà oggettiva che si trovano a raccontare: filtrato da un rigoroso sguardo docu- mentario, l’Oriente immaginario dovrebbe dunque svaporare, nell’incontro con un Est tanto più reale e tanto più duro. E invece quella creazione più che millenaria esercita ancora una forza potente, e saltuariamente emerge in brevi porzioni di rac- conto. È come se, anche di fronte all’evidenza, l’uomo d’Occidente non riuscisse a sfuggire ad un tòpos consolidato e resistente, di fronte al quale la realtà deve cedere spazio al fantastico e, se non si può comprovarlo con i propri occhi, si attuano stra- tegie di prudenza, o di manipolazione. Giovanni da Pian del Carpine tende a riferire l’elemento fantastico come racconto di seconda mano, attraverso formule di pruden- te allontanamento («come ci è stato riferito», «come ci è stato detto con certezza», «come ci è stato assicurato»34); Marco Polo fa di più: trasferisce il racconto mitico in terre che non ha visitato (come quando, ai capp. LII-LVI, colloca il favoloso Prete Gianni nella provincia interna del Tenduc), oppure forza il racconto fino a farlo coincidere con dati documentari (come nel caso del cap. CXLIII, dove si sforza di