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The Exception or the Rule: mostri come dilemma epistemologico

Rinascimento mostruoso Campi d’indagine per la prima età moderna

1.3. The Exception or the Rule: mostri come dilemma epistemologico

Nel 1317, il cronista fiorentino Giovanni Villani così riportava notizia della nascita di un bambino mostruoso nei dintorni della sua città:

E nel detto anno del mese di gennaio […], nacque a Terraio in Valdarno uno fanciul- lo con due corpi così fatto, e fu recato in Firenze, e vivette più di venti dì; poi morì allo spedale di Santa Maria della Scala, l’uno prima che l’altro: e volendo essere re- cato vivo a’ priori, ch’allora erano, per maraviglia, non vollono ch’entrasse in pala- gio, recandolsi a pièta e sospetto di sì fatto mostro, il quale, secondo l’openione de- gli antichi, ove nasce era segno di futuro danno37.

In pieno contrasto con la brulicante meraviglia dei racconti di genie mostruose che si potevano leggere nelle coeve enciclopedie, o nei diari dei viaggatori nelle lontanan-

35 Gugliemo di Rubruk, Viaggio in Mongolia (Itinerarium), a cura di Paolo Chiesa, Milano, Fondazione

Lorenzo Valla/Arnoldo Mondadori, 2011, p. 199.

36 Giovanni da Montecorvino, Epistolae, in Sinica franciscana. Relationes et epistolas fratrum minorum

saeculi XIII. et XIV. collegit, ad fidem codicum redegit et adnotavit p. Anastasius Van Den Wyngaert,

Quaracchi (Firenze), Barbera, Alfani e Venturi, 1929, pp. 340-355 [Ep. I, 8, p. 342].

37 Giovanni Villani, Nuova cronica, a cura di Giovanni Porta, 3 voll., Parma, Fondazione Pietro Bem-

ze d’Oriente, Villani sottolineava invece l’orrore e il timore generati da una nascita mostruosa a due passi da casa. Questo scarto nella reazione emotiva del cronista fio- rentino segnala che le stesse caratteristiche di deformità fisica, quando si presenta- vano in un’intera popolazione orientale non erano affatto considerate deformi (nelle trattazioni enciclopediche, anzi, erano date per normali in quei luoghi lontani, e ri- condotte alla varietà della natura); al contrario, quando si manifestavano in una città d’Occidente sotto forma di prodigio individuale, erano interpretate come una rottura dell’ordine morale, in quanto prodotto e segno di peccato, oppure presagio di futura sventura.

Una diversa modalità di lettura del mostro che non trovava motivazione solo in una differente postura intellettuale, ma anche in evidenti necessità pratiche: la nasci- ta mostruosa avvenuta in un contesto noto e familiare richiedeva una rapida decisio- ne riguardo alle azioni da compiere nell’immediato. Se, infatti, le genie mostruose orientali potevano essere oggetto di speculazione intellettuale, nel caso raccontato da Villani i genitori, la levatrice, il prete avevano da sciogliere tutta una serie di inquie- tudini: dovevano determinare se la creatura fosse umana, se dovesse essere battezza- ta e, in caso affermativo, se lo dovesse essere come una sola persona o come due. I priori fiorentini e la popolazione, da parte loro, dovevano interrogarsi sulla necessità di intraprendere atti formali di penitenza pubblica e privata per evitare un possibile disastro.

Per tutte queste ragioni, le nascite mostruose domestiche ponevano problemi di credibilità completamente differenti rispetto alle trattazioni libresche, e necessitava- no di prove certe che ne attestassero la veridicità. La dimostrazione dell’autenticità delle razze mostruose orientali presentava, infatti, un bassissimo grado di urgenza, in primo luogo perché gli enciclopedisti medievali non si muovevano tanto nel campo della plausibilità quanto in quello, che potremmo definire filologico, della raccolta e testimonianza di materiali letterari preesistenti38. In secondo luogo, la mentalità teo- logica medievale era propensa ad accettare che il Creato presentasse una forte varia- bilità spaziale, quasi che la distanza dal centro europeo favorisse la fantasia divina. Inoltre, la dottrina cristiana, ammettendo la possibilità che Dio interrompesse di tan- to in tanto la regolarità delle leggi da lui stesso stabilite, alimentava il senso di dove- re del credente di prestar fede agli eventi incomprensibili. Queste categorie culturali e religiose favorivano la credenza nell’esistenza remota delle razze esotiche e rende- vano rarissime e quasi irrilevanti le preoccupazioni di verosimiglianza. Come ab- biamo visto, la delusione di Guglielmo di Rubruck o di Giovanni da Montecorvino di fronte all’assenza delle razze pliniane convisse con la volontà di altri viaggiatori di forzare la realtà d’Oriente fino a farla coincidere con le verità dei libri; inoltre, entrambi questi atteggiamenti (tanto la delusione quanto l’ostinazione fino alla for- zatura) indicano una risolutezza nel voler credere alle specie esotiche, strettamente connessa con il sentimento della meraviglia per la creazione.

38 Su questo atteggiamento collezionistico da parte dei compilatori antichi, più attenti alla raccolta del

maggior numero possibile di fonti che all’analisi della loro veridicità, si veda Paul Veyne, Did the

Greeks believe in their Myths? An Essay on the Constitutive Imagination, Chicago, Chicago University

Press, 1988, specialmente capitolo 1. Qualcuno andò ancora oltre, cogliendo l’occasione di accertarsi ancora perso-

nalmente dell’esistenza delle meraviglie orientali, e arrivando a dichiararne corag- giosamente la assoluta infondatezza. Fu il caso del francescano fiammingo Gugliel- mo di Rubruck che, nel suo Itinerarium (1253-55), manifestò grande delusione per non aver trovato tra i Tartari le stranezze di cui aveva letto nella biblioteca del suo monastero: «molto ho chiesto anche dei mostri e degli uomini mostruosi […]; mi hanno risposto di non aver mai visto cose simili, e sarei molto sorpreso se esistesse- ro davvero»35. Alcuni anni più tardi, un altro viaggiatore, Giovanni da Montecorvino (missionario in Cina dal 1279 al 1328, anno della sua morte) espresse il medesimo disappunto annotando che «delli omini da meravigliare, cioè chontrafatti da gli altri, e delli animali, e del paradizo terestro, mouto adimandai e cierchai; alcuna chosa trovar none potti»36.

Sulle parole di Giovanni da Montecorvino può simbolicamente chiudersi questa breve ricognizione sulla genesi, lo sviluppo e il declino dell’immaginario sul mo- struoso orientale: originatosi nell’antichità classica, arricchitosi progressivamente, di riscrittura in riscrittura, fino alla grande stagione delle enciclopedie latine, esso fu profondamente indebolito dalla delusione degli esploratori che non trovarono le me- raviglie a lungo sognate.

Fu allora che, nel tramonto dell’Età di Mezzo, la fortuna delle specie esotiche subì un rallentamento a favore dell’altra tradizione, quella dei mostri come prodigi individuali: il deforme umano entrò prepotentemente entro i confini della civitas, ponendo, come vedremo ora, nuovi problemi ideologici e concettuali, sui quali si confrontarono filosofi e medici.

1.3. The Exception or the Rule: mostri come dilemma epistemologico

Nel 1317, il cronista fiorentino Giovanni Villani così riportava notizia della nascita di un bambino mostruoso nei dintorni della sua città:

E nel detto anno del mese di gennaio […], nacque a Terraio in Valdarno uno fanciul- lo con due corpi così fatto, e fu recato in Firenze, e vivette più di venti dì; poi morì allo spedale di Santa Maria della Scala, l’uno prima che l’altro: e volendo essere re- cato vivo a’ priori, ch’allora erano, per maraviglia, non vollono ch’entrasse in pala- gio, recandolsi a pièta e sospetto di sì fatto mostro, il quale, secondo l’openione de- gli antichi, ove nasce era segno di futuro danno37.

In pieno contrasto con la brulicante meraviglia dei racconti di genie mostruose che si potevano leggere nelle coeve enciclopedie, o nei diari dei viaggatori nelle lontanan-

35Gugliemo di Rubruk, Viaggio in Mongolia (Itinerarium), a cura di Paolo Chiesa, Milano, Fondazione

Lorenzo Valla/Arnoldo Mondadori, 2011, p. 199.

36Giovanni da Montecorvino, Epistolae, in Sinica franciscana. Relationes et epistolas fratrum minorum

saeculi XIII. et XIV. collegit, ad fidem codicum redegit et adnotavit p. Anastasius Van Den Wyngaert,

Quaracchi (Firenze), Barbera, Alfani e Venturi, 1929, pp. 340-355 [Ep. I, 8, p. 342].

37Giovanni Villani, Nuova cronica, a cura di Giovanni Porta, 3 voll., Parma, Fondazione Pietro Bem-

rio di una conoscenza immutabile (di sapore greco) e l’incostante mutevolezza della natura. I filosofi ambivano alla scientia – in greco, epistème – che Aristotele aveva chiaramente definito come scienza certa, a differenza di altre forme d’indagine che potevano aspirare soltanto a opinioni probabili: «dell’accidente non c’è scienza. Ogni scienza, infatti, riguarda ciò che è sempre o per lo più»42. Seguendo il dettame del Filosofo, per l’aristotelismo duecentesco la scienza costituiva un corpo privile- giato di verità universali e necessarie che dovevano essere conosciute con certezza assoluta. In questo campo, nessuno spazio poteva essere quindi lasciato all’elemento insolito e meraviglioso, costituito da spicciole nature particolari e contingenti.

Esemplificativo di questa visione aristocratica della scienza fu Alberto Magno, che escluse a priori qualsiasi ragionamento sulle eccezioni di natura, poiché «è im- possibile costruire un sillogismo intorno alle nature particolari»43. Solo il sillogismo era lo strumento principe della filosofia, e se le nature particolari, sempre mutevoli, non potevano costituire oggetto nobile del pensiero, esse erano nient’altro che diletto per gli studenti, non certo materia per i filosofi, scienziati dell’assolutamente certo e dimostrabile. Tale esclusione, che valeva per le nature particolari, dotate di una certa costanza e ripetitività, valeva, a maggior ragione, per i fenomeni rari o unici, ad esempio «quando qualcosa, in natura accade di là dall’intenzione della natura stessa, come un sesto dito, o due teste su un unico corpo, o la mancanza di un dito»44.

Menzionando esplicitamente le nascite mostruose umane, Alberto Magno le col- locava al di fuori del corso ordinario della natura, senza con ciò voler affermare che esse fossero governate da cause diverse da quelle che presiedono al resto dell’universo: quelle cause, violando le aspettative abituali, si erano combinate in modi non specificabili e imprevedibili, per produrre qualcosa che era del tutto con- tingente, quindi, ancora una volta, lontano dalla sfera dell’universale e del necessa- rio. Lontano dall’ambito di studio della filosofia.

Ma, seppure cacciata dalle nobili stanze della filosofia scolastica, la meraviglia rimaneva insondata, con tutta la sua domanda di senso. Sebbene il centro unificante della scienza doveva essere la regola, quale statuto si doveva riconoscere all’eccezione? E anche questo era un tema in cui non mancavano le sottigliezze spe- culative: i filosofi della scolastica dovevano, infatti, precisare il rapporto tra le ecce- zioni che si manifestavano naturalmente e quelle riconducibili al miracolo, cioè al diretto intervento divino. Spettò a Tommaso d’Aquino, allievo di Alberto Magno, il compito di articolare con chiarezza questa distinzione. Così egli si esprime nel libro terzo della sua Summa contra gentiles (scritta tra il 1258 e il 1264):

L’ordine che Dio impone alle cose corrisponde a quello che accade più di frequente, non già a quello che accade dovunque e sempre: poiché molte cause naturali produ- cono i loro effetti nello stesso modo il più delle volte, ma non sempre. Talora, infat- ti, sebbene in pochi casi, capita diversamente, o per un difetto della virtù attiva, o

42 Aristotele, La metafisica, a cura di Giovanni Reale, Milano, Rusconi, 1997, p. 277 [Metaphysica,

VI.2, 1027a, 20-21].

43Alberto Magno, De vegetabilibus libri VII, in Id., Opera omnia, 38 voll., édit par Auguste Borgnet,

Paris, Ludovicus Vives, 1890-1899, X, pp. 159-160 [VI, 1, 1].

44Alberto Magno, Fisica, in Id., Opera omnia, cit., III, pp. 151-152 [II, 1, 17].

Un sentimento di meraviglia che, a ben guardare, non è in contraddizione con il timore dell’ira divina testimoniato dalla Cronica di Giovanni Villani dalla quale siamo partiti: nel contatto col mostruoso, tanto la meraviglia dei viaggiatori di fronte alla fantasia di Dio, quanto l’orrore o il timore per la sua vendetta testimoniato dagli autori di cronache altro non sono che due sfumature di uno stesso complesso emoti- vo che tutto unifica, teologicamente, sotto il segno dell’onnipotenza celeste.

Alla fine del Medioevo, il mostro sembrerebbe dunque suscitare sempre una reazione di meraviglia moralmente positiva, volta a generare ammirazione e rispetto per l’opera di Dio. In realtà il quadro fu molto più sfaccettato: la riflessione della fi- losofia naturale di quel tempo presentava la meraviglia in maniera molto più ambi- valente. Il mostro, infatti, specialmente se entro le mura della città, poneva problemi interpretativi del tutto nuovi: filosofi e medici risposero a tale inquietudine in manie- ra contrastante.

Nelle Quaestiones naturales (1107-1133) di Adelardo di Bath, ad esempio, il sentimento della meraviglia non era posto in luce positiva come segno di ammira- zione per l’opera divina, ma inquadrato come qualcosa di molto prossimo all’orrore, la cui unica origine era identificata nell’arretratezza intellettuale39. Per il filosofo in- glese la meraviglia non era associata alla pietà o alla reverenza, ma alla superstizio- ne e alla confusione: il sapiente aveva il dovere di contemplare e indagare l’ordine naturale come una catena complessa e in parte autonoma di cause seconde, che di- pendono solo lontanamente dalla causa prima, e cioè Dio. Lungi dall’apparire in lu- ce moralmente positiva, come segno di ammirazione per l’opera del creatore, la me- raviglia risultava dunque in Adelardo sempre accostata a significati fortemente con- notati in senso negativo: confusione, oscurità, ignoranza. Stigmatizzata come senti- mento banale e scontato, del tutto inappropriato alle sottigliezze del pensiero, alla meraviglia era chiusa ogni possibilità di cittadinanza nel territorio della filosofia: «Non mi meraviglio della tua meraviglia, poiché il cieco parla così della luce»40.

Risoluto nel negare la meraviglia come esito di ignoranza, Adelardo aderiva così ad un preciso programma intellettuale, condiviso da molti pensatori cristiani del XII- XIII secolo: da un lato il recupero della filosofia greca – tramite la mediazione araba – dopo un’eclisse plurisecolare; dall’altro la fiera contrapposizione alla filosofia tar- dolatina, incarnata nella teologia agostiniana, accusata di preferire alla regolare mae- stosità della natura l’attenzione per l’elemento insolito41.

In tale generale rigetto del meraviglioso, sminuito quasi a superstizione popola- re, rientrarono ovviamente tutti i fenomeni inconsueti, ridotti a puri accidenti figli del caso, indegni di qualunque attenzione intellettuale. Un vero e proprio snobismo nei confronti del fenomeno occasionale, originato dalla principale antinomia che i filosofi naturali del XII e XIII secolo si trovarono ad affrontare: quella tra il deside-

39Adelard of Bath, Conversations with his Nephew. On the Same and the Different, Questions on Natu-

ral Science, and on Birds, edited and translated by Charles Burnett, with the collaboration of Italo Ron- ca, Pedro Mantas España and Baudouin van den Abeele, Cambridge, Cambridge University Press, 1998.

40 Ivi, p. 43.

41 Nel corso del XIII e XIV secolo, prevalse tra i filosofi naturali l’atteggiamento ostile alla meraviglia

inaugurato da Adelardo. Per una discussione approfondita di questo aspetto, si vedano ancora Lorraine Daston, Katharine Park, Wonders and the Order of Nature, cit., pp. 110-120.

rio di una conoscenza immutabile (di sapore greco) e l’incostante mutevolezza della natura. I filosofi ambivano alla scientia – in greco, epistème – che Aristotele aveva chiaramente definito come scienza certa, a differenza di altre forme d’indagine che potevano aspirare soltanto a opinioni probabili: «dell’accidente non c’è scienza. Ogni scienza, infatti, riguarda ciò che è sempre o per lo più»42. Seguendo il dettame del Filosofo, per l’aristotelismo duecentesco la scienza costituiva un corpo privile- giato di verità universali e necessarie che dovevano essere conosciute con certezza assoluta. In questo campo, nessuno spazio poteva essere quindi lasciato all’elemento insolito e meraviglioso, costituito da spicciole nature particolari e contingenti.

Esemplificativo di questa visione aristocratica della scienza fu Alberto Magno, che escluse a priori qualsiasi ragionamento sulle eccezioni di natura, poiché «è im- possibile costruire un sillogismo intorno alle nature particolari»43. Solo il sillogismo era lo strumento principe della filosofia, e se le nature particolari, sempre mutevoli, non potevano costituire oggetto nobile del pensiero, esse erano nient’altro che diletto per gli studenti, non certo materia per i filosofi, scienziati dell’assolutamente certo e dimostrabile. Tale esclusione, che valeva per le nature particolari, dotate di una certa costanza e ripetitività, valeva, a maggior ragione, per i fenomeni rari o unici, ad esempio «quando qualcosa, in natura accade di là dall’intenzione della natura stessa, come un sesto dito, o due teste su un unico corpo, o la mancanza di un dito»44.

Menzionando esplicitamente le nascite mostruose umane, Alberto Magno le col- locava al di fuori del corso ordinario della natura, senza con ciò voler affermare che esse fossero governate da cause diverse da quelle che presiedono al resto dell’universo: quelle cause, violando le aspettative abituali, si erano combinate in modi non specificabili e imprevedibili, per produrre qualcosa che era del tutto con- tingente, quindi, ancora una volta, lontano dalla sfera dell’universale e del necessa- rio. Lontano dall’ambito di studio della filosofia.

Ma, seppure cacciata dalle nobili stanze della filosofia scolastica, la meraviglia rimaneva insondata, con tutta la sua domanda di senso. Sebbene il centro unificante della scienza doveva essere la regola, quale statuto si doveva riconoscere all’eccezione? E anche questo era un tema in cui non mancavano le sottigliezze spe- culative: i filosofi della scolastica dovevano, infatti, precisare il rapporto tra le ecce- zioni che si manifestavano naturalmente e quelle riconducibili al miracolo, cioè al diretto intervento divino. Spettò a Tommaso d’Aquino, allievo di Alberto Magno, il compito di articolare con chiarezza questa distinzione. Così egli si esprime nel libro terzo della sua Summa contra gentiles (scritta tra il 1258 e il 1264):

L’ordine che Dio impone alle cose corrisponde a quello che accade più di frequente, non già a quello che accade dovunque e sempre: poiché molte cause naturali produ- cono i loro effetti nello stesso modo il più delle volte, ma non sempre. Talora, infat- ti, sebbene in pochi casi, capita diversamente, o per un difetto della virtù attiva, o

42 Aristotele, La metafisica, a cura di Giovanni Reale, Milano, Rusconi, 1997, p. 277 [Metaphysica,

VI.2, 1027a, 20-21].

43 Alberto Magno, De vegetabilibus libri VII, in Id., Opera omnia, 38 voll., édit par Auguste Borgnet,

Paris, Ludovicus Vives, 1890-1899, X, pp. 159-160 [VI, 1, 1].

44 Alberto Magno, Fisica, in Id., Opera omnia, cit., III, pp. 151-152 [II, 1, 17].

Un sentimento di meraviglia che, a ben guardare, non è in contraddizione con il timore dell’ira divina testimoniato dalla Cronica di Giovanni Villani dalla quale siamo partiti: nel contatto col mostruoso, tanto la meraviglia dei viaggiatori di fronte alla fantasia di Dio, quanto l’orrore o il timore per la sua vendetta testimoniato dagli autori di cronache altro non sono che due sfumature di uno stesso complesso emoti- vo che tutto unifica, teologicamente, sotto il segno dell’onnipotenza celeste.

Alla fine del Medioevo, il mostro sembrerebbe dunque suscitare sempre una reazione di meraviglia moralmente positiva, volta a generare ammirazione e rispetto per l’opera di Dio. In realtà il quadro fu molto più sfaccettato: la riflessione della fi- losofia naturale di quel tempo presentava la meraviglia in maniera molto più ambi- valente. Il mostro, infatti, specialmente se entro le mura della città, poneva problemi interpretativi del tutto nuovi: filosofi e medici risposero a tale inquietudine in manie- ra contrastante.

Nelle Quaestiones naturales (1107-1133) di Adelardo di Bath, ad esempio, il sentimento della meraviglia non era posto in luce positiva come segno di ammira- zione per l’opera divina, ma inquadrato come qualcosa di molto prossimo all’orrore, la cui unica origine era identificata nell’arretratezza intellettuale39. Per il filosofo in- glese la meraviglia non era associata alla pietà o alla reverenza, ma alla superstizio- ne e alla confusione: il sapiente aveva il dovere di contemplare e indagare l’ordine naturale come una catena complessa e in parte autonoma di cause seconde, che di- pendono solo lontanamente dalla causa prima, e cioè Dio. Lungi dall’apparire in lu- ce moralmente positiva, come segno di ammirazione per l’opera del creatore, la me- raviglia risultava dunque in Adelardo sempre accostata a significati fortemente con- notati in senso negativo: confusione, oscurità, ignoranza. Stigmatizzata come senti- mento banale e scontato, del tutto inappropriato alle sottigliezze del pensiero, alla meraviglia era chiusa ogni possibilità di cittadinanza nel territorio della filosofia: «Non mi meraviglio della tua meraviglia, poiché il cieco parla così della luce»40.

Risoluto nel negare la meraviglia come esito di ignoranza, Adelardo aderiva così ad un preciso programma intellettuale, condiviso da molti pensatori cristiani del XII- XIII secolo: da un lato il recupero della filosofia greca – tramite la mediazione araba – dopo un’eclisse plurisecolare; dall’altro la fiera contrapposizione alla filosofia tar- dolatina, incarnata nella teologia agostiniana, accusata di preferire alla regolare mae- stosità della natura l’attenzione per l’elemento insolito41.