Rinascimento mostruoso Campi d’indagine per la prima età moderna
1.1. Forewarnings of Sorrowfull Troubles to come: mostri che mostrano
Il primo autore che fornì un punto di vista argomentato sul significato del mostro fu Aristotele (384-322 a.C), il quale, nella Riproduzione degli animali (343 a.C.), definiva la deformità non come evento soprannaturale, ma come rarità all’interno della consuetudine naturale: «il mostro [téras] è infatti qualcosa che non è somigliante ai suoi genitori poiché la natura i questi casi si è in qualche modo allon- tanata dalla corretta generazione». Aristotele chiariva poco oltre il significato di tale allontamento, precisando ulteriormente che «il mostro [téras] è un qualcosa contro natura, ma non contro la natura in assoluto bensì contro la natura come è per lo più»5. Questa breve riflessione non era altro che un cenno all’interno di un più am- pio ragionamento sulla dissimiglianza tra figlio e genitore. Per il filosofo greco, l’ideale della generazione equivaleva al riprodursi in modo identico, cioè al generare un figlio maschio in tutto e per tutto uguale al padre, mentre ogni differenza dal modello genitoriale poteva essere considerata mostruosa. Persino la nascita di un es- sere di genere femminile costituiva, dunque, una prima tappa di degenerazione. Per spiegare questa posizione sarà opportuno ricordare che Aristotele vedeva in atto nel- la natura una forza generativa maschile e una materia passiva e femminile: «se il principio maschile prevale sulla Materia, la conduce verso se stesso [e produce un embrione di sesso maschile]; se invece è vinto, o si trasforma nel suo contrario [cioè in un embrione di sesso femminile] o viene distrutto»6. La generazione di una figlia rappresentava pertanto già una ‘mostruosità’, sebbene relativa e indispensabile alla prosecuzione della specie. Nell’universo aristotelico, la mostruosità definita per dif- ferenza, poteva avere diverse gradazioni e comprendere anomalie di vario genere, alcune perfino necessarie. E le cause di queste deviazioni erano descritte sempre in maniera scientifica (o parascientifica), senza alcun ricorso a forze soprannaturali: «i mostri si manifestano quando il seme è rappreso in se stesso oppure rimescolato alla sua fuoriuscita dal maschio o nel successivo fondersi entro il ventre della femmi- Dudley Wilson, Signs and Portents. Monstrous Births from the Middle Ages to the Enlightenment, Lon- don, Routledge, 1993, soprattutto il capitolo 1, Definitions, pp. 3-29. Il problema relativo alla necessità di chiarire con più accuratezza il concetto di ‘mostro’ è affrontato anche da Asa S. Mittman, Introduc-
tion: The Impact of Monsters and Monster Studies, in Asa S. Mittman, Peter J. Dendle (eds), The Ashga- te Research Companion to Monsters and the Monstrous, foreword by John B. Friedman, Farnham-
Burlington, Ashgate, 2012, pp. 1-14.
5Aristotele, De Generatione Animalium, recognovit H. J. Drossaart Lulofs, Oxford, Oxford University
Press, 1965, pp. 144 [IV, 767b, 5-6] e 153 [IV, 770b, 10].
6Ivi, p. 142 [IV, 766b, 15]. Questo atteggiamento eziologico sopravvivrà nei secoli e sarà ripreso, ad
esempio, da Benedetto Varchi: «Quasi mostri si chiamano le femmine e tutti quei figliuoli che non so- migliano i padri loro; perciocché sebbene la donna è della medesima specie dell’uomo, come dice Ari- stotele, è nondimeno dissimile al generante, desiderando ciascuno di generare cosa somigliante a sé, e conseguentemente sempre maschio e non mai femmina» (Della generazione de’ mostri, in Benedetto Varchi, Opere, 4 voll., Milano, Nicolò Bettoni, 1834, I, p. 150).
una comunità, che affidava la propria saldezza e stabilità alla consuetudine (mostri come prodigi individuali).
E la distinzione principale tra «extraordinary individuals», geograficamente vi- cini, e «marvelous species» orientali non stava tanto nella loro forma quanto nel loro significato. Formalmente, ad esempio, vi erano poche distinzioni tra un individuo ermafrodita nato in Occidente e gli Androgini, un’intera razza di esseri di sesso dop- pio, abitualmente collocata nelle lontananze asiatiche. Ciò che faceva la differenza era la diversa lettura all’interno dell’immaginario; le genie meravigliose spazialmen- te lontane potevano funzionare come allegoria ed essere lette come forma di una più alta verità teologica o morale, mentre gli individui mostruosi nati nel proprio conte- sto non erano trattati come simboli ma come segni: «temporary deviations from the natural order, they were deliberate messages, fashioned by God to communicate his pleasure or (much more frequently) his displeasure with particular actions or situa- tions»3.
Queste due tradizioni sul mostruoso, contrapposte e insieme saldate nel breve brano di Cornelius Gemma da cui siamo partiti, convissero lungamente, parallela- mente e con fortune diverse nella cultura dell’Occidente. La tradizione del mostro come prodigio individuale – interpretato come segno, come messaggio divino di be- nevolenza o, più spesso, di disappunto – si originò nell’ambito della cultura divina- toria latina, attraversò sottilmente il Medioevo cristiano e tornò a conoscere una for- te diffusione nel clima cupo della Riforma: per questo motivo sarà ampiamente di- scussa nel corso di questo studio. La tradizione delle razze mostruose orientali, inve- ce, poté godere di un’incondizionata attenzione per un arco temporale vastissimo: a partire dallo storico greco Erodoto (V secolo a.C.), proseguì fino alla gloriosa sta- gione dei viaggiatori bassomedievali, resistendo per qualche tempo all’età delle grandi esplorazioni oltreoceano e alla conseguente divulgazione e affermazione di più realistiche conoscenze sulle terre dislocate a est della Terrasanta e di Costanti- nopoli, per poi trasformarsi in un puro relitto intellettuale.
L’approfondimento di aspetti così importanti e persistenti della storia culturale dell’Occidente non è oggetto diretto di questo lavoro; sarà tuttavia importante alme- no accennarvi, per distinguere con accuratezza le due tradizioni sul mostruoso e in- tendere con profondità diacronica il senso di quei mostri che nel corso del XVI e XVII secolo affollarono i racconti della ‘letteratura di strada’ europea e in particola- re inglese.
Ho selezionato alcune voci particolarmente rappresentative delle varie epoche, che dovranno essere intese non tanto come puntelli di rigide scansioni cronologiche, ma come prime manifestazioni di atteggiamenti culturali persistenti, che si sussegui- rono, si sorpassarono, ritornarono, talvolta si intrecciarono e non mancarono di coe- sistere4.
3 Ivi, p. 52.
4 Il rapido excursus che segue è in parte debitore dello studio di Claude Kappler, Demoni, mostri e me-
raviglie alla fine del medioevo, a cura di Franco Cardini, traduzione italiana di Maria C. Cardini, Firen-
ze, Sansoni, 1983 (Monstres, démons et merveilles à la fin du Moyen Âge, Paris, Payot, 1980), special- mente il capitolo 6, Il concetto di mostro, pp. 181-220. Per un approfondimento dell’argomento, si se- gnalano anche John B. Friedman, The Monstrous Races in Medieval Art and Thought, Cambridge- London, Harvard University Press, 1981, in particolare il capitolo 6, Signs of God’s Will, pp. 108-130 e
Non una storia completa del concetto di ‘mostruoso’, dunque, quanto piuttosto una serie di esempi che hanno il compito di tracciare i momenti salienti di un’evoluzione.
1.1. Forewarnings of Sorrowfull Troubles to come: mostri che mostrano
Il primo autore che fornì un punto di vista argomentato sul significato del mostro fu Aristotele (384-322 a.C), il quale, nella Riproduzione degli animali (343 a.C.), definiva la deformità non come evento soprannaturale, ma come rarità all’interno della consuetudine naturale: «il mostro [téras] è infatti qualcosa che non è somigliante ai suoi genitori poiché la natura i questi casi si è in qualche modo allon- tanata dalla corretta generazione». Aristotele chiariva poco oltre il significato di tale allontamento, precisando ulteriormente che «il mostro [téras] è un qualcosa contro natura, ma non contro la natura in assoluto bensì contro la natura come è per lo più»5. Questa breve riflessione non era altro che un cenno all’interno di un più am- pio ragionamento sulla dissimiglianza tra figlio e genitore. Per il filosofo greco, l’ideale della generazione equivaleva al riprodursi in modo identico, cioè al generare un figlio maschio in tutto e per tutto uguale al padre, mentre ogni differenza dal modello genitoriale poteva essere considerata mostruosa. Persino la nascita di un es- sere di genere femminile costituiva, dunque, una prima tappa di degenerazione. Per spiegare questa posizione sarà opportuno ricordare che Aristotele vedeva in atto nel- la natura una forza generativa maschile e una materia passiva e femminile: «se il principio maschile prevale sulla Materia, la conduce verso se stesso [e produce un embrione di sesso maschile]; se invece è vinto, o si trasforma nel suo contrario [cioè in un embrione di sesso femminile] o viene distrutto»6. La generazione di una figlia rappresentava pertanto già una ‘mostruosità’, sebbene relativa e indispensabile alla prosecuzione della specie. Nell’universo aristotelico, la mostruosità definita per dif- ferenza, poteva avere diverse gradazioni e comprendere anomalie di vario genere, alcune perfino necessarie. E le cause di queste deviazioni erano descritte sempre in maniera scientifica (o parascientifica), senza alcun ricorso a forze soprannaturali: «i mostri si manifestano quando il seme è rappreso in se stesso oppure rimescolato alla sua fuoriuscita dal maschio o nel successivo fondersi entro il ventre della femmi- Dudley Wilson, Signs and Portents. Monstrous Births from the Middle Ages to the Enlightenment, Lon- don, Routledge, 1993, soprattutto il capitolo 1, Definitions, pp. 3-29. Il problema relativo alla necessità di chiarire con più accuratezza il concetto di ‘mostro’ è affrontato anche da Asa S. Mittman, Introduc-
tion: The Impact of Monsters and Monster Studies, in Asa S. Mittman, Peter J. Dendle (eds), The Ashga- te Research Companion to Monsters and the Monstrous, foreword by John B. Friedman, Farnham-
Burlington, Ashgate, 2012, pp. 1-14.
5 Aristotele, De Generatione Animalium, recognovit H. J. Drossaart Lulofs, Oxford, Oxford University
Press, 1965, pp. 144 [IV, 767b, 5-6] e 153 [IV, 770b, 10].
6 Ivi, p. 142 [IV, 766b, 15]. Questo atteggiamento eziologico sopravvivrà nei secoli e sarà ripreso, ad
esempio, da Benedetto Varchi: «Quasi mostri si chiamano le femmine e tutti quei figliuoli che non so- migliano i padri loro; perciocché sebbene la donna è della medesima specie dell’uomo, come dice Ari- stotele, è nondimeno dissimile al generante, desiderando ciascuno di generare cosa somigliante a sé, e conseguentemente sempre maschio e non mai femmina» (Della generazione de’ mostri, in Benedetto Varchi, Opere, 4 voll., Milano, Nicolò Bettoni, 1834, I, p. 150).
una comunità, che affidava la propria saldezza e stabilità alla consuetudine (mostri come prodigi individuali).
E la distinzione principale tra «extraordinary individuals», geograficamente vi- cini, e «marvelous species» orientali non stava tanto nella loro forma quanto nel loro significato. Formalmente, ad esempio, vi erano poche distinzioni tra un individuo ermafrodita nato in Occidente e gli Androgini, un’intera razza di esseri di sesso dop- pio, abitualmente collocata nelle lontananze asiatiche. Ciò che faceva la differenza era la diversa lettura all’interno dell’immaginario; le genie meravigliose spazialmen- te lontane potevano funzionare come allegoria ed essere lette come forma di una più alta verità teologica o morale, mentre gli individui mostruosi nati nel proprio conte- sto non erano trattati come simboli ma come segni: «temporary deviations from the natural order, they were deliberate messages, fashioned by God to communicate his pleasure or (much more frequently) his displeasure with particular actions or situa- tions»3.
Queste due tradizioni sul mostruoso, contrapposte e insieme saldate nel breve brano di Cornelius Gemma da cui siamo partiti, convissero lungamente, parallela- mente e con fortune diverse nella cultura dell’Occidente. La tradizione del mostro come prodigio individuale – interpretato come segno, come messaggio divino di be- nevolenza o, più spesso, di disappunto – si originò nell’ambito della cultura divina- toria latina, attraversò sottilmente il Medioevo cristiano e tornò a conoscere una for- te diffusione nel clima cupo della Riforma: per questo motivo sarà ampiamente di- scussa nel corso di questo studio. La tradizione delle razze mostruose orientali, inve- ce, poté godere di un’incondizionata attenzione per un arco temporale vastissimo: a partire dallo storico greco Erodoto (V secolo a.C.), proseguì fino alla gloriosa sta- gione dei viaggiatori bassomedievali, resistendo per qualche tempo all’età delle grandi esplorazioni oltreoceano e alla conseguente divulgazione e affermazione di più realistiche conoscenze sulle terre dislocate a est della Terrasanta e di Costanti- nopoli, per poi trasformarsi in un puro relitto intellettuale.
L’approfondimento di aspetti così importanti e persistenti della storia culturale dell’Occidente non è oggetto diretto di questo lavoro; sarà tuttavia importante alme- no accennarvi, per distinguere con accuratezza le due tradizioni sul mostruoso e in- tendere con profondità diacronica il senso di quei mostri che nel corso del XVI e XVII secolo affollarono i racconti della ‘letteratura di strada’ europea e in particola- re inglese.
Ho selezionato alcune voci particolarmente rappresentative delle varie epoche, che dovranno essere intese non tanto come puntelli di rigide scansioni cronologiche, ma come prime manifestazioni di atteggiamenti culturali persistenti, che si sussegui- rono, si sorpassarono, ritornarono, talvolta si intrecciarono e non mancarono di coe- sistere4.
3 Ivi, p. 52.
4 Il rapido excursus che segue è in parte debitore dello studio di Claude Kappler, Demoni, mostri e me-
raviglie alla fine del medioevo, a cura di Franco Cardini, traduzione italiana di Maria C. Cardini, Firen-
ze, Sansoni, 1983 (Monstres, démons et merveilles à la fin du Moyen Âge, Paris, Payot, 1980), special- mente il capitolo 6, Il concetto di mostro, pp. 181-220. Per un approfondimento dell’argomento, si se- gnalano anche John B. Friedman, The Monstrous Races in Medieval Art and Thought, Cambridge- London, Harvard University Press, 1981, in particolare il capitolo 6, Signs of God’s Will, pp. 108-130 e
Si deve ai primi autori cristiani il merito di aver ricondotto il ‘mostro’ all’interno della compagine naturale, equilibrando in qualche modo i due filoni ereditati dall’età antica: quello eziologico di Aristotele che, leggendo nel mostro una occorrenza rara, manteneva intatta l’unità della natura, e quello divinatorio di Cicerone che invece intravedeva in esso un segno del cielo. Per Agostino (354-430) la deformità fisica cessava di essere una sbavatura del creato ed era ricondotta all’interno della sua complessiva bellezza e armonia:
questi fatti che in apparenza avvengono contro natura e comunemente si dice che avvengono contro natura […] e sono chiamati monstra, ostenta, portenta e prodigia, devono mostrare, indicare, anticipare e predire questo: che nessuna legge di natura proibisce e nessuna difficoltà impedisce a Dio di fare quanto ha preannunciato che farà12.
In questa riunificazione dello sguardo sul cosmo compiuto da Agostino, il mostro diventava segno della limitatezza della comprensione umana: il mostruoso è tale so- lo perché non ne comprendiamo il ruolo all’interno di quella grandiosa opera d’arte che è la creazione:
se un uomo ha la vista talmente corta che, su un suolo di mosaico, non abbraccia con lo sguardo null’altro che il disegno di una sola tessera, egli accuserà l’operaio d’ignorare l’ordine e la composizione […]. Non è diverso da ciò che accade agli uomini senza cultura: non potendo […] abbracciare e comprendere l’adattamento re- ciproco e il concerto degli esseri dell’universo, essi immaginano, quando qualcosa li turba, che regni un grande disordine nella natura13.
Nel mondo teologicamente riunificato del Medioevo cristiano, il mostro cessava di apparire accidente e si tramutava nel segno insolito di una verità superiore. Non era mai contro natura, giacché quest’ultima e Dio coincidevano, e perfino la prefigura- zione, il sogno e il miracolo rientravano nell’organicità dell’universo. Si saldò così un’ideologia del mostruoso che rimase pressoché inalterata per tutto il Medioevo, sospeso tra la consapevolezza del caos e la volontà di ricomporlo:
il Medioevo, infatti, è diviso tra l’esigenza di spiegare il ‘disordine’ che il mostro rappresenta e il bisogno di credere al postulato secondo il quale la natura, in quanto opera di Dio, non può essere se non perfetta e quindi disposta secondo un ordine che niente può turbare. Bisogna dunque credere ad Aristotele – secondo il quale il mo- stro si integra in un ordine naturale superiore a quello da noi percepito – e a Sant’Agostino, per cui il mostro fa parte del disegno divino e in quanto elemento di diversità contribuisce alla bellezza dell’universo14.
12Agostino, La città di Dio, 2 voll., a cura di Domenico Marafioti, Milano, Mondadori, 2011, II, p. 1309
[De civitate Dei, XXI, 8, 5].
13Agostino, L’ordine, in Id., Dialoghi I. La controversia accademica, La felicità, L’ordine, I soliloqui,
L’immortalità dell’anima, introduzione, traduzione e note a cura di Domenico Gentili, Roma, Città
Nuova, 1970, I, I, pp. 249-251.
14Claude Kappler, Demoni, mostri e meraviglie alla fine del medioevo, cit., p. 216.
na»7. Un analogo sforzo era messo in atto per spiegare l’occorrenza di deformità fisiche: gli arti in sovrannumero, ad esempio, erano attribuiti alla sovrabbondanza di seme8. In conclusione, per Aristotele, come sottolinea Claude Kappler,
la natura […] non lascia niente al caso, non fa niente senza uno scopo preciso, non commette mai errori neanche quando certi suoi prodotti non risultano rispondenti al- la norma […]: essa ha le sue abitudini, che consideriamo norma, ma le eccezioni alle quali – per comodità di linguaggio e commettendo quasi un abuso – diamo il nome di ‘mostri’, non possono nella maniera più assoluta rimettere in discussione l’ordine universale9.
Fu la cultura divinatoria latina a inaugurare una nuova chiave di lettura del mostruo- so, riscontrando in esso una spaccatura dell’equilibrio naturale attraverso la quale gettare lo sguardo sugli eventi futuri. I mostri furono oggetto d’indagine nel De divi- natione (44 a.C.), operetta dialogica che Cicerone (106-43 a.C.) dedicò specifica- mente al tema dell’aruspicina. Qui prese le mosse l’indagine etimologica della pa- rola ‘mostro’ e dei suoi affini:
Gli etruschi […] acquistarono una grandissima perizia nell’interpretare i prodigi. Il cui significato […] è dimostrato dalle parole stesse foggiate sapientemente dai nostri antenati: poiché fanno vedere (ostendunt), prognosticano (portendunt), mostrano (monstrant), predicono (praedicunt), vengono chiamati apparizioni miracolose (ostenta), portenti (portenta), mostri (monstra), prodigi (prodigia)10.
Come si evince da questo passo, il termine ‘mostro’ veniva connesso con il verbo monstrare, e così i suoi sinonimi, che legavano un evento meraviglioso del presente a un qualche sconvolgimento futuro, per lo più funesto. Questa lettura del concetto di mostro, che potremmo definire divinatoria, avrà fortuna tanto ampia da essere ri- presa nel corso di tutta la latinità sino al suo tramonto. Infatti, ancora secondo i les- sici di Marco C. Frontone (prima metà del II secolo d.C.), Sesto P. Festo (seconda metà del II secolo d.C.) e Nonio Marcello (IV secolo d.C.), pur nelle diverse sot- tigliezze semantiche, monstrum è sempre ciò che monstrat e monet11.
7 Aristotele, Problems (Books 1-19), edited and translated by Robert Mayhew, Cambridge-London, Har-
vard University Press, 2011, p. 215 [Problemata, X, 61, 898a, 14-16].
8 Come sottolineava Aristotele, ancora nella Riproduzione degli animali, «tutte le volte che in una parte
dell’embrione si concentra più materia di quella che sarebbe conforme alla sua natura […], accade che quell’embrione abbia una parte del corpo più grande delle altre, come un dito o una mano o un piede o un’altra estremità o membro» (De generatione animalium, cit., p. 159 [IV, 772b, 15-19]).
9 Claude Kappler, Demoni, mostri e meraviglie alla fine del medioevo, cit., p. 183.
10 Marco T. Cicerone, Della divinazione, testo latino a fronte, introduzione, traduzione e note di Seba-
stiano Timpanaro, Milano, Garzanti, 1988, p. 75 [De divinatione, I, 93].
11 Marco C. Frontone, De differentiis vocabulorum, in Heinrich Keil (Hrsg.), Grammatici Latini, 8 voll.,
Leipzig, Teubner, 1855-1880, VII, p. 520; Sesto P. Festo, De verborum significatu quae supersunt cum
Pauli epitome, edidit Wallace M. Lindsay, Leipzig, Teubner, 1913, p. 125; Nonio Marcello, De differen- tia similium significationum, in Id., De compendiosa doctrina libros XX, edidit Wallace M. Lindsay, 3
Si deve ai primi autori cristiani il merito di aver ricondotto il ‘mostro’ all’interno della compagine naturale, equilibrando in qualche modo i due filoni ereditati dall’età antica: quello eziologico di Aristotele che, leggendo nel mostro una occorrenza rara, manteneva intatta l’unità della natura, e quello divinatorio di Cicerone che invece intravedeva in esso un segno del cielo. Per Agostino (354-430) la deformità fisica cessava di essere una sbavatura del creato ed era ricondotta all’interno della sua complessiva bellezza e armonia:
questi fatti che in apparenza avvengono contro natura e comunemente si dice che avvengono contro natura […] e sono chiamati monstra, ostenta, portenta e prodigia, devono mostrare, indicare, anticipare e predire questo: che nessuna legge di natura proibisce e nessuna difficoltà impedisce a Dio di fare quanto ha preannunciato che farà12.
In questa riunificazione dello sguardo sul cosmo compiuto da Agostino, il mostro diventava segno della limitatezza della comprensione umana: il mostruoso è tale so- lo perché non ne comprendiamo il ruolo all’interno di quella grandiosa opera d’arte che è la creazione:
se un uomo ha la vista talmente corta che, su un suolo di mosaico, non abbraccia con lo sguardo null’altro che il disegno di una sola tessera, egli accuserà l’operaio d’ignorare l’ordine e la composizione […]. Non è diverso da ciò che accade agli uomini senza cultura: non potendo […] abbracciare e comprendere l’adattamento re- ciproco e il concerto degli esseri dell’universo, essi immaginano, quando qualcosa li turba, che regni un grande disordine nella natura13.