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I P ORTOGHESI E LA C ARREIRA DA I NDIA

L’ETA’ MODERNA

4.2 L’EPOPEA DELLE GRANDI SCOPERTE GEOGRAFICHE: PORTOGHESI, SPAGNOLI E ITALIAN

4.2.1 I P ORTOGHESI E LA C ARREIRA DA I NDIA

Il Portogallo può essere definito come il primo stato moderno, dato che, terminata la Reconquista nel 1249, esso definì i suoi confini attuali e riuscì a formare un regno unito e libero dalle guerre. Già a partire dal XIV secolo, lo stato lusitano, a cui era vietato l’accesso al Mediterraneo a causa del predominio che vi esercitavano veneziani, genovesi e catalani, iniziò ad interessarsi all’espansione e all’esplorazione del cosiddetto “Mare Tenebroso”, ossia l’Oceano Atlantico e i suoi Arcipelaghi. I motivi che spinsero il Portogallo, in particolare sotto il regno dell’Infante Dom Henrique, a dedicarsi ai viaggi marittimi e alla navigazione furono in primo luogo economici ed erano strettamente legati al tentativo di commerciare direttamente con le Indie, facendo a meno della mediazione di Venezia. L’espansione portoghese, a differenza di quella castigliana, aveva un carattere prevalentemente mercantile ed era caratterizzata dall’importazione di manufatti e di beni di ogni genere: pepe, ferro, armi, tessuti e manufatti in legno.

Le due direttrici lungo le quali si mosse lo stato portoghese erano la navigazione attraverso l’Atlantico e l’espansionismo sulla costa settentrionale dell’Africa: questi due percorsi furono portati avanti con due diverse linee motivazionali, la prima di carattere mercantile e la seconda più aristocratica. La navigazione atlantica e la scoperta della via delle Indie, però, non furono un prodotto esclusivamente portoghese, bensì un esito fortemente ricercato e voluto da una cultura globalmente europea.123

L’espansione marittima portoghese ebbe inizio nel 1415 con la conquista della piazzaforte di Ceuta, che costituì il primo degli insediamenti portoghesi nella regione magrebina. Le conquiste proseguirono poi con l’occupazione dell’isola di Madeira e dell’arcipelago delle Azzorre, fino alla scoperta delle isole di Capo Verde e dell’insenatura del golfo di Guinea. L’intento dei navigatori portoghesi, infatti, era quello di circumnavigare l’Africa in direzione dell’oriente, operazione che fu iniziata da Bartolomeo Dìaz con il doppiaggio del Capo di Buona Speranza (1487), estremità

123 Basti pensare alla tecnica e all’esperienza dei mercanti genovesi che si rivelarono essere necessarie

alla colonizzazione e alla navigazione lungo l’Atlantico. Cfr. G. Lanciani, Morfologie del Viaggio.

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meridionale del continente nero. Il traguardo finale fu raggiunto una decina di anni dopo dall’esperto navigatore Vasco da Gama che, partito con il suo equipaggio nel 1497, riuscì a doppiare il Capo di Buona Speranza e a circumnavigare l’Africa, fino ad approdare in Asia presso Calicut, dove si trattenne per tre mesi. La sua missione aveva un carattere prevalentemente esplorativo: verificare la percorribilità della rotta, raccogliere informazioni sul mercato delle spezie, stabilire contatti con le comunità cristiane locali e con le autorità indiane.

Il viaggio lungo la Via delle Indie durava, in media, sei mesi all’andata e sei al ritorno; in certi casi, però, ad esempio quando si doveva aspettare la fine dell’inverno in uno degli scali stabiliti, poteva prolungarsi fino ad un anno e mezzo. La partenza da Lisbona, solitamente, avveniva tra febbraio e marzo, in modo tale da poter oltrepassare l’equatore prima di giugno con l’aiuto del monsone-grande (che soffiava da sud-ovest). Le imbarcazioni adibite alla “Carreira da India”, il lungo e periglioso tragitto di andata e ritorno attraverso l’Oceano Indiano, erano solitamente la nave, la caravella e il galeone, menzionato solo a partire dal 1519.

La rigorosa gerarchia dell’equipaggio aveva alla sua sommità il capitano, che possedeva una larga autonomia decisionale ed era soggetto soltanto al comandante che si trovava a capo della flotta. Entrambi, generalmente, appartenevano all’aristocrazia ed erano privi di qualsiasi esperienza nautica: essi ricevevano la loro carica in seguito a servizi prestati al re o ad imprese che non avevano nulla a che vedere con il mare. I responsabili effettivi della navigazione, infatti, erano il primo e il secondo pilota, il nostromo, il quartiermastro, il mastro d’ascia, i due gabbieri, circa sessanta marinai e settanta mozzi. Inoltre, sull’imbarcazione erano presenti un cappellano, uno scrivano, un ufficiale di giustizia, chirurghi, carpentieri, ecc. per un totale di centocinquanta uomini circa.124 La maggior parte delle volte era presente anche un gran numero di soldati che, di solito, arrivava a superare il totale dell’equipaggio, mentre la quantità dei passeggeri presenti poteva variare tra le cinquecento e le mille persone.

La rotta delle Indie non fu per niente facile e si rivelò, spesso, piena di pericoli e di insidie. Già la seconda spedizione, capitanata da Pedro Alvares Cabràl, subì gravissime perdite: sette delle tredici navi naufragarono durante una tempesta. Anche la quarta, guidata da Vasco da Gama, perse cinque navi dalle ventuno che erano salpate da Lisbona. Il sovrano Emanuele, proprio per questo motivo, decise di incoraggiare gli

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studi nautici ed astronomici al fine di individuare quali fossero le stagioni più propizie ai viaggi e ridurre, in tale maniera, la perdita di uomini ed imbarcazioni.

L’HISTORÌA TRÀGICO-MARITIMA DI BERNARDO GOMES DE BRITO

Nel XVIII secolo, tra il 1735 e il 1736, il portoghese Bernardo Gomes de Brito raccolse sotto il titolo di Historìa Tràgico-Maritima venti resoconti di naufragi che erano stati composti da differenti autori portoghesi nei secoli precedenti, tra la seconda metà del XVI e la fine del XVII secolo. In particolare, i testi includono mezzo secolo di storia, dal Sao Joao che naufragò nel 1552, alla perdita del Santiago verificatasi nel 1602. La raccolta di de Brito può essere considerata come il corpus più completo dei naufragi portoghesi di quel tempo e ha il merito di aver portato alla luce dei testi che costituiscono la prima espressione di una letteratura tipicamente marinara.125

Gli autori di questi resoconti non avevano nessun tipo di formazione letteraria, ma erano uomini che avevano partecipato personalmente al viaggio narrato o che ne avevano raccolto la testimonianza diretta di uno dei partecipanti. Essi, però, non si limitavano ad una semplice enunciazione di fatti ma erano coinvolti direttamente nella narrazione, arricchendo i loro resoconti con riflessioni, giudizi e considerazioni personali. Lo stile utilizzato, dunque, è molto breve e coinciso e si attiene alla verità dei fatti accaduti: gli stessi narratori affermano di voler raccontare ciò che era accaduto loro al fine di condividere con i lettori la gioia provata in seguito alla distanza dagli eventi passati e alla fine delle loro disgrazie. In questo periodo, infatti, non è più in vigore il principio lucreziano dello spettatore che prova felicità e gioia per il fatto di essere lontano dal naufragio: non ci si può più tenere fuori dai pericoli e a salvarsi è colui che soffre e spera insieme agli altri ed è disposto a correre il rischio di affrontare una tempesta.126

I resoconti di naufragi sono stati considerati e classificati in diverse maniere: come un’espressione minore del genere cronachistico, come un capitolo inedito della letteratura di viaggi, come letteratura di consumo o infine come dei vari reportages.127 Una delle motivazioni più importanti che ha determinato la narrazione dell’episodio del naufragio in questi resoconti era quella didascalica: si trattava di rendere il racconto

125 Ivi, pp. 59-61.

126 R. D’Intino, Introduzione a Storia tragico-marittima, Einaudi, Torino, 1992, p. 33. 127

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assimilabile ad un vasto repertorio di insegnamenti che venivano tratti dalle esperienze dei testimoni oculari e che servivano ad aiutare colui che si imbatteva in una tempesta ad affrontarne i rischi. In questo modo, i lettori venivano coinvolti emotivamente in queste storie e partecipavano in maniera corale all’avventura d’oltremare e alle catastrofi del Portogallo, immedesimandosi nelle sventure di quei marinai costretti ad affrontare tempeste e nubifragi.

Pur trattandosi di eventi realmente accaduti, la loro narrazione segue dei modelli narrativi ben precisi presenti nella prosa portoghese medievale e rinascimentale: in linea di massima, tutti i resoconti sono strutturati secondo la classica disposizione di exordium, propositio, narratio e conclusio. Inoltre, paragonando i resoconti dei naufragi portoghesi alla maggior parte dei testi della letteratura di viaggio, come ad esempio l’Odissea di Omero e il XXVI canto dell’Inferno dantesco, possiamo notare numerose caratteristiche comuni: l’avventura, l’attrazione esercitata dall’ignoto e dal paese sconosciuto, la hybris umana che vuole infrangere i suoi limiti e spingersi oltre le frontiere, il naufragio come manifestazione della vendetta divina. Anche la letteratura medio-latina, però, ha influenzato questa tipologia di narrazioni: in particolare, le analogie più ricorrenti sono l’immagine della montagna che occorre scalare per arrivare alla salvazione, il fiume impetuoso che ostacola il cammino, le strane fiere che insidiano i naufraghi, ecc.128

Il resoconto di naufragio, dunque, reinterpreta un modello letterario tradizionale: gli scrittori di questi testi possedevano un bagaglio di conoscenze che consentiva loro di adattare le immagini antiche alla nuova realtà che avevano sperimentato con l’esperienza. Secondo l’analisi condotta da Giulia Lanciani129

, possiamo individuare le unità contenutistiche che costituiscono il modello narrativo del resoconto di naufragio: l’Antefatto (esposizione sintetica degli eventi che hanno preceduto la partenza del viaggio funesto); la Partenza (focalizzata sulle circostanze in cui essa avviene, sulle condizioni della nave e del suo carico e sull’inizio della navigazione); la Tempesta (descritta con tutte le sue particolarità e con i danni che essa provoca); il Naufragio (resoconto dell’affondamento della nave); l’Approdo (l’arrivo a terra dei superstiti); la Peregrinazione (l’itinerario che i naufraghi compiono dalla costa fino all’insediamento più vicino); il Ritorno (il rimpatrio dei naufraghi).

128 Ivi, p. 68. 129

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Il naufragio, dunque, ha rappresentato un motivo costante all’interno della “Carreira da India”, causando continuamente gravi perdite di uomini e di mezzi. Nonostante ciò, gli ingenti profitti ricavati dai commerci con i territori delle Indie spingevano comunque mercanti e marinai a non temere alcun pericolo e a proseguire la navigazione. Durante le prime traversate oceaniche, infatti, le sciagure e i naufragi erano determinati dalla scarsa conoscenza dei venti, delle correnti e dei fondali. Nel paragrafo precedente, abbiamo notato come spesso l’equipaggio fosse composto da uomini incompetenti che non sapevano nulla né di mare né di navigazione: nei resoconti di naufragi, per questo motivo, sono presenti frequenti lamentele e battute di disprezzo nei confronti di questa classe di naviganti. Successivamente, però, fu proprio l’avidità e la bramosia di guadagno a spingere gli uomini a navigare senza seguire le elementari regole della marineria e ad incombere quindi in tragici naufragi, caricando oltremisura le loro imbarcazioni.

Il punto critico del viaggio lungo la rotta delle Indie era costituito dal doppiaggio del Capo di Buona Speranza, in particolar modo durante il viaggio di ritorno: qui le navi, essendo sovraccaricate oltre i limiti di sicurezza, non riuscivano a far fronte alla furia del mare in tempesta. Le testimonianze che ci sono giunte dai resoconti, infatti, parlano tutte di naufragi avvenuti sulle coste del Natal, nel Mozambico del Sud, dove i vascelli venivano sospinti dai venti del Capo di Buona Speranza: qui i naufraghi trovavano una terra poco ospitale che li costringeva a patire la fame, la sete, il calore diurno e il freddo della notte.130 La cosa che più affliggeva gli uomini dell’equipaggio durante la navigazione, però, era il patimento della fame: spesso il viaggio si prolungava più del previsto e i viveri conservati a bordo si avariavano a causa della loro mal preparazione o per il fatto di essere stati troppo esposti alle intemperie climatiche. Di conseguenza, la cattiva alimentazione determinava frequentemente il generarsi di numerose malattie, come lo scorbuto, polmoniti, pustole, infezioni, cefalee e in certi casi anche gravi epidemie.

Nei resoconti dell’ Historìa Tràgico-Maritima, però, sono le tempeste e i naufragi a determinare le catastrofi più gravi. Giulia Lanciani131 ha individuato come l’unità narrativa della tempesta abbia sempre la funzione di preparare l’imminente naufragio, ad eccezione del resoconto del viaggio della Nossa Senhora do Bom Despacho che, sebbene sia stata colpita da cinque burrasche e da un incendio e sia rimasta bloccata per

130 G. Lanciani, Morfologie del Viaggio, cit., p. 49. 131

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quasi due mesi davanti al Capo di Buona Speranza, riesce ugualmente ad arrivare a Lisbona. Nel resoconto che la riguarda, scritto da Frei Nuno de Conceiҫão, si legge:

“[…] gli ufficiali che la videro si spaventarono, giurando che mai un’altra nave era giunta in quel porto così mail ridotta; e ben si rendevano conto che se dall’Angola verso il Regno si fosse imbattuta in un fortunale, sicuramente sarebbe colata a picco. E sottoscrissero un atto in cui si elencavano minuziosamente le molte fasciature, paranchi e pulegge, ralinghe e sagole, rande e controrande, coste e paramezzali, che avevano trovato fracassati.”132

In quasi tutti i testi dell’Historia Tragico-Maritima la struttura dell’unità narrativa della tempesta presenta dei tratti omogenei: i venti che spazzano via le vele, le altissime onde del mare, i danni inflitti alle navi con il timone spazzato via dal vento e le falle che si aprono continuamente sia a prua che a poppa, il carico della sottocoperta che rotola da una parte all’altra dell’imbarcazione mietendo feriti. Nonostante ciò, comunque, è lasciato largo spazio anche all’autonomia creativa degli autori, i quali, oltre alle intemperie atmosferiche e ai danni fisici inferti alle loro imbarcazioni, raffigurano anche un’accurata caratterizzazione dei personaggi, descrivendo le loro paure, le reazioni, gli slanci altruistici e la tragica morte di alcuni uomini dell’equipaggio. Famoso in tal senso è il naufragio della nave São Bento, avvenuto nei pressi del Capo di Buona Speranza; a raccontarlo è Manuel de Mesquita Parestrelo, il quale riporta uno spietato resoconto di tutti i supplizi che la tempesta ha riservato ai miseri marinai:

“Il mare era tutto ingombro di casse, antenne, botti, pacchi e latri oggetti dei più disparati, tra i quali la maggior parte della gente nuotava cercando di raggiungere la terra. La carneficina che la furia del mare compiva e i diversi generi di morte che riservava a ciascuno, era cosa terribile da vedere quanto penosa da raccontare. Alcuni che non gliela facevano più a nuotare, si dibattevano disperatamente ingurgitando acqua; altri, cui le forze venivano meno del tutto, con le mani levate, invocando Dio col pensiero, si lasciavano andare a fondo per sempre; altri ancora, impediti nei loro movimenti e serrati tra le casse galleggianti, venivano uccisi dai colpi oppure, se soltanto tramortiti, finivano sfracellati dalle onde contro le rocce; altri, infine, avevano le carni straziate dalle antenne o da pezzi di legno sparpagliati dovunque, che li ferivano con i chiodi sporgenti, cosicché l’acqua era tutta macchiata di rosso come se fosse sangue, per il molto che ne scorreva dalle ferite di quelli che in tale orrendo modo finivano i loro giorni.”133

Il momento della tempesta e quello dell’effettivo naufragio sono strettamente legati l’uno all’altro da precisi elementi di passaggio: si tratta, ad esempio, degli errori compiuti durante la rotta, che portano lo scafo ad infrangersi contro le rocce, o della

132 Ivi, p. 96. 133

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conseguente decisione di abbandonare immediatamente l’imbarcazione, qualunque sia la distanza che la separi dalla terra.

La narrazione del naufragio del grande galeone São Joao presenta dei toni moderati e non troppo forti. Esso era partito da Cochin, nel febbraio del 1552, con un notevole ritardo e un carico troppo elevato e, proprio per questo motivo, non era stato in grado di superare le tempeste nei pressi di Natal e del Capo di Buona Speranza:

“Mentre si trovavano in queste difficoltà, venne di nuovo meno il vento da est-sud- est e scoppiò un temporale: sembrava che Dio avesse preparato già da allora la fine cui sarebbero stati destinati più tardi. Volendo nuovamente prendere il largo, tentarono di virare; ma la nave non volle seguire il timone e mise la prua al vento e il vento, che era violento, strappò il pappafico del pennone maggiore. […] Mentre navigavano in questa maniera il vento aumentò, la nave si mise al vento e ne seguì la direzione senza cura del timone o delle scotte. Anche questa volta il vento strappò la vela maestra e quella che le faceva da guida. Rimasti di nuovo senza vele, accorsero alla vela di prua; allora la nave si traversò e cominciò a sbandare: il timone, marcio, fu spezzato nel mezzo da un’ondata che ne portò via subito metà, mentre tutti i maschi restarono avvitati alle femmine. Da ciò si vede come si debba avere gran cura dei timoni e delle vele delle navi, causa di tanti disastri quanti sono quelli che si verificano in questo viaggio.”134

Anche la nave São Paulo, dopo una traversata lunga e faticosa e uno scalo in Brasile, avendo avvistato il Capo di Buona Speranza, si era spinta troppo a sud ed era naufragata in un’isola sconosciuta nei pressi di Sumatra:

“Le onde, già alte durante il giorno, di notte divennero addirittura furiose. Si sarebbe detto che i venti erano stati convocati per eseguire la nostra completa distruzione: infatti incominciarono a soffiare in una maniera assai differente da tutti i precedenti che avevamo subito durante questa navigazione. L’acqua incominciò a crescere accompagnata da una grande tempesta di lampi, bagliori, tuoni e piogge. Credevamo ormai giunto il momento della nostra fine, cui tutti gli elementi sembravano condurci e congiurare. […] Verso sera, il vento incominciò a indebolirsi alquanto, senza che per questo il mare mitigasse il proprio impeto e la propria furia. Non appena si calmò cominciarono a susseguirsi temporali, acquazzoni torrenziali e nebbie, finiti i quali sopravvenne una notte scurissima e paurosa. A ogni tuono ci sentivamo affondare spinti sott’acqua dall’impeto delle onde che ci inghiottivano e ci facevano a pezzi insieme al temporale. Tutte si dirigevano verso terra, ove ci spingevano e avvicinavano il più possibile. Mentre rollavano in tal modo, tutti si davano ormai per spacciati, e nessuno voleva più occuparsi di nulla, né curarsi di qualsiasi lavoro considerato ormai inutile e vano. Il padre diceva addio al figlio, il fratello all’altro fratello, il compagno al compagno, e ognuno chiedeva perdono all’altro e tutti diventavano di nuovo amici. […] Con il chiarore del giorno si rafforzò il vento, accompagnato da tuoni continui e piogge torrenziali e, poichè all’improvviso incominciò a soffiare raffiche assai violente, fummo costretti a gettare un’altra gomena, l’ultima a bordo, di lino e nuova di zecca, per sostenerci il meglio possibile. Ma, non appena la lanciammo, si spezzò perché il fondale era corallino e tagliente come un rasoio. Fu così che ci

134 B. Gomes de Brito, Storia Tragico-Marittima. A cura di R. D’Intino, Einaudi Editore, Torino, 1992,

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ritrovammo su un isolotto dove la nave decise di approdare fra le altre quindici o venti isole, isolotti e grandi scogliere disseminate in quel tratto di mare.”135

In certi casi, si può notare come i naufragi sembrino quasi essere premeditati da Dio per punire gli uomini a bordo a causa delle colpe commesse in precedenza. È il caso, ad esempio, della nave São Francisco, partita per l’India nel 1596 e avventuratasi in un viaggio incredibile durato tre anni, raggiungendo per due volte l’America e capitando in ben tre naufragi. Si legge nel resoconto scritto da Gaspar Afonso:

“E se qualcuno mi domanda se ho visto in queste stazioni e peregrinaggi numerose reliquie e corpi di santi, e se ho ottenuto per me tanti perdoni da ritornare in patria anch’io santo, vi dico che Indie e santi sono contrari, e persino contraddittori e tali li considerava il nostro beato padre Francesco, quando dall’India inviò in lettera al padre maestro Simone il seguente consiglio: “Fratello, maestro Simone, vi prego di non consentire che nessuno vostro parente venga in India con un incarico reale perché il verbo Rapio rapis qui si coniuga in tutti i modi”. E il beato padre volendo, avrebbe potuto a ragione essere più generico a riferirsi a più persone e a più verbi. Cosi trovai e vidi in tutti questi santuari solo peccatori, e come tale sono ritornato.”136

Questi esempi hanno indirettamente la funzione di mostrare quel profondo sentimento religioso che anima la letteratura del naufragio. In questi casi, infatti, lo