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ROBINSON CRUSOE: EROE DELLA MODERNITA’

L’ETA’ MODERNA

4.5 ROBINSON CRUSOE: EROE DELLA MODERNITA’

Robinson Crusoe è l’eroe protagonista del romanzo The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe, pubblicato da Daniel Defoe nel 1719. Lo scrittore britannico, vissuto tra il 1660 e il 1731, viene considerato come il padre del romanzo moderno e nella sua opera descrive le avventure di un ragazzo inglese che decide di dedicarsi ai commerci ed intraprendere la via del mare. Il romanzo di Defoe, dunque, è interamente incentrato sul motivo del viaggio e la figura di Robinson Crusoe rappresenta l’incarnazione della tipologia dell’uomo avventuriero dell’età moderna.

Le avventure di Crusoe iniziano con un primo viaggio che si conclude subito dopo con un naufragio, ma egli non si scoraggia e si imbarca in una seconda navigazione, durante la quale viene catturato da alcuni pirati e preso come schiavo a Salé, in Africa. Dopo queste iniziali disavventure, Robinson riesce a riprendersi e a fuggire dai pirati grazie all’aiuto del giovinetto Xury. I due vengono poi soccorsi da una nave portoghese e dal suo capitano che, in un secondo momento, decide di comprare la barca su cui viaggiavano Robinson e Xury e di acquistare quest’ultimo come schiavo. Giunto in Brasile, Crusoe riesce a fondare una piantagione di canna da zucchero e a comprare degli schiavi come manodopera. Successivamente, in preda alla bramosia di guadagno, decide di intraprendere la redditizia tratta degli schiavi dall’Africa ed è proprio in questa circostanza che si verifica l’evento cruciale della sua vita: il naufragio su un’isola situata vicino alla foce del fiume Orinoco in Venezuela, che verrà poi chiamata dallo stesso Robinson Isola della Disperazione. Dato che la narrazione del romanzo viene fatta in prima persona, è proprio il protagonista a descrivere la pericolosità dell’evento del naufragio e il modo in cui egli, dopo essere caduto in acqua, riesce a raggiungere la spiaggia dell’isola:

“Mentre eravamo in questa pericolosa situazione e il vento soffiava ancora impetuosissimo, uno dei nostri uomini di mattino presto si mise a gridare: - Terra! – e noi uscimmo dalle nostre cabine a guardare, con la speranza di vedere in quali mai paraggi del mondo ci trovavamo; ma non eravamo quasi ancora usciti che la nave dette in secco e un attimo dopo, essendosi arrestato il suo movimento, il mare l’investì con tale violenza che noi tememmo di dover morire immediatamente; e immediatamente fummo ricacciati dalla paura sotto coperta, al riparo dalla schiuma e dagli spruzzi del mare. […] In questa pericolosa situazione, il secondo afferrò la barca e con l’aiuto degli altri uomini riuscì a issarla sul fianco della nave; così, entrandoci tutti, mollammo i cavi e ci andammo, undici di noi, alla mercé di Dio e del selvaggio mare; perché, sebbene la tempesta si fosse calmata considerevolmente, pure cavalloni altissimi si abbattevano sulla spiaggia, e il mare quindi poteva ben a ragione chiamarsi den wild zee, come gli olandesi chiamano il mare in tempesta. […] Dopo aver remato, o piuttosto dopo essere andati alla deriva

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per circa una lega e mezzo, a occhio e croce, un’ondata furiosa, grossa come una montagna, ci venne addosso da poppa e ci dette chiaramente ad intendere che dovevamo aspettarci il colpo di grazia. In una sola parola, ci investì con tanta violenza che la barca si capovolse immediatamente, e, separandoci dalla barca e l’uno dall’altro, non ci lasciò quasi nemmeno il tempo di dire “O Dio!”, che in un momento fummo tutti inghiottiti. Non vi sono parole per descrivere lo smarrimento che provai quando sprofondai nell’acqua; perché, sebbene nuotassi benissimo, pure non riuscivo a liberarmi dalle onde per tirare il fiato, finché quell’ondata, dopo avermi sospinto o piuttosto portato di peso per un gran tratto verso la spiaggia ed essersi esaurita, non si ritirò e mi lasciò sulla terra quasi all’asciutto, ma mezzo morto per l’acqua che avevo bevuto. […] Andavo avanti e indietro sulla spiaggia, levando le mani al cielo e con tutto il mio essere, potrei dire, assorto a considerare la mia salvezza; e facevo mille gesti e movimenti che non posso descrivere, e riflettevo come mai, mentre tutti i miei compagni erano annegati, non ci dovesse essere altra anima salva oltre a me; perché, quanto a loro, non li vidi mai più, né ne vidi altro segno che tre cappelli, un berretto e tre scarpe scompagnate. Gettai gli occhi alla nave arenata in un momento in cui i marosi e gli spruzzi del mare erano così alti, che quasi non riuscivo a scorgerla, tanto appariva lontana, e riflettei: “Oh Signore! Com’è possibile che io sia riuscito a raggiungere la riva?”172

Le avventure e le peripezie accadute a Robinson Crusoe lo rendono, sicuramente, l’exemplum per eccellenza dell’avventuriero moderno; allo stesso tempo, però, egli può essere considerato come un nuovo Ulisse, come un uomo simbolo dell’astuzia e della libertà individuale e dotato di uno spirito intraprendente che lo spinge sempre a ricercare l’avventura. È proprio questo forte desiderio, infatti, a portare Crusoe ad andare lontano da casa, nonostante i numerosi avvertimenti da parte del padre che lo vorrebbe avvocato. Il paragone più significativo, dunque, non va fatto con l’Odisseo omerico, bensì con l’Ulisse dantesco: anche Robinson, infatti, è disposto a superare ogni limite per il suo irrefrenabile desiderio di conoscenza, arrivando al punto di spingersi oltre le colonne d’Ercole e dar inizio al “folle volo”.

Mario Domenichelli173 ha definito l’eroe di Defoe come il protomodello della cultura colonial-imperialista: il suo interesse è interamente rivolto ai traffici commerciali ed egli ricerca il successo economico al fine di ottenere una promozione sociale e l’ascesa ai ceti più alti. Vedremo, però, come la sua avventura costituisca un peccato che va contro la ragione e che lo porta lontano dalla retta via e dal buon senso, il common sense. La tradizione classica, infatti, ci ha lasciato in eredità il concetto della filosofia del giusto mezzo, della mediocritas, dell’equilibrio dato dall’oculato investimento di tempo e denaro. Per seguire questa via è consigliabile non esporsi finanziariamente in maniera incauta e, in questo modo, non rischiare di spingersi troppo

172 D. Defoe, Le avventure di Robinson Crusoe, a cura di G. Sertoli, Einaudi, Torino, 1998, pp. 41-45. 173 M. Domenichelli, Robinson e Robinsonnades: La Tempesta e altri paradigmi, in Robinson dall'avventura al mito: Robinsonnades e generi affini, a c. di M.C. Gnocchi e C. Imbroscio, Bologna,

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verso il largo e, di conseguenza, naufragare. Questo è proprio quello che accade a Robinson, il quale, unico fra i suoi compagni, riesce a salvarsi dall’annegare nel mare della propria avidità.174

Nel romanzo di Defoe, la tempesta ricopre un ruolo di fondamentale importanza, assumendo il significato simbolico di punizione e di conseguente rifondazione e riscoperta dell’identità del protagonista attraverso l’isolamento e la sofferenza. Il naufragio e la permanenza dell’eroe sull’isola deserta, infatti, hanno la funzione di separare il protagonista dall’originale tempo della storia e di introdurlo in uno spazio temporale in cui si può rifondare il tempo stesso: proprio nell’isola, Crusoe viene degradato allo stato di natura e ripercorre le tappe della civiltà umana, migliorando con il lavoro le proprie conoscenze, abilità e condizioni di vita. Egli, inizialmente, impara le più svariate attività, diventando cacciatore, muratore, allevatore, falegname, agricoltore, fornaio, vasaio, amministratore, ecc. e, pian piano, raffina la sua tecnica in ogni mestiere. Questo processo di ascesa in un’ipotetica scala sociale viene affiancato da una graduale maturazione del sentimento religioso che culmina nella totale conquista della fede.

All’interno del romanzo di Defoe, infatti, la religione ricopre un ruolo di fondamentale importanza e Robinson riesce sempre a trarre una morale da tutto ciò che gli succede, vedendo nelle proprie vicende un segnale da parte di Dio. Già all’inizio della sua avventura, come abbiamo visto, la Provvidenza per due volte avverte Robinson di non intraprendere la via del mare; la punizione finale, però, arriverà con il naufragio e l’isolamento presso l’Isola della Disperazione. Qui, il naufrago ritrova se stesso e come un nuovo Adamo in una terra straniera, riscopre la sua identità, imparando a conoscere le meraviglie di un locus amoenus paragonabile ad una replica terrena del Giardino dell’Eden. Grazie alla natura benevola dell’isola e alle sue abilità e conoscenze tecniche, Crusoe riesce a dominare il territorio circostante e a diventarne l’assoluto ed unico proprietario. Allargando le sue conoscenze grazie all’esperienza di 26 anni trascorsa sull’isola, il protagonista migliora molto se stesso e riesce anche a purificare il suo animo dai peccati commessi, avvicinandosi alla religione e alla salvezza cristiana. Robinson, infatti, durante la sua permanenza presso l’isola, si ritrova in più occasioni a leggere la Bibbia, unico libro che era riuscito a salvare dalla nave

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distrutta, e, imbattendosi nelle parole dei Salmi, capisce di dover rendere la sua vita conforme ai piani della Provvidenza.

Utilizzando le parole di Pietro Benzoni175, potremmo definire la permanenza di Crusoe sull’isola come una sorta di “prigionia-soggiorno”: egli, infatti, tende a leggere le proprie sventure in chiave provvidenziale, maturando quella profonda fede religiosa che lo porterà a considerare l’isola non più come una condanna alla segregazione, ma come un luogo dove la vita può comunque essere gratificante. Robinson imparerà a staccarsi dalla malvagità e dalla malignità del mondo, servendosi con parsimonia delle preziose risorse che la natura dell’isola gli mette a disposizione:

“In una parola, la natura e l’esperienza delle cose mi insegnarono, in seguito a giusta riflessione, che tutti i beni di questo mondo non hanno altro valore per noi che per l’uso che ne facciamo; e che quanto ammucchiamo per dare agli altri, di esso noi godiamo solo la quantità che possiamo usare, non di più. Il più avido, rapace avro del mondo sarebbe guarito dal vizio dell’avidità, se si fosse trovato nelle mie circostanze; perché io possedevo infinitamente più di quanto sapessi usare.”176

Dunque, è proprio in questo luogo staccato e isolato dal resto del mondo che Crusoe apprende quale sia il corretto rapporto da mantenere con la natura e come sia opportuno tenere sotto controllo la cattiveria e l’avidità. A tal proposito, è interessante vedere come Robinson giudichi la barbarie dei conquistadores spagnoli:

“[…] la condotta degli spagnoli e le barbarie che essi avevano commesso in America, dove avevano distrutto milioni di questi uomini, i quali, sebbene fossero idolatri e selvaggi, e avessero parecchi riti sanguinosi e barbari tra le loro usanze, come per esempio quello di sacrificare i corpi umani ai loro idoli, pure rispetto agli spagnoli erano assolutamente innocenti; e che si parlava colla massima aborrenza e detestazione, persino dagli stessi spagnoli ormai e da tutte le altre nazioni cristiane d’Europa, del loro sterminio, giudicato un vero e proprio macello, una crudeltà sanguinaria e contro natura, ingiustificabile agli occhi di Dio e degli uomini; una crudeltà per la quale il nome stesso di spagnolo desta orrore e paura in tutti gli uomini che hanno senso di umanità o misericordia cristiana, come se il regno di Spagna si distinguesse in modo particolare per aver prodotto una razza di uomini assolutamente privi di ogni principio di clemenza, o del comune sentimento di pietà verso i miseri, il quale è giudicato un segno di animo generoso.”177

La permanenza sull’isola, alla fine, suscita un miglioramento nel comportamento del naufrago che, nella parte conclusiva del romanzo, la giudica positivamente utilizzando tali parole:

175 P. Benzoni, Il senso della fine in “Robinson Crusoe” di Daniel Defoe, in Strumenti Critici, XX, 2005,

p. 104.

176 D. Defoe, Robinson Crusoe, cit., pp. 120-121. 177

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“E così ho raccontato la prima parte di una vita fortunosa e piena di avventure, una vita che è una tarsia della Provvidenza, d’un genere che di simile il mondo raramente potrà mostrarne; vita che cominciò scioccamente, ma si chiuse molto più felicemente di quanto qualunque parte di essa non mi avesse mai dato ragione di sperare minimamente.”178

Abbiamo visto, dunque, come nella storia e nelle avventure di Robinson Crusoe tutto ruoti intorno al mare e al commercio e come ogni colpa o peccato commesso dal protagonista venga sempre scontato durante la navigazione o nella permanenza sull’isola. Ogni azione compiuta da Robinson viene giudicata secondo un’ottica economica e viene regolata seguendo la logica del profitto. Per questo motivo, all’interno dell’opera, esiste una profonda scissione interna data dalla presenza di due forze contrapposte e inconciliabili, quella economica e quella religiosa.

La “smania di vagabondaggio ed avventure” viene considerata esplicitamente come una pulsione maligna, come un peccato ricorrente che causa le disavventure del protagonista. Ciò emerge sin dalle prime battute del romanzo, quando Robinson si trova profondamente in contrasto con il volere del padre, il quale lo aveva incoraggiato a condurre una vita ordinaria e agiata, seguendo il principio dell’equilibrio e della mediocritas:

“Mio padre, uomo saggio e grave, tentò con ottimi e seri consigli di dissuadermi da quello che indovinava essere il mio intento. […] Mi disse che la condizione media si confaceva a ogni specie di virtù e a ogni specie di godimenti; che la pace e l’abbondanza erano le ancelle della media fortuna; che la temperanza, la moderazione, la tranquillità, la salute, le amicizie, tutti gli svaghi dilettevoli e tutti i piaceri desiderabili erano i doni che il Cielo riservava alla condizione media della vita; che in questo modo gli uomini […] non erano rosi dalla passione dell’invidia o dalla segreta, ardente febbre dell’ambizione per le grandi cose, ma passavano placidamente la vita negli agi, gustandone con saggia moderazione la dolcezza, senza assaporarne l’amaro, sentendo di essere felici e imparando sempre più ad esserlo con l’esperienza di ogni giorno. […] Fui sinceramente commosso da questo discorso – e chi avrebbe potuto non esserlo? – e decisi di non pensare più ad andare via, bensì di stabilirmi a casa secondo il desiderio di mio padre. Ma, ahimè in pochi giorni tutto svanì e, in breve, per evitare ulteriori insistenze di mio padre, dopo poche settimane decisi addirittura di scappare via da lui.”179

Robinson, prima del naufragio, trascorre le sue giornate nell’esitazione tra il tornare a casa e il seguire il suo impulso, ma alla fine sceglie la via dell’avventura. La sua fatale passione per la conoscenza, infatti, è rappresentata dal mare, entità che da sempre costituisce il limite delle imprese umane. Se il viaggio rappresenta il destino di

178 Ivi, p. 279. 179

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Robinson, inteso come personificazione dell’Occidente, il naufragio costituisce la sua punizione per aver disobbedito al volere paterno.180

L’esperienza di Crusoe, dunque, diventa emblematica e la sua storia acquista un valore provvidenziale, proponendosi come un modello valido per ogni cristiano. Defoe dà vita al prototipo del colono che riesce a procurarsi del benessere anche nelle situazioni più difficili: egli cade in disgrazia, si rialza e recupera i suoi beni, riuscendo anzi ad accrescere maggiormente le proprie ricchezze. Il naufrago moderno, infatti, è proprio un uomo comune che, dopo essere finito su un’isola selvaggia, riesce a sviluppare appieno il suo ingegno e le sue capacità pratiche.

Il finale de Le straordinarie avventure di Robinson Crusoe non chiude la storia in maniera definitiva, ma anzi la lascia aperta a successivi avvenimenti che saranno poi narrati nelle Ulteriori avventure. Dopo la morte della moglie, Robinson si lascia convincere dal nipote a riprendere i suoi viaggi, dichiarando di non aver mai perso il suo desiderio di “vagabondaggio” e decidendo proprio di ritornare nell’Isola della Disperazione:

“Chiunque penserebbe che, raggiunto questo stato di buona fortuna dopo tante vicissitudini, io fossi ormai guarito della voglia di correre altri rischi; e ne sarei infatti guarito col concorso di altre circostanze. Ma io ero avvezzo a una vita di vagabondaggio, non avevo famiglia, non avevo molti parenti, né per quanto fossi ricco, avevo fatto molte conoscenze; e sebbene avessi venduto la mia proprietà in Brasile, pure non riuscivo a togliermi quel paese dalla testa e avevo una gran voglia di rimettermi in movimento; in particolare, non potevo resistere alla forte inclinazione che avevo di ricedere la mia isola e sapere se i poveri spagnoli erano ancora in vita e come quei bricconi che vi avevo lasciato li avevano trattati.”181

180 J. Pimentel, Robinson Crusoe: the fate of the British Ulysses, in Endeavour, 34, 2010, pp. 16-20. 181

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CAPITOLO V

L’OTTOCENTO IN ITALIA E IN EUROPA