5.2 Il Nuovo Teatro Guadalupano: nuovi percorsi di analisi
5.2.2 Un’esperienza comunitaria
Il Nuovo Teatro Guadalupano, allontanandosi dalla formula chiusa della tradizione, si distacca dalla verità narrativa del Nican mopohua e dalla verità iconica dell’immagine miracolosa per stimolare nello spettatore una compartecipazione attiva rispetto a quanto avviene sulla scena. L’inserimento di personaggi estranei alle vicende guadalupane e lo spostamento dell’asse spazio-temporale obbliga a ripensare daccapo quanto è già custodito e fossilizzato nella memoria culturale nazionale. Se il Nican mopohua, come recita l’incipit del testo, narra una messa in ordine degli eventi del Tepeyac85, il Nuovo Teatro
Guadalupano opera una “messa in disordine”, sul piano estetico e semantico, che sarà poi lo spettatore a dover riorganizzare e risignificare all’interno della propria visione interiore.
Nel Nuovo Teatro Guadalupano vi è contenuto, a livello simbolico, tutto quanto appartiene all’universo spirituale del Nican mopohua e, paradossalmente, tutto ciò che lo separa da questo. Nello scarto tra il prototipo e le variazioni sul tema si apre allora lo spazio del confronto tra la tradizione e l’interpretazione moderna, attraverso il “rinnovamento […]
85 “Nican mopohua, motecpana”, primo verso del racconto di Valeriano, significa letteralmente
135 di immagini preesistenti” (Wunenburger, 2008: 54) che permettono di ricondurre i testi di Usigli, Liera e Tenorio a quello di Valeriano. L’ipertesto del Nuovo Teatro Guadalupano rappresenta dunque una riscrittura di riscritture che, anche nella negazione o nella rielaborazione dell’ipotesto del Nican mopohua, è a questo legato da un rapporto di necessaria intertestualità. “Al di sotto del testo dichiarato”, segnala Wunenburger, “operano infatti degli schemi, delle figure, degli archetipi che agiscono come delle matrici di senso e come degli operatori e conduttori che trasferiscono un significato universale in uno particolare o viceversa” (Wunenburger, 2008: 55). Le opere di Usigli, Liera e Tenorio possono dunque permettersi di giocare con lo stravolgimento del prototipo iconografico (la tilma) e del prototipo letterario (il Nican mopohua) grazie a quel legame di ipertestualità fatto di rimandi, citazioni implicite, inversioni e sviamenti semantici (Genette, 1982) che sfruttano la sovrapposizione delle immagini culturali per scardinare e rimodellare l’immaginario visuale del pubblico.
Nella mito-genesi della storia guadalupana, il Nican mopohua, che inizialmente raccoglie le versioni della tradizione orale per sintetizzarle nella vulgata non storicamente accertata, funge qui da primo motore per le successive riscritture. Il racconto di Valeriano, capostipite del nuovo filone drammaturgico, da punto di arrivo diviene ora il nuovo punto di partenza con cui la riflessione identitaria contemporanea è sempre costretta a confrontarsi. La micro-storia del Tepeyac si estende così alla macro-storia nazionale, facendo del mito guadalupano un topos letterario che a sua volta si trasforma in un rituale in movimento, evoluzione di una simbologia che nei secoli si rinnova e dà origine a nuovi significati. Il palinsesto di Corona de luz, Cúcara y Mácara e Travesía guadalupana rappresenta allora “un luogo di conservazione e trasformazione di un patrimonio religioso anteriore” (Wunenburger, 2008: 61) che interroga la tradizione e si rinnova nei suoi significati costituenti. Quando lo sguardo strutturato dello spettatore contemporaneo, già contenitore di un sapere pregresso, entra in contatto con la forma simbolica della nuova drammaturgia, nascono infatti nuove forme di pensiero: lo sguardo, riposizionandosi sul nuovo orizzonte di significato, “mette in discussione e rimette in gioco tutto un sapere, tutto il sapere” (Didi-Huberman, 2015: 57). L’ambiguità della commedia anti-storica di Usigli, che oscilla tra verità storica e frode di stato, la maschera burlesca della farsa di Liera, che affida alla finzione verosimile un’amara critica
136 politica, e la chiamata a raccolta sul palcoscenico di Tenorio di alcuni dei più famosi personaggi della storia messicana, da Cortés a Huitzilopochtli e dalla Guadalupana a Coatlicue, producono una sorta di rimescolamento delle figure del passato identitario in un presente da riorganizzare e riordinare secondo le declinazioni interpretative del pubblico. Passando dalla visione oggettiva dell’immagine alla visione soggettiva dell’immaginario, dalla rievocazione del passato alla messa in discussione del presente, il Nuovo Teatro Guadalupano rappresenta, come direbbe Gadda (1928), una “coinvoluzione di sistemi”. Sistema nel sistema, immagine nell’immagine, la nuova estetica guadalupana tesse una rete di interconnessioni di significati che coinvolgono la percezione individuale e la memoria collettiva. Il “fattore pubblico” (Jauss, 1999: 188), infatti, svolge due funzioni, ermeneutica e formativa, essenziali per lo sviluppo della matassa scenica.
“Il teatro”, scrive ancora Allegri, “è il luogo in cui le cose accadono in presenza, in un incontro-confronto tra persone, in un intreccio di compresenza fisica e di scambio di emozioni reali” (Allegri, 2014: VIII). L’esserci dello spettatore, la sua presenza viva nella dinamica teatrale, è l’unica cosa in grado di dare senso a quanto avviene sulla scena. L’umanità dell’osservatore è la sola a garantire che l’idea nata nell’autore e messa in immagine nella persona dell’attore realizzi lo scopo per cui è stata concepita. “L’opera letteraria non è un oggetto sussistente in sé, che mostri a ogni osservatore e in ogni tempo lo stesso aspetto” (Jauss, 1999: 192). In questa definizione scopriamo allora due nodi fondamentali: l’opera non possiede una vita propria fin quando questa non viene attivata dal lettore/spettatore e, nel momento in cui ciò avvenga, l’opera si manifesterà nella sua pluralità di significato perché plurale è il suo interprete. Tuttavia, perché la rappresentazione venga decodificata nei suoi travestimenti simbolici, è necessaria la conoscenza previa del “contesto di esperienza della percezione estetica” (Jauss, 1999: 195). Imprescindibile, dunque, un pubblico in grado di compiere il passaggio tra segno e significato, di spostarsi, cioè, dalla percezione dell’oggetto all’interpretazione del senso. In altre parole, il presupposto preliminare affinché lo sguardo intuisca la presenza dell’eccedenza simbolica e traduca le stratificazioni di senso è sapere che queste stratificazioni esistono. Se l’osservatore non sa che quella che si dà ai suoi occhi è un’immagine bifronte, di certo non sarà in grado di andare a cercare quella seconda faccia che si cela dietro la prima dell’apparenza. “Bisogna insomma ‘immaginare’ in anticipo la
137 ricchezza semantica dell’immagine per poterla poi cercare” (Wunenburger, 1999: 114), il che significa che soltanto chi riconosce nell’immagine simbolica la sua simbolicità può intraprendere un procedimento di decostruzione (consapevolezza della frattura) e ricostruzione (ricongiungimento delle parti) di entrambe le facce della rappresentazione. “Un’immagine mi parla perché fa appello in me a un dato preesistente” (Wunenburger, 1999: 115), ovvero entra in una relazione dialogica con il suo osservatore perché nel suo sguardo è contenuta la chiave immaginifica che gli permette di leggere e tradurre il suo significato simbolico. La simbolicità di un segno, allora, sembra presentarsi maggiormente nello sguardo interpretativo piuttosto che nel segno stesso. Di fatto, come spiega ancora Wunenburger nella sua già citata Filosofia delle immagini,
il campo simbolico non è condizionato a priori dalla configurazione propria di certi segni, ma risiede innanzitutto in un rapporto di significanza che il soggetto stabilisce tra se stesso e i segni. Il valore simbolico dipende dunque più dallo sguardo che dalla cosa vista, più dalla coscienza che dal mondo (Wunenburger, 1999: 283).
Coscienza che non si sofferma alla ricezione del dato ma che si fa veicolo di uno sguardo simbolico capace di mettere insieme le possibilità dell’invisibile per poi ricollocarle nell’ordine del visibile, andando così a ricomporre quella unità di senso originale dell’immagine simbolica. “La simbolicità” – scrive Dan Sperber – “non è quindi una proprietà degli oggetti, degli atti o degli enunciati, ma delle rappresentazioni concettuali che li descrivono e li interpretano” (Sperber, 1981: 109). Nessuna immagine, quindi, è simbolica a priori ma lo diventa a seconda del suo spettatore: lo sguardo riunificatore del soggetto che si vede nell’immagine è il collante che ricostruisce la frattura della tessera spezzata giacché il simbolo si rivela esclusivamente nell’immaginario degli occhi di chi guarda.
È dunque il Nuovo Teatro Guadalupano un teatro per soli Messicani? Probabilmente sì, o comunque per quegli individui in grado di disarticolare la rappresentazione scenica nelle sue implicazioni con la storia del Paese. Riprendendo allora la teoria del riconoscimento di Gibson che abbiamo descritto nella prima sezione di questo lavoro – secondo cui riconosciamo la messa in immagine di un oggetto nella misura in cui essa contiene le stesse informazioni contenute nell’oggetto originale –, vogliamo ora proporre una teoria del riconoscimento soggettivo, ovvero basato sulla capacità del soggetto guardante di
138 stabilire l’effettivo legame di riconoscibilità. Secondo questa nuova prospettiva dinamica, non riconosciamo l’immagine di un oggetto sulla base delle informazioni estetiche che lo legano all’oggetto reale ma sulla presenza di questa somiglianza all’interno della nostra percezione immaginifica. Questa nuova relazione estende il legame tra oggetto e immagine alla soggettività dell’immaginario, chiedendo all’osservatore di determinare se esistano rapporti di filiazione tra l’una e l’altra parte.
Per la comprensione del teatro guadalupano di Usigli, Liera e Tenorio è dunque necessario che il pubblico messicano compia un doppio passaggio: capire il significato estetico del simbolo per poi raggiungere la riflessione critica a cui quel simbolo vuole condurre. Il teatro si apre così a strumento non solo di decifrazione del reale ma di rivoluzione, di rinnovamento, di conversione verso una più autentica conoscenza del mondo. Fare teatro con le immagini, fare un teatro di immagini, significa usare la rappresentazione come “medium in grado di educare la percezione e produrre un mutamento” (Jauss, 1999: 184). Un teatro volto all’indagine dialettica dell’identità nazionale è dunque un teatro che partecipa alla ri-creazione dell’immaginario e alla riformulazione del paradigma sociale. Cambiare l’immagine estetica della realtà porta lo spettatore ad agire concretamente sulla sua realtà circostanziale poiché “l’homo aestheticus, creando […] un’altra immagine del mondo, una nuova modalità di manifestazione delle cose, modifica contemporaneamente il proprio mondo interiore ed il mondo esterno” (Wunenburger, 2008: 72). Il vissuto individuale viene così esteso agli altri membri della collettività che insieme partecipano ad un’esperienza di condivisione comunitaria. Nella mediazione attiva dello spettatore, che osserva, interpreta e rielabora quanto ha visto, “l’immaginario”, continua Wunenburger, “appare così come uno spazio di realizzazione, definizione ed espansione della soggettività” (Wunenburger, 2008: 72). La partecipazione attiva del destinatario consiste, perciò, non soltanto nello scoprire il significato simbolico dell’opera ma nel trasportarlo e dargli vita nel contesto socio-culturale di appartenenza. In quella che Silvio D’Amico chiamava la “ovvia triade”, ovvero l’unione di autore, opera e pubblico, quest’ultimo riceve, nel Nuovo Teatro Guadalupano, un mandato speciale: chiamato a dare senso all’opera, è soprattutto investito della responsabilità di agire come forza umana comunitaria sull’intera collettività. Senza la reazione concreta del pubblico sull’immaginario, lo sforzo estetico dell’autore sarà stato vano.
139 Immaginando allora l’icona simbolica come un poliedro che si apre in quello che in geometria prende il nome di “sviluppo piano”, ovvero l’apertura del solido nelle sue facce poligonali, possiamo visualizzare la metafora iconica come un’immagine che si apre in tutte le sue componenti secondo schemi che cambiano con il cambiare dello spettatore mentre l’immagine originale resta comunque invariata. Ogni cogito, infatti, scompone la visione sulla base della propria memoria visuale, indagando le proiezioni simboliche dell’immagine in virtù della propria sensibilità ermeneutica che però, nella ricongiunzione tra visibile e invisibile, rimanda poi alla stessa immagine, comune a tutto l’orizzonte visuale collettivo. Forma di coesione comunitaria, l’immaginario evocato a partire dal Nican mopohua e rielaborato poi nelle nuove forme del Nuovo Teatro Guadalupano racconta allora un’esperienza collettiva: abbracciando non soltanto la dimensione religiosa ma anche quella sociale, ideologica e politica, il guadalupanismo si converte in una tematica essenziale nella drammaturgia messicana.
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Capitolo sesto
L’immaginario guadalupano nel teatro di Usigli, Liera e Tenorio
..entre todas las formas de arte que sirven para identificar una raza, el teatro es, a ciencia cierta, la más concluyente. U. Rodolfo, “Primeros apuntes sobre el teatro” (1931)