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5.1 Il Nican mopohua: prototipo di teatro guadalupano

5.1.2 La letterarizzazione del mito

La struttura del Nican mopohua, che si organizza tra sezioni dialogiche e sezioni descrittive, ha portato fra’ Servando Teresa de Mier e Joaquín García Icazbalceta a ipotizzare che il racconto di Valeriano fosse in realtà un testo teatrale destinato alla rappresentazione. Oggi anche i maggiori studiosi guadalupani sono pienamente convinti della “teatralidad implícita” (Fiallega, 2012c: 19) del testo, trovando nella prossemica dei personaggi, nei dialoghi tra Juan Diego e la Virgen, nella dinamica dell’apparizione dell’immagine e nella presentazione dettagliata delle ambientazioni un insieme di caratteristiche tipiche della composizione drammatica. Questa “catequesis o representación teatral en cuatro actos”, come la definisce criticamente l’ultimo abate della Basilica Guillermo Schulenburg (Brading, 2002: 537), si inserirebbe perfettamente nelle pratiche di evangelizzazione che, attraverso la messa in scena di episodi della vita di Gesù e della Vergine, istruivano la popolazione indigena. Peculiarità della Conquista spagnola, infatti, è proprio l’uso dell’arte drammatica come strumento di predicazione, capace di entrare in contatto con la parte più intima e irrazionale dei suoi spettatori, nonostante le evidenti differenze culturali.

La conquista española difiere de otras empresas similares de su época y de épocas posteriores en la medida en que se usa, al lado de las armas tradicionales, un arma poco común: el teatro. Y se puede decir, sin exageración, que el teatro fue en la conquista espiritual de México, lo que los caballos y la pólvora fueron en la conquista militar (Sten, 1974: 13).

Alla teatralizzazione delle scene bibliche, dunque, viene affidato un importante ruolo didattico in cui la conversione passa attraverso la partecipazione allo spettacolo sacro. La messa in immagine della Parola, la sua incarnazione nella persona degli attori e la sua riproduzione nel tempo presente, rende possibile la trasmissione, seppur graduale, di un intero sistema di valori. Se la visione si tramuta in sapere, capiamo allora l’inscindibile correlazione in greco antico tra il verbo “vedere” e il verbo “conoscere”. La voce verbale «», cioè «io so», è in realtà il perfetto di «ὁά» («io vedo») e corrisponderebbe perciò al più letterale «ho visto». Diremo, quindi, so perché ho visto, ho fatto esperienza di qualcosa attraverso i miei occhi e dalla visione ne ho ottenuto diretta conoscenza. Drammatizzare episodi delle Sacre Scritture, per renderle accessibili a un popolo che

124 ignora l’universo teologico cristiano, significa perciò rendere visibile il testo sacro, trasformarlo in figura, convertire la parola in immagine e l’immagine in immaginario. Il Nican mopohua, alla stregua del testo biblico, diviene così il copione-prototipo di una vasta tradizione teatrale che caratterizzerà gli autos sacramentales della Nuova Spagna. “Construcción visual” (Villegas, 2000) caratterizzata da un linguaggio estremamente evocativo, il racconto di Valeriano fa emergere alla vista del lettore/spettatore non soltanto l’icona guadalupana ma un intero paesaggio culturale stratificato nell’immaginario dei suoi destinatari attraverso cui può veicolare il nuovo messaggio cristiano.

Fueron muchos los corazones que, mediante la mística guadalupana, se adentraron en los fundamentos del cristianismo a través del teatro guadalupano que sirvió para entretener y apoyar, para divertir y moralizar a las poblaciones indígenas del México colonial (Valero de García Lascurain, 2014: 70).

Proprio nel passaggio dal sermone al teatro si realizza la grande rivoluzione della retorica visuale guadalupana: dalla verticalità del predicatore, che trasmette una verità immutabile dall’alto verso il basso, la teatralizzazione insita nel Nican mopohua pone su un piano orizzontale i suoi destinatari, includendoli nel racconto e dando loro la possibilità di accedere direttamente alla storia rappresentata. Il teatro guadalupano, diversamente dal teatro coloniale classico che si riferisce al passato biblico, è quindi un teatro che parla alla comunità attraverso gli schemi culturali in cui questa si identifica. Rispetto a quanto credeva Aristotele, che riteneva la vista (opsis) inferiore alla parola (logos), il linguaggio teatrale di Valeriano, iconico e testuale, è in grado di giocare contemporaneamente con la percezione visiva dell’immagine e la percezione immaginifica dell’immaginario. Il Nican mopohua, infatti, è un testo figurato e figurativo, poiché se da un lato rimanda a significati metaforici, che da un’espressione simbolica ritornano a una realtà concreta, dall’altro crea e modella scenari visuali proprio a partire dalla messa in immagine della parola. Leggiamo nei versi in cui Juan Diego si descrive immeritevole di servire la noble señora:

En verdad yo soy un infeliz jornalero, sólo soy como la cuerda de los cargadores, en verdad soy angarilla,

125 sólo soy cola, soy ala,

soy llevado a cuestas, soy una carga, en verdad no es lugar donde yo ando, no es lugar donde yo me detengo, allá a donde tú me envías,

mi muchachita, mi hija la más pequeña, señora, noble señora

(León-Portilla, 2012: 113, vv. 296-305).

Questo passaggio carico di commozione disegna la figura di un uomo cosciente della propria miseria attraverso quelle metafore appartenenti al corredo simbolico nahua come, ad esempio, il difrasismo “ala y cola” (ivi, v. 299) che sta a designare metaforicamente l’estrazione sociale del macehual. Nei versi seguenti, invece, si fa più evidente il procedimento ecfrastico secondo cui noi lettori/spettatori riusciamo a vedere oltre le parole la presentificazione della scena descritta:

Y vino a acercarse al cerrito, donde se llama Tepeyácac, ya relucía el alba en la tierra.

Allí escuchó: cantaban sobre el cerrito, era como el canto de variadas aves preciosas. Al interrumpir sus voces,

como que el cerro les respondía. Muy suaves, placenteros,

sus cantos aventajaban a los del pájaro cascabel, del tzinitzcan y otras aves preciosas que cantan (ivi: 95, vv. 37-46).

Nel cambio dal pulpito alla scena, ovvero da una cultura di ascolto a una cultura del visibile, il Nican mopohua diventa un’icona verbale capace di suscitare, con le figure del linguaggio, le figure dell’immaginario. Attraverso il procedimento dell’ipotiposi, Antonio Valeriano non narra semplicemente gli avvenimenti del Tepeyac ma li mostra, li rende visibili così da poterli inserire nella memoria visuale individuale e collettiva. Rispettando la formula oraziana ut pictura poesis, “la poesia (sia) come la pittura”, l’autore disegna un’immagine visibile a parole e un testo leggibile nell’immagine. La relazione ecfrastica che lega le parole all’immagine rende possibile la visualizzazione dell’icona nei versi e l’apparizione dei versi nell’icona:

126 Su vestido,

como el sol resplandecía, así brillaba.

Y las piedras y rocas sobre las que estaba flechaban su resplandor como de jades preciosos, cual joyeles relucían.

Como resplandores de arco iris reverberaba la tierra.

Y los mezquites, los nopales y las demás variadas yerbitas que allí se dan,

se veían como plumajes de quetzal, como turquesas aparecía su follaje, y su tronco, sus espinas, sus espinitas, relucían como el oro

(ivi: 99, vv. 92-108).

Vedere il Nican mopohua, allora, equivale a entrare nell’iconosfera guadalupana e a prendere parte allo scenario identitario che lì vi è rappresentato. Possiamo leggerne un esempio nei versi che descrivono lo straniamento di Juan Diego che, sentendosi come smarrito in un sogno, rievoca i luoghi mitici della tradizione indigena:

¿Dónde estoy? ¿Dónde me veo? ¿Tal vez allá,

donde dejaron dicho los ancianos, nuestros antepasados, nuestros abuelos, en la Tierra florida, Xochitlalpan,

en la Tierra de nuestro sustento, Tonacatlalpan, tal vez allá en la Tierra celeste, Ilhuicatlalpan? (ivi: 97, vv. 53-60).

A nostro avviso, quindi, sebbene la rappresentazione delle apparizioni guadalupane partecipi inevitabilmente all’opera di marianizzazione, riteniamo che il Nican mopohua rappresenti molto di più di un semplice supporto didattico utile alla cristianizzazione della Colonia. La narrazione guadalupana, come segnala Luis de Tavira, “si bien proviene

127 de las corrientes medievales del teatro litúrgico, las renacentistas de la evangelización y las alegóricas del barroco, constituye una expresión privilegiada y estricta de lo nacional mexicano, propio, otro y exclusivo” (Tavira, 1994: 24). In disaccordo con chi vede nella rappresentazione delle apparizioni un mero meccanismo di inculturazione, siamo convinti che si tratti di un bellissimo esempio di assimilazione dinamica e reciproca, che trova nella compenetrazione delle parti la via per il raggiungimento di una identità nuova e collettiva in cui il discorso guadalupano, sincretico per definizione, manifesta la “transformación de uno de los símbolos y expresiones esenciales de la identidad grupal del pueblo mexicano” (Ruiz Bañuls, 2006: 40). Nel seno della drammaturgia guadalupana, il cristianesimo si indigenizza secondo una declinazione culturale autoctona e pluricomprensiva che accoglie, nella varietà del mestizaje, il seme della futura mexicanidad.

Así pues, la Virgen de Guadalupe aparece en el teatro mexicano prácticamente desde que éste nace: en primer lugar, como fruto de ese encuentro entre la tradición medieval europea y la indígena prehispánica que da lugar al drama misionero y, a continuación, como expresión esencial de un pueblo que intenta comprenderse y ponerse en relación con una nueva sociedad virreinal en la que las representaciones guadalupanas tendrán una presencia notable (ivi: 39).

Di fatto, sebbene la rappresentazione delle apparizioni si inserisca nella retorica della politica visuale spagnola, il teatro guadalupano, in quanto “complejo fenómeno polisémico que no sólo comunica un mensaje relacionado con lo sobrenatural sino también con lo económico, lo social, lo lúdico, lo étnico y con todo el sistema cultural de un pueblo” (Rodríguez Becerra, 2003: 9), si distacca dalla macchina evangelizzatrice e intraprende una traiettoria che lo porterà ad incarnare la più diffusa manifestazione della cultura popolare. Nell’opera di Antonio Valeriano, in cui scopriamo “un acto de integración, una compenetración del Evangelio cristiano en la cultura mexicana por medio de la figura integradora de Santa María Tonantzin, Virgen de Guadalupe” (Nebel, 1992: 298), si realizza quella letterarizzazione del mito che, attraverso la ri-scrittura della tradizione orale all’interno di un testo normalizzato, custodisce il patrimonio religioso e culturale. Se per “mito” – termine che nella nostra introduzione abbiamo dichiarato di non voler utilizzare perché nella sua accezione comune di “leggenda” ci allontanerebbe dalla miracolosità del tema guadalupano – intendiamo, invece, il significato originale di

128 “racconto”, allora il mythos guadalupano rappresenta una narrazione che raccoglie in un unico bacino l’insieme delle diverse versioni contenute nei singoli affluenti della tradizione per arrivare alla formulazione di una storia ufficiale, responsabile della trasmissione dell’identità in essa rielaborata. Una storia che non basa la sua verità sull’oggettività dimostrabile dei fatti ma che, al contrario, si fonda sulla mitizzazione degli eventi, sul processo di riscrittura e riformulazione dell’immaginario.

Valeriano recurrió, sí, al arbitrio de una narración histórica pero no en el sentido propio de la palabra, sino en el de cuento o fábula que narra una serie de hechos supuestamente acaecidos que sólo cobran su auténtico significado en la esfera de la imaginación creadora (O’Gorman, 1991: 55).

Il ricorrere del nome Juan, inoltre, assume a livello linguistico una funzione di raccordo: dalla figura del vescovo, l’unica di cui possiamo dimostrare l’effettiva esistenza storica, derivano gli altri due Juanes (Juan Diego e Juan Bernardino), caratterizzati ognuno nella propria declinazione nominale e identitaria. “Mexicanización de la evangelización” (Nebel, 1992: 301), il Nican mopohua è dunque l’emanazione di una teologia transculturale: a ben vedere, infatti, il vero destinatario del messaggio guadalupano non è tanto Juan Diego, che accoglie con stupore ma senza esitazione l’apparizione della Signora del Tepeyac, ma il vescovo Zumárraga, il quale è costretto a piegarsi, davanti alla prova incontestabile del miracolo, alla diffusione di una devozione mestiza. Se dunque accettassimo la nostra ipotesi, troveremmo nella finzionalizzazione di Valeriano il copione di una profezia: saggio e lungimirante, l’alunno di Sahagún scopre nella Vergine morena la via per una forma di resistenza identitaria, in cui anche il colonizzatore è obbligato a prendere parte alle nuove dinamiche transculturali. Il culto alla Madonna di Guadalupe funge dunque da prisma di sincretizzazione che, raccogliendo le due diverse identità culturali, le riproietta in un unico riflesso multicolore. Non sappiamo se le nostre supposizioni abbiano un qualche fondamento o se siano soltanto fortunate coincidenze, ma ciò che ci preme segnalare è che l’inserimento di nomi fittizi non annullerebbe in ogni caso il valore religioso del culto ma dimostrerebbe, ancora una volta, il processo di letterarizzazione compiuto da Valeriano.

129 La riformulazione letteraria degli eventi non indebolisce la devozione ma, anzi, eleva il guadalupanismo alla dimensione eterna del mito, della narrazione archetipica in cui fiorisce il primo sentimento protonazionalista.

Si la aparición de la Virgen al indio Juan Diego es negada por quienes buscan explicaciones puramente científicas y materiales, la fuerza espiritual que ha ejercido a lo largo del tiempo no ha podido soslayarse y, aun cuando se interprete al tenor de explicaciones psicológicas y sociológicas, económicas y políticas de muy diverso signo, su existencia, la fuerza de su acción y sus manifestaciones, aun las materiales, son tan vivas que resulta imposible negarlas (Torre Villar – Navarro de Anda, 1982: 8).

L’immaginario letterario ideato da Valeriano realizza così una promessa soprannaturale che procura alla popolazione indigena la giustificazione del culto presente attraverso la ricostruzione del passato di un mito fondazionale.

[…] il lento processo di desacralizzazione porterà il mito, con il suo patrimonio di metafore e di strutture archetipiche, a trasformarsi in “letteratura”, e a svolgere la funzione sociale di fornire una visione immaginaria della condizione umana. Proprio il venir meno del suo stretto rapporto con il culto e con la fede, che è quanto dire dei suoi elementi culturali specifici, ha consentito al mito di rinascere nell’invenzione letteraria non più come espressione di un’esperienza divina ma come rappresentazione della condizione esistenziale dell’uomo con tutta la validità e l’autorità che gli sono proprie (Gentili, 2006: 134).

Nella rappresentazione scenica delle apparizioni nasce così un genere letterario nazionale: espressione di una ricerca identitaria, il Nican mopohua trova nell’unione dell’eredità filosofica indigena e della visione teologica cristiana la sua risposta esistenziale.