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5.1 Il Nican mopohua: prototipo di teatro guadalupano

5.1.1 Storia e stile del racconto

A dieci anni dalla conquista di Mexico-Tenochtitlan, la Vergine Maria appare all’indio Juan Diego presso il monte Tepeyac, proprio dove prima sorgeva il santuario della dea Tonantzin. Quel sabato mattina del 9 dicembre del 1531, in cammino da Cuauhtitlán a Tlatelolco – ove si recava per frequentare il catechismo dei frati francescani – l’umile indio viene attratto, ai piedi del monte, dal canto di alcuni uccelli e, stupito e affascinato da quel suono dolcissimo, rallenta il passo e si mette in ascolto. D’un tratto la montagna tace e un suono ancora più dolce lo raggiunge: “Juanito, Juan Dieguito” (León-Portilla, 2012: 97; v. 71) sussurra la voce che dal monte lo invita a salire. Raggiunta la cima, ecco gli appare una nobile Signora vestita di luce: è la madre del vero Dio, il Datore della vita (Ipalnemohuani), il Creatore degli uomini (Teyocoyani), Signore della vicinanza e della prossimità78 (Tloque Nahuaque), Signore del cielo (Ilhuicahua) e della terra (Tlalticpaque) che

lo investe di un importantissimo mandato. Lei, madre di tutti gli uomini, chiede che lì venga eretta in suo nome una santa casa dove tutti troveranno protezione e conforto nel suo amore. La Signora, avvolta in un abito color del sole79, invia Juan Diego al palazzo del

vescovo Juan de Zumárraga, primo delegato papale della Nuova Spagna, affinché compia la sua volontà. Juan Diego non perde tempo, si congeda e corre a recapitare il messaggio e, al termine di una lunga attesa, ottiene di parlare in presenza del vescovo a cui racconta del canto degli uccelli, della luce sulla montagna e della casa che la nobile Signora desidera si costruisca. Zumárraga, incredulo davanti alle parole dell’indio, lo manda via. Deluso e triste per non aver saputo compiere quanto richiesto, Juan Diego sale per la seconda volta sulla cima del Tepeyac, dove la Signora lo sta già aspettando. Inginocchiatosi, non può che riconoscersi inadempiente e chiede umilmente che quella missione venga affidata a qualcuno più degno di compiere dove lui, inutile servitore, aveva fallito. La voce della donna, però, lo invita a prendere coraggio: nessuno più di lui, scelto proprio perché il più piccolo dei piccoli, può infatti realizzare quanto la sua venerabile voce (motlahtoltzin) desidera. La Signora rivela di essere la sempre vergine Santa Maria, madre di Dio, e Juan Diego, consolato, riprende la strada verso casa con la promessa di tornare dal vescovo il giorno seguente. Così avviene ma questa volta

78 Cfr. Traduzione italiana di Davide Domenici e Alessandro Cassol in León-Portilla, 2003: 83. 79 “Su vestido / como el sol resplandecía / así brillava” (León-Portilla, 2012: 99, vv. 92-94).

115 Zumárraga, forse incuriosito dall’insistenza di quel povero indio ostinato, esige che gli venga mostrato un segno che provi la verità delle sue parole. Una volta lasciatolo andare, lo fa segretamente seguire da alcuni frati che, però, persolo di vista tra la folla, tornano dal vescovo senza alcuna prova. La mattina del lunedì, il giorno in cui Zumárraga avrebbe dovuto ricevere un segno tangibile delle visioni della montagna, Juan Diego non può recarsi all’incontro con la nobile Signora. Suo zio Juan Bernardino, infatti, è giunto al termine di una grave malattia e Juan Diego è alla ricerca di un medico che lo assista. La salute dello zio, però, è ormai compromessa e all’alba del martedì, 12 dicembre, Juan Diego si incammina verso Tlatelolco per chiamare un sacerdote che congedi con i sacramenti l’anima dello zio dalla vita terrena. Preoccupato che Juan Bernardino possa morire lontano dalla Grazia di Dio, Juan Diego si incammina verso la città avviandosi per un sentiero alternativo: spera infatti di evitare l’incontro con la Signora sul Tepeyac, impedendogli la fretta di attardarsi con lei che già dal giorno precedente lo attendeva per consegnargli la señal. Tuttavia Juan Diego ignora di essere stato raggiunto dallo sguardo di colei che “bien a todas partes ve” (ivi: 129, v. 523) e che sul pendio del monte non tarda a manifestarsi per la terza volta. “Hijo mío el más pequeño / ¿a dónde vas/ a dónde te encaminas?” (ivi: 129, vv. 532-534) gli chiede la donna e lui, stupefatto e mortificato, le racconta della triste condizione di suo zio e di quanto sia importante per lui raggiungere la città. La voce della Signora, allora, risuona più dolce che mai nel cuore dell’umile Juan Diego:

Escucha,

que así esté tu corazón, hijo mío, el más pequeño, nada es lo que te hace temer, lo que te aflige.

Que no se perturbe tu rostro, tu corazón, no temas esta enfermedad ni otra cualquier enfermedad, que aflige, que agobia.

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yo que soy tu madrecita?80

¿Acaso no estás bajo mi sombra, y en mi resguardo?

¿Acaso no soy la razón de tu alegría? ¿No estás en mi regazo,

en donde yo te protejo?

¿Acaso todavía te hace falta algo? (ivi: 133, vv. 575- 592).

Al termine di quella che potremmo definire come una vera e propria dichiarazione d’amore per il suo Juan Dieguito, la Signora annuncia il suo primo miracolo: Juan Bernardino è salvo e la sua vita non è più in pericolo. Tranquillizzato e rasserenato, Juan Diego decide di accogliere definitivamente il suo mandato di messaggero. La noble señora, allora, gli ordina si risalire la cima del Tepeyac fin dove gli era apparsa la prima volta e di raccogliere nel suo mantello i fiori che vi avrebbe trovato. Quale meraviglia avrà provato il nostro hombrecillo allo scorgere fiorite, tra i sassi e le spine dei cactus, quelle profumatissime rose! Come “perlas preciosas/ henchidas del rocío de la noche” (León- Portilla, 2012: 137; vv. 637-638) appaiono ai suoi occhi quei fiori impossibili da trovare in un terreno tanto arido come quello del monte. E così, recise le rose e ripostele nell’incavo della sua tilma, Juan Diego riscende il pendio e le consegna alla sua Signora che delicatamente le raccoglie e le ripone di nuovo nella veste bianca del macehual.

Hijo mío, el más pequeño,

estas variadas flores son la prueba, la señal que llevarás al obispo (ivi: 137-139, vv. 659- 661).

Juan Diego, animato da una nuova speranza, stringe gelosamente a sé quel misterioso premio e raggiunge la residenza vescovile. Al vederlo arrivare e turbati dalla sua presenza, alcuni frati gli sbarrano il passo, tentando, senza riuscirvi, di sottrargli il contenuto del suo mantello. Dopo una lunga attesa, l’indio può finalmente inginocchiarsi

80 Questi versi, che incontriamo scolpiti sulla facciata principale della nuova Basilica del santuario

di Città del Messico, risultano particolarmente importanti perché sanciscono la maternità di Maria Guadalupe sulla popolazione messicana.

117 ai piedi del sacerdote que gobierna e raccontare le meraviglie a cui ha assistito. Poi, con cura, dispiega il suo mantello.

Y extendió luego su blanca tilma en cuyo huecco estaban las flores. Y al caer al suelo

las variadas flores como las de Castilla, allí en su tilma quedó la señal,

apareció la preciosa imagen de la en todo doncella Santa María, su madrecita de Dios,

tal como hoy se halla, allí ahora se guarda, en su preciosa casita, en su templecito,

en Tepeyac, donde se dice Guadalupe (ivi: 151, vv. 835-847).

Al vescovo non resta che accettare quel portentoso segnale e inginocchiarsi lui stesso ai piedi dell’immagine. Poi, presa in consegna la tilma miracolosa, il giorno seguente si fa accompagnare sul luogo delle apparizioni dove avrebbero eretto la preciosa casita. Il cuore di Juan Diego è tuttavia ancora turbato per la malattia dello zio e, allontanatosi dal Tepeyac, si avvia verso Cuauhtitlán dove trova Juan Bernardino completamente risanato e a cui la noble señora, nella sua quarta e ultima apparizione, ha concesso non solo la guarigione ma, ancor più prezioso regalo, di venire a conoscere il nome con cui da allora ci si sarebbe avvicinati alla sua preziosa immagine: “la del todo doncella/ Santa María de Guadalupe” (ivi: 157, vv. 932-933).

L’immagine, che il vescovo inizialmente custodisce presso le sue stanze, viene poi riposta nel nuovo tempio e da allora continua a richiamare milioni di pellegrini:

Y todos a una,

toda la ciudad se conmovió, cuando fue a contemplar, fue a maravillarse, de su preciosa imagen.

Venían a conocerla como algo divino, le hacían súplicas.

118 cómo por maravilla divina

se había aparecido

ya que ningún hombre de la tierra pintó su preciosa imagen

(ivi: 159, vv. 953- 964).

La storia contenuta nel Nican mopohua, che grazie all’eleganza poetica dell’autore ci consegna gli avvenimenti del Tepeyac in un testo ordinato e strutturato, non sembra tuttavia essere frutto esclusivamente dell’ingenium di Antonio Valeriano. Stando allo studio delle fonti contenuto nel lavoro di Xavier Noguez possiamo far risalire al 1537 le prime testimonianze scritte che attestano la diffusione del culto guadalupano: nel testamento di Bartolomé López, infatti, viene menzionata la “casa de Nuestra Señora de Guadalupe” (Noguez, 1993: 87), indicazione che, sebbene non confermi la storicità delle apparizioni, rappresenta “la cita más antigua referida al culto guadalupano” (ibidem). Al di là della verità della mariofania, ciò che questo dato ci permette di dimostrare è la presenza della devozione già in epoche molto remote. Inoltre, dobbiamo tener presente la versione contenuta nella “relación primitiva” (León-Portilla, 2012: 32) dell’Inin hueitlamahuilzoltzin (“Questa è la grande meraviglia”), manoscritto in nahuatl di cui non conosciamo autore e anno di produzione e che racconta, anche se con un testo più breve e meno poetico, gli stessi eventi del Nican mopohua:

Nuestra Señora de Guadalupe

este es el gran milagro de Nuestro Señor Dios se dignó obrar a través

de la siempre doncella [Virgen] Santa María [...] [...] Ella se dignó llamarle, se dignó decirle: e más pequeño de mis hijos, anda al interior de la gran ciudad de México y díle al que allí gobierna en lo religioso, el arzobispo que con gran deseo quiero que aquí en Tepeyacac me hagan una habitación me levanten mi digna casa [...]

(vv. 1-4, 16-22 in Noguez, 1993: 205-206)81.

119 Il racconto di Valeriano, allora, redatto probabilmente nello stesso anno della Información commissionata dal vescovo Alonso de Montúfar – indagine volta a confermare l’effettiva miracolosità della tilma – risponde in realtà alla necessità di normalizzare in un testo scritto la tradizione orale ormai già diffusasi da circa vent’anni. La presenza di stili diversi all’interno del testo ha portato Ángel María Garibay a ipotizzare l’esistenza di un gruppo di autori nato nel Colegio di Tlatelolco che, sotto la guida del maestro Sahagún, aveva raccolto diverse informazioni per poi riunirle all’interno di un unico corpus. La teoria di Garibay non sembra però trovare conferma nell’analisi di Noguez e di León-Portilla, che invece imputano l’eterogeneità stilistica alle differenti versioni della tradizione riorganizzate da Valeriano, con o senza collaboratori, nel testo che conosciamo. Non sembra credibile pensare che proprio fra’ Bernardino de Sahagún, che nella sua Historia general si esprimerà contro il culto del Tepeyac, abbia potuto dirigere un gruppo di lavoro che si preoccupasse di riorganizzare la storia della mariofania. Tuttavia, non si hanno ancora informazioni certe sull’effettiva genesi del componimento anche se è molto probabile che l’autore abbia attinto alla devozione popolare prendendo in prestito quelle espressioni che meglio riproducono, nell’immaginario indigeno, la vulgata delle apparizioni. Come ci dimostra ancora una volta León-Portilla, è possibile rintracciare nei versi del Nican mopohua alcuni passaggi presenti nei cantares mexicanos, manoscritti del XVI secolo appartenenti alla tradizione orale e ad autori specifici, in cui ritroviamo la più alta espressione dell’eredità filosofica della cultura indigena.

Allí vi las variadas, preciosas, fragrantes flores,

las amadas flores cubiertas de rocío, con los resplandores del arcoiris. Allí me dicen:

corta, corta flores, las que prefieras [...]

Yo las pongo en el huecco de mi tilma (in León-Portilla, 2012: 54).

120 Questi versi, esempio dei molti echi letterari presenti nel corso del poema82, assomigliano

senza dubbio a quelli composti da Valeriano nella scena del ritrovamento delle rose sulla cima del Tepeyac:

allí verás

extendidas flores variadas. Córtalas, júntalas,

ponlas todas juntas, baja en seguida,

tráelas aquí delante de mí. Y luego Juan Diego subió al cerrito

y cuando llegó a su cumbre, mucho se maravilló

de cuántas flores allí se extendían, tenían abiertas sus corolas,

variadas flores preciosas, como las de Castilla, no siendo aún su tiempo de darse.

Porque era entonces cuando arreciaba el hielo. Las flores eran muy olorosas, eran como perlas preciosas, henchidas del rocío de la noche. En seguida comenzó a cortarlas, todas las vino a juntar

en el hueco de su tilma (ivi: 135-137, vv. 620-641).

Per comprendere il sincretismo del Nican mopohua, in cui ritroviamo non solo ispirazioni letterarie della tradizione indigena ma la concezione filosofica nahua a servizio del messaggio cristiano incarnato dalla Virgen, dobbiamo necessariamente ritornare sulla figura dell’autore. Antonio Valeriano, di fatto, è un elemento chiave per entrare nell’universo simbolico che ruota attorno alla mariofania guadalupana. Grazie alla formazione umanistica acquisita al seguito dei francescani di Tlatelolco, alla profonda conoscenza del nahuatl che dimostrerà anche in occasione delle collaborazioni con

82 Richard Nebel presenta, in uno schema che confronta il Nican mopohua con la versione di Lasso

de la Vega e dei cantares (1995: 229-231), un elenco delle locuzioni della poesia indigena rintracciabili nel testo di Valeriano.

121 Sahagún e Torquemada, alla familiarità con la tradizione locale, all’inserimento come funzionario all’interno della macchina istituzionale coloniale, in Valeriano, “el principal y más sabio” (Sahagún, 2009: I, 93), troviamo la sensibilità di entrambe le componenti, europea e indigena, che vanno sempre più contaminandosi attraverso un processo di transculturazione. Valeriano compone un’opera sincretica come sincretico è il suo autore, depositario di una doppia eredità in cui convivono le due anime della nuova ibridizzazione culturale. Il testo del 1556, infatti, si avvale di un’impalcatura in cui il cogito nahua si mischia e si confonde al vangelo cristiano e il logos pagano ci consegna il verbum di Dio disegnando la nascita del Messico alla Storia della Salvezza. Il racconto di Valeriano propone “una exposición de ideas clave en el pensamiento cristiano, arropadas en el lenguaje y forma de concebir el mundo de los pueblos nahuas” (León-Portilla, 2012: 68), offrendoci un testo abbellito dalle perifrasi e dalle sfumature stilistiche tipiche della tecpilahtolli, la lingua colta nahuatl, ma impregnate della nuova sensibilità cattolica. Il sincretismo, dapprima testuale, si esprime poi nella scelta del depositario del messaggio divino. Non deve stupirci, infatti, che la persona deputata all’incontro con la madre di Dio sia proprio un macehual, appartenente cioè alla classe più umile della piramide sociale azteca: scelta che sovverte lo schema indigeno, rientra invece perfettamente in quella che Paul Ricoeur chiama la “logica di Gesù” (2009). Il messaggio cristiano, vestito della simbologia nahua, si compenetra alla visione del mondo indigena dando vita a una “narración intercultural” (Nebel, 1995: 218) in cui “lo cristiano se hace mexicano” e “lo mexicano se vuelve cristiano” (ivi: 219). Incontro di due orizzonti spirituali e di due differenti modalità rappresentazionali, il Nican mopohua è il primo prodotto letterario della mexicanidad, di un’identità sincretica che nasce e si sviluppa dalla fusione di due radici diverse innestatesi l’una nell’altra. Senza entrare nei dettagli linguistici che il testo propone nell’arco della narrazione83, vogliamo tuttavia citare l’espressione “Teotl Dios”,

esempio che crediamo possa essere emblematico della natura mestiza del racconto e che spiega come la teologia peninsulare penetri nell’orizzonte indigeno sotto le vesti della filosofia religiosa nahua. I primi evangelizzatori non avrebbero mai autorizzato l’uso di Teotl come sinonimo di Dios, sia per evitare “la confusione con i ‘falsi dèi’” sia per “la sua particolare ampiezza semantica, che permetteva di riferirlo alle entità più diverse” (Lupo,

122 2015b: XXXV). L’accostamento di questi due termini, impensabile nel periodo appena successivo alla Conquista, al tempo di Valeriano è invece la dimostrazione di un cambiamento in corso, del passaggio dal passato indigeno a un avvenire evangelizzato sempre più vicino e concreto. La ripetizione dello stesso vocabolo in lingue diverse rappresenta, allora, una vera e propria tra-duzione culturale: identificare il Dios cristiano nel Teotl azteco non è semplicemente la presentazione del corrispettivo linguistico ma un atto cosciente e voluto di conversione e identificazione con la nuova realtà cristianizzata. L’intero racconto, bellissimo esempio dell’espressione letteraria indigena, è veicolo di un universo simbolico che di fatto mira alla trasmissione di una più complessa e articolata concezione filosofica, a metà strada tra il pensiero nahua e quello cristiano.

Alla luce di questa breve analisi, il Nican mopohua appare chiaramente come un testo di senso stratificato, portatore di una serie di significati che vanno ricercati nella struttura sintattica della composizione, nelle citazioni intratestuali e nella logica della rivelazione mariana. Se guardiamo al canto degli uccelli con cui si apre il racconto e all’immagine che resta impressa al cadere delle rose dalla tela, ci apparirà evidente il riferimento alla metafora del flor y canto. Per la cultura indigena, come abbiamo visto, questo difrasismo sta a significare l’idea di poesia ma anche, secondo una più profonda riflessione filosofica, l’idea di verità. Il linguaggio poetico, infatti, è il linguaggio della trascendenza, capace di mettere l’uomo in comunicazione con la parte più intima e vera di sé. La poesia, espressione massima del bello e del vero, è dunque il luogo in cui l’uomo vive un’esperienza interiore che lo porta alla conoscenza di “aquello que puede tenerse como verdad” (León-Portilla, 2012: 46). Secondo questa prospettiva, che vede il Nican mopohua come emanazione del flor e del canto, della verità che si esprime attraverso la bellezza, il testo si colora di un nuovo significato simbolico se considerato nel nuovo contesto religioso: verità rivelata, “su reverenciada palabra” (ivi: 107, v. 225) assume sempre più l’aspetto della Sacra Scrittura. Il Nican mopohua, allora, dota la Nuova Spagna di un testo sacro autoctono, in cui l’immagine messianica di Tonantzin-Guadalupe rappresenta il cuore pulsante del nuovo vangelo messicano.

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