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3.2 L’immagine cristiana e il nuovo universo di pensiero

3.2.1 La riconnotazione dell’iconosfera azteca

Accanto all’eliminazione fisica della casta sacerdotale indigena, ciò che permette al cristianesimo di instaurarsi e dominare l’immaginario spirituale locale è la profonda manipolazione dell’universo iconografico autoctono attraverso l’inserimento di un nuovo modello di pensiero. Manipolazione che trova vantaggio nella struttura simbolico-visuale azteca in cui gli evangelizzatori possono inserire nuove immagini di sostituzione simbolica. “La sistematizzazione di un metodo per mezzo del quale i fruitori sono preparati a reagire empateticamente a immagini visive offre possibilità di penetrazione in comportamenti e pratiche che hanno poco o nulla a che fare col contesto” (Freedberg, 2009: 260). Gli Aztechi hanno di fatto una cultura prevalentemente visuale che ha fatto dell’immagine un elemento costitutivo della propria identità e su cui hanno costruito un intero universo simbolico. Il legame che unisce l’uomo azteco alle immagini – siano esse raffigurazioni del divino, racconti mitologici o note commerciali – si rende evidente in tutti gli ambiti della società, rappresentando queste il più grande veicolo di comunicazione ed espressione individuale e collettiva. Si pensi ancora una volta all’ixiptla che, come abbiamo già descritto, non ha la funzione di richiamare l’aspetto della divinità ma, anzi, di produrre la sua presentificazione per mezzo del disfraz rituale. L’ixiptla non è una struttura di rimando a una realtà altra, una forma di rappresentazione di un referente assente ma, al contrario, ha il potere di incarnare l’entità di cui si fa figura vivente tramutandosi nella dimora terrena del dio. L’uomo-ospite che indossa i paramenti rituali non è amministratore della cosa sacra ma è egli stesso la cosa sacra in persona e, mentre il dio prende vita nell’immagine, uomo e maschera si fondono in un’unica forma. Altro esempio emblematico dell’importanza dell’elemento visuale è la ricchezza simbolica del nahuatl. La cultura azteca ha prodotto una lingua dal profondo spessore poetico41 che

esprime il proprio orizzonte filosofico attraverso una raffinata composizione simbolica. Caratterizzato dall’utilizzo frequente di metafore, parallelismi e sineddochi, il nahuatl è la verbalizzazione di un articolato e affascinante linguaggio figurativo. Pensiamo, ad esempio, al difrasismo, procedimento retorico “que consiste en expresar una misma idea por medio de dos vocablos que se completan en el sentido, ya por ser sinónimos, ya por

41Per definizione «Nahuatlahtol-li», e cioè “la lingua nahuatl”, significa «lingua dal suono chiaro e

61 ser adyacentes” (Garibay, 1961: 115). Tra i difrasismos più conosciuti ricordiamo «in xochitl, in cuicatl» (“fiore e canto”), e «mixtitlan ayauhtitlan» (“tra nubi e nebbia”), parole che insieme esprimono rispettivamente l’idea di «poesia» e di «teofania/presenza divina»42. Di matrice essenzialmente simbolica, questo procedimento retorico fa

letteralmente apparire il concetto senza che questo venga effettivamente letto/pronunciato. L’importanza delle immagini nella lingua nahuatl diviene più che mai evidente nella forma scritta: la pittografia, che non si serve di elementi alfabetici ma di glifi, espressioni iconografiche che riproducono in figure le voci del linguaggio, è una vera e propria scrittura per immagini. Se “le immagini sono parole visibili che stanno per oggetti” (Spinicci, 2008: 68), la scrittura pittografica rappresenta una duplicazione in immagine del reale, una composizione deduttiva e riproduttiva capace di raffigurare oggetti concreti, luoghi, persone e concetti astratti. Per gli Aztechi la parola è un’immagine e solo in quanto tale può essere ritrasmessa e comunicata, sia essa proclamata nei versi di una poesia o dipinta su rotoli di papel amate43. L’immagine è dunque un elemento fondante

della cultura indigena, all’interno della quale ricopre un ruolo importantissimo: attraverso le immagini, infatti, la comunità trasmette la propria storia e si racconta nel tempo, vive la presenza concreta della divinità e dà forma alle figure astratte del pensiero.

Sebbene gli Spagnoli non comprendano da subito la complessità e i contenuti dell’iconosfera azteca, tuttavia ne intuiscono immediatamente l’importanza funzionale. Inserendosi all’interno del sistema iconico indigeno, la macchina evangelizzatrice sfrutta il canale visuale per modificare e sradicare dall’interno l’immaginario iconografico autoctono. L’irreparabile destrutturazione della società azteca stravolge i suoi caratteri identitari proprio a partire dallo smantellamento della sua impalcatura di immagini rituali e simboliche. Nell’immagine che un popolo produce di sé, infatti, si deposita

42 Uno dei passi più conosciuti in cui viene utilizzato questo difrasismo è probabilmente contenuto

nel capitolo XVI del libro XII della Historia General de las cosas de Nueva España in cui fra’ Bernardino de Sahagún, raccontando il primo incontro tra Montezuma e Cortés, avallerebbe la teoria secondo cui gli indigeni credettero, in un primo momento, che gli Spagnoli fossero degli dei: “Señor nuestro, ni estoy dormido ni soñando; con mis ojos veo vuestra cara y vuestra persona. Días ha que yo esperava esto; días ha que mi coraçón estava mirando a aquellas partes donde havéis venido. Havéis salido de entre las nubes y de entre las nieblas, lugar a todos ascondido” (Sahagún, II, XII, xvi [1575-1585] 2009: 387).

43 Dal nahuatl «amatl»: «carta». Supporto per scrittura ottenuto dalla lavorazione della corteccia e

62 l’eredità culturale, religiosa, artistica e filosofica che in quel riflesso materiale trova la propria affermazione esistenziale, ma privare un popolo di questo patrimonio artistico- visuale, sradicandone l’apparato iconografico ed eliminando così la sua eredità culturale, equivale a celebrarne un’autentica damnatio memoriae.

I templi sono distrutti, gli archivi bruciati e i calmecac44 chiusi per sempre. Tra le rovine e

le fiamme non sembra essere rimasto più nulla a narrarne la memoria, a suscitare orgoglio e meraviglia mentre gli Aztechi assistono alla morte della propria identità. I figli della nobiltà vengono educati nei nuovi istituti francescani e così il sapere degli antichi padri svanisce definitivamente da quelle giovani menti ormai modellate sul neoplatonismo rinascimentale e la dottrina riformista. Gli anni che vanno dal 1525 al 1540 sono anni di persecuzioni e devastazioni, a cui, tuttavia, alcune pratiche devozionali riescono a sopravvivere nella clandestinità. A partire dal 1540, però, un nuovo giro di vite fa tremare la Nuova Spagna e il vescovo Zumárraga si adopera allo smantellamento delle forme di culto indigene. Svuotare e riconnotare sembra essere il diktat della sistematica distruzione delle immagini che l’evangelizzazione realizza in tutti i territori conquistati, eliminando ogni traccia di quella che agli occhi della Chiesa appariva come la più pericolosa delle idolatrie.

Nel corso dell’opera di evangelizzazione, l’imposizione religiosa non modifica semplicemente la struttura devozionale degli indios ma li costringe a un cambiamento molto più profondo e intimo di cui la conversione al cristianesimo appare soltanto come la conseguenza esteriore. Di fatto conquistatori ed evangelizzatori impongono, insieme all’adorazione della croce e al culto della Vergine e dei Santi, un nuovo sistema di valori che si inscrive in un orizzonte di pensiero del tutto sconosciuto e alieno ai neofiti conquistati. Si pensi, per prima cosa, alla profonda distanza culturale che intercorre tra la gestione delle immagini sacre del cristianesimo e quella dei sacerdoti di Montezuma. Le icone, non essendo un prolungamento dello Spirito di Dio, possono essere riprodotte e diffuse secondo la fattura e il numero desiderati. La loro distribuzione e installazione in cappelle, chiese, santuari, strade, abitazioni private ed edifici pubblici è quanto mai auspicata mentre le effigi azteche “erano costantemente nascoste nell’oscurità dei

44 Nahuatl: “«nella fila di case», tempio-scuola in cui venivano educati i figli degli appartenenti alla

63 santuari, lontano dalla folla, visibili solo periodicamente, sottoposte a rigide regole la cui infrazione equivaleva a un ‘sacrilegio’” (Gruzinski, 1991: 50). Come riporta Juan de Torquemada nella sua descrizione di Huitzilopochtli, il dio “tenía una máscara de oro para denotar que la deidad es encubierta y que sólo se manifiesta con máscara [...] por ser la divinidad oculta de los ojos de los hombres, los cuales no pueden verla” (Torquemada, [1615] libro VI, cap. XXXVII - 1976: 112). All’esposizione onnipresente dell’icona cristiana si contrappone la cultura indigena del nascondimento, che mantiene le divinità al riparo dallo “sguardo dei comuni mortali” in quanto “il loro contatto è riservato ai nobili” (Gruzinski, 1991: 72). La contrapposizione manifestazione/occultamento poggia, come è ovvio, sulla differenza della natura dell’oggetto: se per i cristiani l’immagine è semplicemente un medium45, per gli Aztechi è esattamente il luogo in cui la divinità

risiede.

Si pensi, poi, alla difficoltà di espressione linguistica riguardo alla nuova concezione morale. Secondo quanto ci racconta fra’ Toribio de Benavente (2001: 173-174), durante il sacramento della riconciliazione indios e confessori devono necessariamente affidarsi al disegno dei peccati poiché il nahuatl (come le altre lingue autoctone) non dispone, nel suo vocabolario etico, di parole che corrispondano alla trasgressione della legge mosaica. Proprio a causa dell’insormontabile barriera linguistica, i predicatori fanno ricorso a supporti iconografici per spiegare i misteri delle fede con l’ausilio del racconto per immagini. A partire dal 1570 “la ‘pintura’ oratoria” diviene pratica comune e gli evangelizzatori possono “dibujar antes los oyentes el sentido vivo de la Sagrada Escritura” (González García, 2015: 240).

Pues como en aquel que mira una imagen, para aficionarse a ella y desear tenerla para sí, es necesario que el pintor46 delinee los sentidos vivamente y con la máxima propriedad de

sus miembros y los lleve a la perfección; ya que esto es lo que más exita a la mente del que ve para ser captado por el deseo (que si por el contrario, la figura de la misma imagen no fuera perfecta sino delineada con alguna forma rústica y vulgar y careciendo de la

45 Tuttavia alcuni frati, sebbene ritenessero gli idoli privi dell’Essere divino, distruggono e

sequestrano le immagini degli indios neofiti a conferma della loro effettiva conversione. “Se gli idoli non sono dei ma ‘cose cattive’ che ‘ingannano’ gli indiani (Cortés), mantengono, per ammissione degli stessi stranieri, un’esistenza e un potere ancora apprezzabili, e in ogni caso sufficienti ad aprire la strada a ogni sorta di confronto, di scambio, di sostituzione o associazione tra le divinità dei due mondi” (Gruzinski, 1990: 49).

64 proporción de sus miembros que la misma naturaleza pide, no provoca sino risa y desprecio a los que la ven), del mismo modo vemos que sucede en la doctrina evangélica. [...] En efecto, para que el oyente pueda realmente evitarlo y aborrecerlo es necesario que el predicador sea tal que pueda pintar y presentar al pueblo el rostro del pecado con cierta propriedad, como está en él (Segovia, 1583, lib. 1, cap. 139).

Il predicatore, non potendo più contare sulle forme articolate della retorica ecclesiastica, diviene, come descrive Juan de Segovia, pintor della parola che, attraverso un nuovo linguaggio plastico e servendosi di supporti iconografici, racconta per immagini la Parola di Dio. “No se intentaba conceptualizar la imagen, sino dar los conceptos hechos imágenes descritas” (González García, 2015: 238). A causa delle difficoltà comunicative con la popolazione indigena, si assiste a un cambiamento epocale nella storia della predicazione kerigmatica. La cultura cristiana, fondata sull’ascolto della Parola47 poiché,

come recita la pericope paolina, “la fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo” (Ro 10, 17), diviene in Nuova Spagna una cultura del visuale, in cui lo sguardo sostituisce l’orecchio. Abbandonata l’oratoria del docere, i sermoni, affiancati dalla “supralengua” (González García, 2015: 255) della mimica gestuale, puntano ora a movere gli ascoltatori/spettatori. Corpo, linguaggio e icona si amalgamano in quella che più che a un’omelia assomiglia a una performance teatrale, confermando ancora una volta lo straordinario potere delle immagini. La predicazione visuale, infatti, può contare anche sul supporto di tele didattiche come quelle ideate da Jacobo de Testera, frate francescano arrivato in Nuova Spagna nel 1529 che,

como no pudiese tomar tan en breve como él quisiera la lengua de los indios para predicar en ella, no sufriendo su espíritu dilación, dióse á otro modo de predicar por intérprete, trayendo consigo en un lienzo pintados todos los misterios de nuestra santa fe católica, y un indio hábil que en su lengua le declaraba á los demás todo lo que el siervo de Dios decia, con lo cual hizo mucho provecho entre los indios, y tambien con representaciones, de que mucho usaba” (Mendieta, libro V, cap. XLII).

Inoltre Pedro de Gante, primissimo predicatore “audiovisuale”, compone nel 1527 un piccolo catechismo pittografico (Sánchez Valenzuela, 2003: 194-237) in cui, attraverso la

47 “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore” (Dt 6, 4). Questo l’incipit della

Shemà (letteralmente “Ascolta”), preghiera che gli Ebrei recitano due volte al giorno in memoria dell’alleanza d’amore con Dio e che contiene alcuni versetti tratti dal libro dei Numeri e del Deuteronomio. Fondamentale per la cultura veterotestamentaria, infatti, è il porgere l’orecchio, l’accoglienza della Parola, l’ascolto della voce di Dio.

65 destrutturazione e ricostruzione degli elementi grafici indigeni, dipinge quei glifi la cui lettura assomiglia foneticamente alle parole del catechismo cristiano.

Por ejemplo, para leer «amén», se usó el símbolo de atl (agua), unido al de metl (maguey, planta de la familia de los agaves), con lo que se leía «a-mén» o bien, para leer « Padre nuestro», se usaron tres glifos: el de pantli (bandera), unido al de tetl (piedra), que se leería como «Pa-ter», y el símbolo de nochtli (tuna), unido tembién al de tetl, que se leería como «noster» (Valero de García Lascurain, 2014: 50).

Con il tempo vengono elaborate le più diverse soluzioni di scrittura pittorica, tutte volte alla ricodificazione di un nuovo linguaggio simbolico che potesse essere comprensibile ed efficacie. Non solo vengono evidenziati in maniera stilizzata ed enfatica gli elementi iconografici che nella tradizione cristiana identificano la Vergine, gli angeli e i Santi, ma viene totalmente stravolto l’intero sistema pittografico, in cui la relazione tra segno e significato viene ristabilita ex novo dai predicatori spagnoli. Grazie all’opera di frati quali Pedro de Gante, Jacobo de Testera e Diego Valadés48 la predicazione può confidare

nell’aiuto di vere e proprie enciclopedie figurative, indispensabili per la riuscita della comunicazione evangelica, giacché “para los indios el mejor medio es la pintura” (Códice franciscano, 1941: 59). E così vengono creati nuovi glifi per nuovi concetti, usati di vecchi ma per esprimere significati diversi, modificati altri per creare nuovi fonemi. In questa grande opera di travestimento iconografico, in cui i vecchi segni si piegano a veicolare i nuovi contenuti cristiani, l’evangelizzazione si appropria delle forme artistiche ed espressive indigene per svuotarle del loro senso originale e collocarle su un nuovo orizzonte semantico. “«Idoli» e immagini”, segnala Serge Gruzinski, “sono al centro di un’operazione di negazione e ridistribuzione del divino in cui già si configura, dietro l’occidentalizzazione, l’ombra della secolarizzazione” (1991: 56). La guerra delle immagini procura danni meno spettacolari se comparati al lavoro forzato, alle violenze corporali, all’insostenibile sistema tributario, alle epidemie e a tutte le drammatiche conseguenze della Conquista, ma tuttavia altrettanto profondi e devastanti. L’evangelizzazione non stravolge soltanto la rappresentazione in immagine dell’identità azteca – cambiando semplicemente la forma espressiva di tratti culturali che restano invariati – ma condanna,

48 Discepolo di Pedro de Gante, sviluppa le immagini testeriane in stile “metapittorico”, illustrando

su lamina l’organizzazione delle catechesi e l’amministrazione dei sacramenti (de la Maza, 1945: 35-41).

66 impoverisce, svuota ed elimina un intero universo simbolico che viene sostituito da un sapere estraneo, fatto di filosofie e modi rappresentazionali del tutto alieni alla cultura di origine. La memoria visuale collettiva viene annullata attraverso una riconnotazione culturale che sradica l’identità indigena in tutte le sue manifestazioni (religiose, politiche, sociali, artistiche, esistenziali) per essere rimodellata sulla base di un nuovo repertorio iconografico.

La grande opera di acculturazione pone le basi di quel “proyecto sustitutivo” (Bonfil Batalla, 1994: 106) che nega il valore culturale dei vinti. Gli Aztechi si riducono allora a una massa indiscriminata e omogenea di indios che, privati della dignità di uomini e dell’identità etnico-culturale, subiscono un processo di livellazione – e quindi di annullamento – basato sulla sostituzione degli elementi costituenti della società indigena. L’icona cristiana, che rimpiazza le statue e le raffigurazioni pagane, diviene quindi il nuovo interlocutore divino con cui trovare una nuova via verso il trascendente.