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6.3 Miguel Ángel Tenorio e il tiempo mexicano

6.3.2 Storia di un eterno presente

Travesía guadalupana, riunendo in un’unica storia moderna alcune tra i miti e i personaggi più importanti del passato indigeno, porta sulla scena contemporanea non solo quella che impropriamente potrebbe sembrare la rappresentazione di una “essenza identitaria” ma piuttosto il racconto della manifestazione di una coscienza, di uno spirito direbbe Vasconcelos89 o, parafrasando Luis Villoro, di uno stile umano del vivere (Villoro, 1990:

14). La travesía è un vero e proprio viaggio nelle immagini della memoria che appartengono allo statuto ontologico della storia nazionale e che confluiscono in un’unica grande metafora liturgica. Travesía guadalupana è la teatralizzazione del tiempo mexicano, ovvero del tempo così come viene percepito in una società in cui l’eredità indigena, presente e palpabile nelle sue più diverse espressioni religiose e artistiche, non resta relegata a una archeologia della storia ma si fa proiezione quotidiana e presente nella vita di un popolo che si divide tra la messa domenicale ed evolute forme di paganesimo. Il “tempo messicano” è un gerundio dell’essere che esprime una perenne e mutevole esistenza: non è un passato remoto che semplicemente riaffiora nella vita mentale dei suoi abitanti ma è un essendo che si esprime in un eterno presente. L’immaginario, allora, non

89 José Vasconcelos è autore del celeberrimo motto dell’Universidad Nacional Autónoma de

174 cammina lungo la linea retta che divide la storia tra l’epoca pre-cortesiana e la modernità cristiana, ma abita lo spazio di una superficie aperta in cui i diversi livelli temporali coincidono in un unico, magmatico “destiempo” (Fuentes, 1997: 16). Nella percezione cronologia messicana il passato è quindi vivo nel presente, in un continuum in cui di fatto non sembra esserci alcuna separazione: “entre nosotros”, scrive Carlos Fuentes, “no hay un solo tiempo, todos los tiempos están vivos, todos los pasados son presentes” (ivi: 9). Palinsesto riscrivibile all’infinito, dove la cristianità si instaura sulla teologia indigena che a sua volta compenetra nel mondo ormai cristianizzato, la storia messicana quasi galleggia in un limbo antistorico “in cui” – direbbe Benjamin – “quel che è stato si unisce fulmineamente con l’adesso in una costellanzione” (Benjamin, 1986: 598). I diversi livelli temporali si fondono e non vi è alcuna divisione tra un “prima” e un “dopo” ma tutto si svolge in “una simultaneità di passato e futuro in un presente istantaneo” (Anderson, 2009: 40). Sospendendo la normale concatenazione degli eventi, e cioè “rendendo presente il passato o, detto altrimenti, rendendo il passato alla sua dimensione di ‘presenza’ sempre in istanza, sempre sulla soglia dell’istante, dell’accadere” (Ferrari, 2013: 37), il testo di Tenorio ci introduce allora in una dimensione in cui tutti i tempi si contraggono in un unico tempo, un super-tempo in cui non esiste una lineare successione di eventi ma la riconversione di un fenomeno nell’altro, lo smembramento di un simbolo nelle sue possibili derivazioni e la trasformazione di una figura nel suo doppio.

Sullo sfondo di questo costante mutamento si muovono i personaggi di Travesía guadalupana, immagini mitiche e sincretiche che raccontano la storia difficile e dolorosa, dell’innesto tra i due mondi. Nella complessa impalcatura simbolica dell’opera, la tradizione indigena si fonde alla teologia cristiana, portando sulla scena le compenetrazioni di un “sistema religioso doble” (Carrasco, 1975: 199). La duplicità e la ripetizione sono elementi essenziali nelle dinamiche simboliche del testo poiché non soltanto esprimono la concezione azteca della circolarità del tempo e la mutevolezza degli dei che si sdoppiano più e più volte appropriandosi di attributi di altri dei (Botta, 2004: 85- 86), ma disegnano la fisionomia di un sincretismo stratificato che, appartenendo a una dimensione atemporale della storia, appare come un processo ancora in atto di negoziazione semantica. Tutto quanto avviene sulla scena, infatti, è investito di un grande valore simbolico, a partire, ovviamente, dal personaggio di Guadalupe. Dopo la sorpresa

175 iniziale di trovarci ad assistere all’incarnazione dell’icona, in cui la Virgen si anima in un corpo di carne e prende la parola, nel momento in cui appare la personificazione di Coatlicue, “colei che ha la gonna di serpenti”, capiamo che quello che abbiamo davanti non è il racconto rivisitato del Nican mopohua ma la parabola di un immaginario presente, di un insieme di momenti che appartengono alla parte più intima e viscerale del pubblico messicano. Coatlicue, che appare tra la folla con in mano una scopa, riproduce il mito mexica che la vuole occupata a spazzare la montagna di Coatepec prima di essere ingravidata da un gomitolo di piume (Pranzetti, 2015). Rappresentata dall’iconografia azteca come una divinità spaventosa e imponente, patrona della vita e della morte, Coatlicue si dichiara inizialmente nemica di Guadalupe ma quando, finalmente, la riconosce come parte della grande storia, stringe con lei una tregua che le porterà a fondersi, simbolicamente, nell’immagine di un’unica madre. Di fatto Guadalupe, che nella tradizione cristiana rappresenta la nuova madre dei Messicani, sul palcoscenico di Tenorio si riconoscerà come figlia di Coatlicue:

GUADALUPE: Y ahora dispongo que a nuestra madre Coatlicue la coloquemos al centro de

la tierra, porque ella pertenece a la tierra y sólo así, estando en contacto con la tierra, podremos esperar su resurrección (Tenorio, 1996: 417).

La bellezza di questo passaggio, in cui il passato e il presente smettono di essere forze conflittuali e trovano finalmente un equilibrio, è metafora di un’evoluzione culturale che da un lato depone la dea indigena nel profondo della propria intimità mentre dall’altro innalza la madre cristiana sul grande altare della patria.

Come nel testo di Óscar Liera, anche qui si ripropone poi l’antagonismo tra Guadalupe e Remedios ma, a differenza della comicità di Cúcara y Mácara, la riflessione di Tenorio verte sulla duplicazione dell’immagine di Maria scomposta in due figure nemiche che, a partire dalla Noche triste, saranno emblemi di due cristianità ormai distinte e rivali90. La

90 Luis de Cisneros racconta nella sua Historia del principio y origen, progresos, venidas a México y

milagros de la santa imagen de Nuestra Señora de los Remedios, extramuros de México (1621) che questa immagine, portata in Nuova Spagna da Juan Rodríguez de Villasuerte e collocata da Cortés sull’altare del Templo Mayor della piramide di Huitzilopochtli come segno di conquista, aveva un’aura talmente potente che fu impossibile per gli indios tentare di toglierla dal tempio. Quando, però, durante la Noche triste gli Spagnoli chiamarono la ritirata, riuscirono a riprendersi l’immagine

176 malleabilità della dimensione temporale si rende visibile anche nelle ripetizioni cronologiche che portano sulla scena una visione ciclica e replicabile della storia. Sullo stesso palco in cui compare la Madonna dei gachupines, infatti, compare anche il dio Huitzilopochtli che decide di ricondurre nuovamente gli uomini ad Aztlán, mitica terra di origine degli Aztechi, per riavvolgere il tempo ed evitare al suo popolo la colonizzazione spagnola:

HUITZILOPOCHTLI: [...] Y yo me los voy a llevar de regreso a Aztlán. La profecía de nuestra madre Coatlicue se cumplió: llegaron los bárbaros a conquistarnos. Pero ahora yo voy a guiar al pueblo de regreso, para hacer de nuevo la historia (ivi: 372).

Interessantissimo, poi, il personaggio di Tlazoltéotl, figura complessa che rimanda a più livelli di ibridismo. Divinità del perdono, è strettamente legata al santuario di Chalma, luogo sacro di origine preispanica a cui i pellegrini si recano attualmente per effettuare grandi immersioni di purificazione. Tenorio, allora, ci presenta una Tlazoltéotl doppia, che porta fisicamente dietro di sé il Cristo nero di Chalma: come due fratelli siamesi attaccati lungo la schiena, i due sono uniti in un unico corpo, rappresentando le due facce e i due momenti del mito. In questo processo di sostituzioni e giustapposizioni, si inserisce anche la figura di Juan Diego che per un momento ci appare come un secondo San Giovanni apostolo ai piedi della croce:

CRISTO: ¡Ay, pero mira, aquí está Juan Diego! Yo lo que no quería era dejarte sola. ¡Qué bueno que llegas, Juan Diego! Quiero pedirte que acompañes a mi madre y que la cuides y que, en fin, la ayudes en todo.

JUAN DIEGO: Así lo haré. Así lo he hecho y así lo seguiré haciendo. CRISTO: Madre, aquí tienes a otro de tus hijos (ivi: 391-392).

Nel sincretismo dei personaggi, allora, si concretizza l’antistoricità dell’opera: grazie alla fusione di queste figure, il tempo si condensa in un’unica grande narrazione in cui al passato del crudele Tezcatlipoca e del violento Cortés, dello spaventato Juan Diego e della furiosa Coyolxauhqui si aggregano, inaspettatamente, i due uomini del popolo e i che, nel corso del secolo successivo, sarebbe diventata il simbolo della devozione dei gachupines in contrapposizione alla devozione criolla per la Virgen de Guadalupe.

177 poliziotti, che trasportano definitivamente lo spettatore nella sua dimensione presente. Un presente in cui lo spirito del passato si è modificato sulle forme della modernità ma che tuttavia continua a pulsare nelle viscere della memoria collettiva:

DIOS: Ahora que todos están a tu merced, aprovecha y desaparece a los dioses paganos. GUADALUPE: No puedo. Yo soy parte de ellos y ellos también son parte de la gente (ivi: 418).

Come già aveva sperimentato Carlos Fuentes in Todos los gatos son pardos, opera teatrale del 1970 in cui l’autore riporta la sua interpretazione delle voci dei cronisti della Conquista, la scena “entierra los mitos cosmogónicos antiguos mostrando los nuevos que están naciendo en el curso histórico” (Martínez, 1982: 745). L’opera, anticipando il patchwork temporale di Tenorio, si chiude con l’improbabile coreografia di una processione in cui, insieme alla Virgen de Guadalupe e ai Mariachi, sfilano sacerdoti vestiti da camerieri, la Malinche da cabarettista, Cortés da generale dell’esercito degli Stati Uniti mentre Moctezuma indossa la fascia tricolore e Cuauhtemoc gli abiti di un giovane alla moda. Come nel caso di Fuentes, se all’inizio della rappresentazione di Tenorio può sembrare che esista un certo grado di separazione tra il passato pagano e il presente cristiano, presto lo spettatore percepisce che l’intera architettura scenica è strumentale per una riflessione sull’attualità della sua identità. La percezione del pubblico, allora, si dilata e si prepara ad accogliere un passato sospeso che, nell’incompiutezza della mutilazione della Colonia, ha trovato la via verso l’eternità del mito. “La paradoja de las promesas en México”, scrive ancora Fuentes, “es que al cumplirse, se destruyen y, al permanecer incumplidas, viven eternamente” (Fuentes, 1997: 10).

Il tiempo di Tenorio, che riunisce su un solo palco miti antichi e moderni in una continuità fluida e naturale, sembrerebbe portare sulla scena la trasfigurazione paradigmatica dei festeggiamenti del 12 dicembre. In occasione della “fiesta por excelencia, fecha central en el calendario emocional del pueblo mexicano” (Paz, 1973: 21), il santuario della Villa viene di fatto travolto da un’interminabile folla di fedeli che, attraverso le pratiche più diverse, rendono omaggio alla Guadalupana. Tra danze tradizionali, offerte di sementi, venditori ambulanti e un tripudio di fiori e stendardi, le televisioni nazioanli registrano l’evento

178 dell’anno intervistando cantanti famosi e semplici pellegrini, immortalando un frammento di eternità. La festa della Madonna di Guadalupe, concentrando in un unico spazio tutti i tempi del tempo messicano, si tramuta in uno spazio mitico, perenne, che prescinde da qualunque cronologia lineare e si accorda al tempo interiore dello spettatore.

El hombre, prisionero de la sucesión, rompe su invisible cárcel de tiempo y accede al tiempo vivo: la subjetividad se identifica al fin con el tiempo exterior, porque éste ha dejado de ser medición espacial y se ha convertido en manantial, en presente puro, que se recrea sin cesar (Paz, 2008: 359-360).

La traversata che Guadalupe compie dalla cornice della sua immagine verso le complessità e le contraddizioni del mondo degli uomini, è dunque simbolo di quel percorso individuale e collettivo in cui il pubblico va incontro alle figure che abitano la dimensione super-temporale, e quindi eterna, del suo immaginario.

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Capitolo settimo

Fenomenologia dell’immagine guadalupana

…non è possibile separare nettamente ciò che vediamo da ciò che sappiamo. Un cieco nato che acquisti più tardi la vista, deve imparare a vedere. Con una certa autodisciplina

e auto-osservazione tutti possiamo scoprire per conto nostro che ciò che chiamiamo vedere è invariabilmente colorito e plasmato dalla nostra

conoscenza (o opinione) di ciò che vediamo. E. H. Gombrich, Arte e illusione (1960)