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D’estate (presso una moschea) e la celebrazione della figura femminile nella produzione serriana.

4. La tastiera composita della poesia serriana.

4.2 Da Stambul a Parigi: il tema del viaggio nella lirica serriana.

4.2.2 D’estate (presso una moschea) e la celebrazione della figura femminile nella produzione serriana.

Sempre tra i componimenti scritti durante il soggiorno in Turchia, anche in D’estate (presso una moschea) (p. 58) l’atmosfera orientale della città offre uno spunto per il componimento. Quattordici versi di endecasillabi, suddivisi in quattro parti, a rima incrociata le prime due (ABBA / ABBA) e rimate secondo lo schema CDE / CDE le

restanti: la struttura tradizionale del sonetto, caratterizzato dall’utilizzo del verso spezzato, che rende più dinamico il componimento.

Nel denso azzurro in cui dormono l’ore, si flettono com’ali ripiegate

candidi gli archi; sulle centinate volte lievita il dòmo, e uno splendore all’apice vi brilla.

Che sopore

in quest’aria soave! Se iridate le palpebre socchiudo, illuminate forme dal buio s’alzano: d’amore ansïose promesse.

Tu… lontana;

e sperso io tremo, a questo odor di frutta e gelsomini.

Ma il sole una tomba

laggiù fra i mirti svela. Oh come vana passasti, gioventù, simile tutta

a stanco batter d’ale di colomba!

Costantinopoli, 1928

Questo sonetto viene pubblicato per la prima volta nel ’36 in Stambul ed altri paesi, all’interno della sezione I canti di Costantinopoli, per entrare poi nel ’65 a far parte di Narciso e Fausto in una versione rivisitata, molto differente dalla precedente ma definitiva, inserita priva di modifiche nell’indice del postumo Canzoniere133. Mettendo a confronto le due versioni si nota visivamente un diverso impiego del verso: classico nella versione del ’36, spezzato a contrassegnare l’inizio dei periodi sintattici in quella del ‘65; numerose differenze si riscontrano anche sul piano delle

133 Il componimento si trova in Stambul ed altri paesi (1936), cit., p. 47, e in Narciso e Fausto (1965),

varianti testuali, a partire dal titolo che da Meriggio d’estate presso una moschea si riduce in D’estate (presso una moschea), dove non risulta più esplicitata l’indicazione temporale, deducibile poi dalla lettura del testo.

Secondo quella che si potrebbe ormai definire una consuetudine serriana, nel primo periodo (1-5) viene definito a pennellate lo sfondo dell’ambientazione: nell’ora afosa del meriggio – il «denso azzurro dove dormono l’ore» – il poeta protagonista trova riparo in uno dei cortili diffusi presso le moschee; numerosi sono quelli che sorgono attorno alla Moschea Blu, tra i quali si distingue per ampiezza il cortile adiacente all’ingresso. È la minuziosa precisione architettonica a rendere possibile questa ricostruzione: a ciascuno dei «candidi archi», piegati come ali di volatile (gli archi a sesto acuto della tradizione araba), forse in marmo (come quelli dei cortili presso la Moschea Blu) che compongono il peristilio, corrisponde la formazione interna di una volta, sulla quale «lievita il dòmo», la cupola, dove «uno splendore / all’apice vi brilla», la punta metallica posta come rifinitura.

Rispetto all’edizione confluita nel postumo Canzoniere, i versi d’esordio della versione di Stambul risultano molto differenti: «Contra ’l celeste orïental colore / si falcano com’ali ripiegate / candidi gli archi», al posto del definitivo «Nel denso azzurro in cui dormono l’ore / si flettono com’ali ripiegate / candidi gli archi». Nel passaggio tra le due edizioni il significato rimane circa il medesimo, ma a cambiare è il lessico che veicola il messaggio, semplificato in funzione di una maggiore spontaneità poetica: nel primo verso si assiste all’epurazione dei tratti marcatamente arcaicizzanti (quali la proposizione «contra» e l’aferesi dell’articolo), da collegare alla soppressione della forte eco dantesca «celeste orïental colore», richiamo del primo canto del Purgatorio («dolce color d’orïental zaffiro», v. 13134); nel secondo verso della prima stesura gli archi «si falcano» come ali, ovvero si piegano a forma di falce, predicato che insiste in modo tautologico sul significato del soggetto, ribadito ulteriormente dalla similitudine «com’ali ripiegate»: nell’edizione definitiva a questo termine viene preferita la lectio facilior «si flettono» che, oltre a creare una forte

assonanza con il termine «dormono» del verso precedente, evita un’inutile ridondanza, muovendosi nella direzione della semplificazione semantica.

Dopo aver definito lo sfondo dell’ambientazione, nel secondo periodo il focus si sposta sulle percezioni del poeta protagonista che, bloccato in uno stato di rilassamento indotto dal caldo afoso (il «denso azzurro» dell’incipit), si trova intrappolato in pensieri sensuali. La luce intensa del meriggio colpisce le sue palpebre iridandole, ovvero imprimendo sulla retina i colori dell’iride, lezione differente rispetto al testo del ’36 dove il poeta socchiudeva le palpebre «abbagliate», termine meno preciso e più generico; i colori dell’iride nel buio disegnano immagini in grado di farlo vagare con il pensiero, di farlo vagheggiare «d’amore / ansïose promesse», espressione musicale grazie al gioco di assonanze e consonanze presente tra i tre termini.

Nella terza parte lo stato di languore, che immobilizza il poeta, lo conduce direttamente al pensiero della moglie, sottointesa nel lapidario «Tu… lontana», pensiero che insiste nel rafforzare il suo smarrimento amoroso: Ettore come «sperso», trema all’odor di «frutta e gelsomini» che si alza dai giardini circostanti (e l’iperonimo «giardini» si leggeva nella versione del ’36), che metaforicamente simboleggiano il profumo femminile.

L’atmosfera ebbra e lasciva che aleggia in questi versi appare tuttavia meno accentuata rispetto alla prima stesura di Stambul, dove il poeta «d’amore / arde, languisce», immagine cui segue l’esplicita invocazione alla moglie («O mia donna lontana / ho sete, e tremo, a questo odor di frutta / e di giardini»). Questa carica sensuale, residuo dell’iniziale vocazione dannunziana del poeta, rappresenta un motivo diffuso nei componimenti di Stambul, soprattutto nella sezione I canti di Costantinopoli, nella quale la celebrazione della sensualità della moglie – «già cupido, nel complice / buio fragrante, / in tumulto sentivo le sue labbra / che rosse mi bruciavano sul cuore» (Grido notturno (A Ida), vv. 28-31, pp. 59-60) – si alterna alla celebrazione di altre figure giovanili – «Ma un fulvo odor d’ascelle, / misto all’incenso / di carnose magnolie», «il gaudio delle calde / sirene, sento, / e chiedo,

imploro, / quella che chiamano / felicità135» (Sera dell’uomo solo, vv. 8-10 e 15-19, p. 48).

L’esaltazione della figura femminile trova ampio spazio anche nei componimenti tratti da Virgulti sulla frana del ‘49, come Circe («Quasi ferina, fulgida, ondeggiando / nella incupita calma del meriggio, / per le rèdole balze arse dal sole», vv. 1-3, p. 51) o Vigilia («Sotto lastre d’ardesia / vo preparando il caldo / nido alla ninfa / che da lontane selve ora mi giunge», vv. 1-4, p. 53), nel quale la donna assume caratteristiche divine. Sette anni dopo, con l’uscita del volumetto Saper di sì, avviene una svolta nella raffigurazione femminile: la malattia e la morte della moglie segnano sia l’abbandono degli accenti sensuali, sia la rappresentazione quasi esclusiva di Ida, che viene spesso sovrapposta alla figura della madre.

Giunti al periodo conclusivo del sonetto, si assiste a un repentino cambiamento di atmosfera: d’improvviso il sole illumina tra i mirti una tomba e la calma voluttà delle prime strofe viene rapidamente cancellata per lasciare spazio all’angoscia, alla dolorosa presa d’atto della caducità umana, del veloce scorrere del tempo che, simile «a stanco batter d’ale di colomba», ha travolto nel suo vortice l’età della giovinezza senza che il protagonista se ne sia accorto. Chiusa di ascendenza leopardiana, come suggerisce l’attributo «vana», il tema della Fine dell’infanzia ricorda anche il componimento omonimo di Montale, dove «la fanciullezza muore in un giro a tondo», senza che i suoi protagonisti abbiano la possibilità di rendersene conto. Il tema dell’inarrestabile scorrere del tempo rappresenta un altro cardine della produzione dell’autore, presente in molte liriche del Canzoniere, come nell’onirica La casa immaginaria («Così dal soleggiato / limitare d’infanzia, / qui mi sorprendo / sulle macerie», vv. 25-28, p. 83), nella quale ancora una volta la brevità della giovinezza viene cantata in opposizione all’età presente, o ancora in Teatro sepolto («non fu iersera, / che all’iridato / lume della candela / ancora si giocava, / e all’urlo del drago / in punta di piedi la mamma / veniva ogni tanto a guardare?», vv. 11-17, p.

135

Le figure femminili che attirano il poeta con la loro bellezza sono appunto denominate «sirene» (a loro è dedicato anche il componimento omonimo raccolto nel Canzoniere (1987), cit., p. 158), per similitudine con il poema omerico, dove Odisseo, come Ettore, si trova lontano da casa e subisce il fascino del loro canto.

80) nella quale associato al rimpianto per il rapido passaggio della gioventù si trova quello per la perdita della madre.

Un’ultima osservazione sulla struttura di questo sonetto. Come in Mattinata a Stambul, il messaggio del testo risulta condensato nella parte conclusiva dove l’atmosfera del componimento cambia, s’incupisce; inoltre, sempre in parallelo al testo precedentemente analizzato, si può notare come l’ultimo periodo sia introdotto dal «ma» avversativo che instaura un meccanismo sia di continuità che di rottura con le parti precedenti: da un lato il «ma» ha valore deittico, rimanda ovvero al già espresso e instaura quindi un rapporto di continuità con i versi che lo precedono (da notare, per esempio, la ripresa in conclusione del termine «ale», già al secondo verso), mentre dall’altra parte rappresenta una rottura dell’atmosfera precedente e veicola un messaggio che può avere anche un significato autonomo, come in questo caso136. Sebbene anche in questo caso le riflessioni serriane scaturiscano dalla peculiarità del soggetto, la possibilità di una lettura autonoma rispetto al contesto proietta le strofe conclusive di entrambi i testi in una dimensione di assolutezza, non sempre riscontrabile nella produzione dell’autore, che rende queste liriche particolarmente interessanti e significative.

136 Una riflessione sull’utilizzo del “ma” avversativo a inizio di strofa si trova in P. V. Mengaldo, Una

LA PENULTIMA «LEZIONE»

– Che ne pensi, Angelo, della cosiddetta «linea ligure» di cui si fa da tempo un certo parlare?

– Penso che abbia ragione Guerrini a negarla, e torto Caproni ad affermarla, ad averla «inventata».

– Però, fra di voi «poeti liguri», ci sono innegabilmente delle sensibili affinità…

Da La penultima «lezione», omaggio di Gherardo Del Colle Per Angelo Barile, Savona, Sabatelli 1967, pp. 27-28